26.8.14

Marlene Dietrich. Ritratto di una diva imprendibile (Tullio Kezich)

Marlene Dietrich con Emil Janning in "L'Angelo azzurro"
Tra Gozzano e Pirandello. L'indimenticata Lola-Lola nell'interpretazione del grande critico triestino.(S.L.L.)
Marlene Dietrich in "Gigolò" 
Era bugiarda la bella berlinese?
«Allo sfiorire della sua stagione / disparve al mondo, sigillò le porte / della dimora e ne restò prigione. / Sola col tempo tra le stoffe smorte, / attese gli anni senza amici, senza / specchi celando al popolo, alla corte / l'onta suprema della decadenza...». I versi che Guido Cozzano dedicò alla vecchiaia della Contessa Castiglione tornano in mente di fronte al lungo tramonto di Marlene Dietrich superstar, asserragliata con i suoi ricordi fra le mura di un appartamento parigino. Vi è penetrato un paio di anni fa Maximilian Schell, che dalla ex-diva riusci a ottenere un lungo colloquio registrato, ma neppure un'immagine. Sicché il film Marlene è l'unico documentario su un vivente in cui il «personaggio io» non compare; e anche le risposte all'intervista, pur arpeggiando sulle abituali corde del sarcasmo, non sfuggono alla ripetitività di una terna svogliata: «Ja», «Nein», «Quatsch» (sciocchezze).
Il 27 dicembre prossimo Lola-Lola compirà 84 anni, la sua nascita essendo ormai retrodatatale con certezza dal 1904 al 1901. E' l'età in cui nella cucina segreta dei giornali si ha diritto al «coccodrillo», cioè all'elogio funebre preconfezionato; e il coccodrillo di Marlene è del tipo imbalsamato, cioè non suscettibile di aggiornamenti. La sua vicenda artistica è esaurita, non può succederle altro. Dopo aver sfidato il tempo fino all'estremo limite della resistenza, la stella in qualche modo si è spenta; non recita più, non canta, non si mostra in pubblico. L'ultima apparizione sullo schermo gliela strappò a suon di dollari David Hemmings regista del film Gigolò (1978): un volto mummificato, immobile nella penombra, da cui una voce d'oltretomba sortiva per accennare le parole di una canzone in tedesco. Il congedo spettrale di una grande femmina che resta tra le figure misteriose del secolo. Nonostante tutto quello che si è raccontato di lei e l'accattivante franchezza dei suoi scritti (dal vecchio Abc di Marlene Dietrich all'autobiografia, ora disponibile anche in italiano), la verità sulla Dietrich è difficile da stabilire. Come memorialista, più sembra autentica, disarmata, sempliciona, più il lettore la scopre reticente, elusiva, bugiarda. A momenti, le sue pagine sembrano addirittura il diario di una schizofrenica. Il mondo ha visto in lei una Circe? Marlene se la gode a rappresentarsi come bambina timida, solitaria, perfino brutta; e via via violinista frustrata («non sarei mai diventata concertista»), allieva qualunque di una scuola di teatro («non ero granché»), tranquilla, agli esordi professionali solo se i ruoli erano piccoli. In grado dì cantare «un pochino».
Com'è scaturito da questa vieta mammola il devastante erotismo di Lola-Lola, capace di strappare chicchirichì da galletto impazzito al più austero rappresentante del corpo insegnante? Come mai da una vocazione di «Hausfrau» (o casalinga quieta) è saltato fuori il monumento della «Hure», la donnaccia rovinafamiglie? Per scherzo, sembra insinuare Marlene, o per caso. Tant'è vero che quando recitò una particina in Il vaso di Pandora, ai tempi delle notti di Berlino, il personaggio emblematico di Lulu la peccatrice la interessò così poco che non afferrò neppure il soggetto del dramma di Wedekind.
E quando in una rivista fece con un'altra attrice il numero delle Dolly Sisters, quasi non si accorse che si trattava di una parodia del rapporto lesbico, reso attuale dal successo di La prigioniera di Bourdet. E anche a Hollywood, quando il pigmalione Josef von Sternberg la mise «in frack und zylinder» al centro di un night club esotico e le fece baciare sulla bocca una spettatrice con gesto inequivocabilmente androgino, lei continua a dire che fu un gioco. O un caso.
Del resto Marlene non si considerava attraente né per uomini né per donne. E non si piaceva: le famose cosce esibite da Lola-Lola le davano solo il fastidio di sentirsi troppo grassa. Dalle sue confessioni emerge costante una scissione di personalità: da una parte la vamp provocatrice e arrogante, gambe divaricate e gola profonda; dall'altra una signorina di buona famiglia e ottima educazione, moglie fedele, madre e nonna esemplare, cuoca perfetta.
O tutto con una perpetua e dispettosa voglia di anticonformismo: lo scoppio della prima guerra mondiale la sorprende ragazzina innamorata della sua insegnante di francese; durante la seconda il Terzo Reich la proclama ufficialmente nemica della patria. E infatti lei dichiara di aver odiato un solo essere umano, Adolf Hitler, ma in realtà ne ha amato poco anche altri. Fra gli esemplari maschi salva ben pochi: il rispettatissimo marito Rudolf Sieber, von Sternberg, Hemingway, David Niven, Spencer Tracy e il «favoloso» George Raft. Per molti altri scocca giudizi impietosi. Max Reinhardt? Uno che millantò di essere il suo scopritore senza averla mai vista. Jannings? Uno psicopatico. Maurice Chevalier? Un fessacchiotto. John Wayne? Un pessimo attore, che dichiarava di non aver mai letto un libro. Ronald Colman? Lasciamo perdere. E Jean Gabin, che voleva sposarla, si comportava come un bimbo senza mamma.
Di veritiero in queste confessioni c'è senza dubbio il tremendo ascendente, al limiti del plagio, che ebbe sulla bella berlinese quel von Sternberg austriaco crudele, di cui si ricorda la battuta tradizionale con cui dava riposo alla troupe: «Zigarettenpause! Miss Dietrich piange!». Sui loro rapporti autentici (fu una osmosi artistica? fu un grande amore? quali furono i veri motivi della separazione?) Marlene racconta poco. Sa invece rispecchiare in modo plausibile l'atmosfera della «fabbrica dei sogni» negli anni Trenta, quando i cineasti lavoravano per creare grandi fidanzate di celluloide destinate a tutti i popoli della terra. Poiché i centimetri di pelle esponibili erano attentamente razionati, costumisti e fotografi dovevano impegnarsi alacremente sul terreno della bizzarria e dell'allusione. Non si parlava ancora di sex symbols, come accadde per Marilyn Monroe, quando le dive cominciarono ad avere la licenza (e più avanti l'obbligo) di spogliarsi. Ai tempi della Dietrich (e della Garbo, della Harlow, della Lombard...) le belle dello schermo erano soltanto Glamour Girls. E, come Marlene fa enunciare con estrema proprietà all'ammiratissima Mae West, «dovevano fare tutto con gli occhi».
Gli storici del cinema, come già i critici, sono divisi nel giudicare il talento di Marlene: personaggio di dimensione mitologica, fu anche (almeno qualche volta) buona attrice? Pur vantando la propria disponibilità e professionalità, 1'interessata propende modestamente per il no. Come artista si giudica piccola piccola. E lascia intendere che quello della diva fu per lei un travestimento indossato con buona grazia e costante senso dell'umorismo. Altri diranno, invece, che fu la realizzazione di un suo desiderio inconscio, una specie di destino.
Sui segreti di Marlene continueranno ad esercitarsi a lungo gli studiosi dei fenomeni di costume del XX secolo, ma forse l'anziana signora di Parigi non sa più nemmeno lei dov'è la verità. Da Gozzano ci ritroviamo in pieno Pirandello... Una buona battuta di congedo da suggerire a Marlene potrebbe essere: “Io sono colei che mi si crede”.

"la Repubblica", 27 ottobre 1985

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