17.8.14

Matapan e altri disastri. La Caporetto della Marina Italiana (Enzo Forcella)

La corazzata della Marina Militare Italiana "Vittorio Veneto"
duramente colpita e danneggiata nella battaglia di Capo Matapan
Capo Matapan, un promontorio all'estremo sud della Grecia. Le guide turistiche lo ricordano come centro del culto di Poseidone, oltre che, all'occorrenza, sicuro rifugio dei pirati. Quanti sono gli italiani ai quali questo nome dice qualcosa? Molto pochi, temo. Non solo perché quando ci diventò improvvisamente familiare, durante la seconda guerra mondiale, la maggior parte di loro non era ancora nata; ma anche perché i luoghi e le vicende di quella guerra sono stati rapidamente dimenticati. Per una serie di ragioni politiche e psicologiche non sono riusciti a diventare patrimonio della memoria collettiva.
Là, nel tratto di mare antistante il promontorio, nella notte del 28 marzo 1941 la marina italiana subisce la più cocente e sanguinosa sconfitta della sua storia. Nel giro di poche ore la Mediterranean Fleet inglese riesce ad affondare tre incrociatori e due cacciatorpediniere. Il suo mitico comandante, ammiraglio Cunningham, quasi incredulo di tanta fortuna non insiste. Se lo avesse fatto, avremmo perduto anche la corazzata Vittorio Veneto, già gravemente colpita, e un'altra buona parte degli otto incrociatori e degli undici caccia con cui il comandante della nostra flotta, ammiraglio Iachino, era uscito in combattimento. Appena rientrato alla base Cunningham con molto fair play si premura di comunicare al nostro Comando la posizione in cui ha lasciato le migliaia di naufraghi che, ostacolato dall' aviazione tedesca, non aveva potuto soccorrere. La nave ospedale inviata da Taranto impiega tre giorni per raggiungere il luogo della battaglia. Trova ancora vivi un centinaio di marinai. Gli altri duemila e trecento sono morti attendendo i soccorsi.
Più ancora dell'entità della sconfitta colpiscono le circostanze in cui è maturata, il cumulo di errori che l'hanno resa possibile. Leggendone l'accurata ricostruzione di Gianni Rocca nei capitoli centrali del libro da lui dedicato alla tragedia della marina italiana nella seconda guerra mondiale (Fucilate gli ammiragli, Mondadori, pagg. 325, lire 22.000), si è presi da una sensazione di sgomento, prima ancora che di sdegno. La spedizione di Capo Matapan, nella quale Supermarina impegna la maggior parte delle unità a sua disposizione, è stata decisa per ragioni di prestigio, quasi imposta da Mussolini agli ammiragli riluttanti. Essa conta molto sulla sorpresa. Ma la ricognizione aerea inglese scopre subito le nostre intenzioni e per di più (ma questo lo si apprenderà solo dopo la guerra), i servizi segreti hanno sfondato il codice dei tedeschi; sono quindi in grado di seguire passo passo i messaggi in cifra che il corpo aereo di base in Sicilia trasmette ai reparti dipendenti. Prudenza vorrebbe, una volta mancata la sorpresa, che si rinviasse l'operazione. A Roma se ne discute in una riunione di emergenza. Ma Mussolini sta già pregustando la soddisfazione di poter annunciare che la marina italiana ha messo in ginocchio l'orgogliosa flotta britannica. Gli ammiragli non osano chiedere al Capo di sospendere o rinviare la missione. Il seguito, fino al drammatico scioglimento finale, è una incredibile catena di equivoci, disfunzioni, errori tattici, ordini che non arrivano o che non vengono eseguiti. Manca la copertura aerea, non c'è coordinamento per i pessimi rapporti tra marina e aviazione, non vengono utilizzati i sommergibili, la raccolta e lo scambio d'informazioni (essenziale nei moderni combattimenti navali, dove il nemico è a decine di chilometri di distanza) sono lenti, macchinosi, imprecisi.
Un esempio tra tanti: il fonogramma che informa sulla effettiva entità delle forze inglesi arriva a Supermarina (cioè a Roma, da dove si pretende di guidare tutte le operazioni) ma non viene inoltrato alle unità combattenti perché è stato trascritto su carta rosa e non su quella cilestrina usata per i messaggi urgenti. L'ammiraglio di servizio lo mette da parte come moltissimi altri di quel colore, riservandosi di leggerlo durante una pausa dell'assillante lavoro o di passarlo alla fine del suo turno al collega che lo avrebbe sostituito.
Matapan, questa piccola Caporetto della nostra marina, come giustamente la definisce Gianni Rocca, non è un fatto isolato. C'è già stato un mese dopo l'entrata in guerra, il deludente esordio di Punta Stilo. Poi il clamoroso bombardamento aeronavale dell'intera flotta raccolta nel porto di Taranto (tre corazzate messe fuori combattimento) e l'altrettanto clamorosa beffa di Genova, tranquillamente e duramente bombardata dalle navi inglesi mentre Iachino le sta cercando tra la Corsica e la Sardegna. Più tardi, mentre sul fronte libico lo scontro si va facendo sempre più aspro e difficile, balza in primo piano la battaglia dei convogli. La nostra marina, ormai convinta dall'esperienza di non poter reggere il confronto con gli inglesi, si arrocca sulla difensiva e si dedica esclusivamente al suo compito primario: quello di assicurare i rifornimenti ai combattenti italiani e tedeschi della Quarta Sponda. Anche qui il bilancio è tutto in perdita. Ci sono periodi in cui soltanto il 25-30 per cento dei nostri carichi riesce a raggiungere la meta. La Mediterranean Fleet entra ed esce dal canale di Sicilia, che pure dovrebbe essere la nostra sorvegliatissima porta di casa, come fosse nelle sue acque territoriali. E' un calvario. In meno di tre anni, sulle rotte per i porti libici e tunisini perdiamo un milione di tonnellaggio di naviglio mercantile e almeno trentamila vite umane. Sono le rotte della morte, come ben presto le definiscono i marinai impegnati in quelle angosciose missioni.
Nel libro di Rocca c'è tutto, documentato con la stessa cura e precisione di cui l' autore aveva già dato prova nella biografia di Luigi Cadorna; raccontato senza acrimonie ma anche senza indulgenze patriottarde, con dolorosa freddezza. Naturalmente c'è anche, altrettanto ben documentato, il racconto dell'altra faccia della realtà: gli eroismi individuali, il rassegnato sacrificio dei marinai, le imprese dei mezzi di assalto e dei famosi maiali, quei sommergibili miniaturizzati, con gli operatori a cavalcioni sull'arma muniti di autorespiratori, che conducono le cariche di esplosivo fin sotto la chiglia dell'obiettivo prescelto. Sono proprio loro, questi siluri umani che scrivono le poche pagine luminose nella tragedia di una flotta che all'inizio delle ostilità era considerata tra le migliori del mondo e che alla prova del fuoco scopre giorno per giorno tutta la propria inesperienza, la propria inadeguatezza, la incolmabile povertà dei mezzi tecnici, le insufficienze culturali e professionali dei suoi comandanti. Ancora oggi le imprese dei minisommergibili ad Alessandria, a Malta, a Gibilterra hanno dell'incredibile e il loro racconto suscita emozione. Ma si trattava pur sempre di iniziative individuali che non potevano compensare gli errori e le deficienze del sistema. Ci lasciavano fare ma non ci prendevano molto sul serio. Non ci illudevamo certo di cambiare le sorti della guerra, dice ora uno di loro, il comandante Durand De La Penne, sollecitato dal libro di Rocca. Resta da dire qualcosa sull'impianto generale del libro e sulle conclusioni storico-politiche che se ne possono trarre. Sul comportamento della marina militare nel ventennio fascista circolavano alcune leggende che storici e memorialisti in parte avevano avallato e in parte non si erano molto preoccupati di confutare. In primo luogo, la leggenda dell'antifascismo dei quadri dirigenti della marina, contrapposto al filofascismo dell'aviazione e all' opportunismo dell'esercito. Poi, in qualche modo collegata alla prima e alimentata dai fascisti sconfitti, quella del tradimento. Infine, ma anch'essa collegata alle precedenti, la leggenda della fedeltà della marina alla monarchia che, unitamente allo spiccato senso del dovere dei suoi ufficiali, le consente (unica tra le tre armi) di resistere allo sfascio dell'8 settembre e di mettere in pratica disciplinatamente le clausole dell'armistizio. Il libro di Rocca provvede in maniera a mio avviso inconfutabile a smentire le due prime leggende e a ridimensionare notevolmente la terza. La marina, anche e soprattutto nei suoi alti gradi, serve il fascismo e lo asseconda in tutte le sue folli imprese non meno dell'esercito e dell'aeronautica (si veda, tra l'altro, la ricostruzione del suo comportamento nella guerra di Spagna). Le brutte figure che colleziona nel corso della guerra non nascondono nessun tradimento, ma soltanto l'impreparazione, l'inefficienza, gli errori tattici e strategici ampiamente documentati in questo studio. Quanto all'8 settembre, fino all' ultimo momento il ministro badogliano della marina De Courten finge di non capire che gli alleati esigono la consegna della flotta e, per tenere a bada comandanti che meditano l'autoaffondamento collettivo, gli fa credere che le navi, dopo l'armistizio, verranno avviate verso porti italiani. La tragica fine di Igino Campioni e Luigi Mascherpa, fucilati per vendetta da Mussolini repubblichino (la vicenda cui si ispira il libro di Rocca) è, in questa prospettiva, tragicamente emblematica. I due ammiragli che pure avevano, specialmente il primo, pesanti responsabilità nella disgraziata condotta della guerra, pagano con la vita l'unica colpa di avere obbedito agli ordini che il capo del governo e i ministri militari gli avevano impartito prima di fuggire.


“la Repubblica”, 30 aprile 1987  

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