16.8.14

L'impossibilità di una democrazia liberale (Carlo Donolo)

L'11 luglio 2014 il sito www.sbilanciamoci.info postava un articolo a firma Carlo Donolo un articolo dal titolo Democrazia liberale: morte annunciata. Nel sito si trova in pdf, datato 15 giugno 2014, il testo integrale del breve saggio da cui l'articolo è tratto, corredato da una brevissima bibliografia. E' quello che qui ho ripreso. Mi pare un'analisi convincente e utile. (S.L.L.)
Norberto Bobbio
1.
Sappiamo che storicamente il regime democratico convive con il sistema capitalistico, nel senso che solo in economie capitalistiche troviamo democrazie (situazioni cui sia lecito assegnare questo termine in misura almeno ragionevole). Esiste però una relazione asimmetrica tra i due termini: la democrazia (rappresentativa o parlamentare) richiede il capitalismo, mentre il contrario è vero solo occasionalmente. Esso prospera anche in regimi autoritari o dittatoriali, ma per società divenute abbastanza complesse un po' di democrazia rappresentativa sembra necessaria, perché un regime solo e tutto “del capitale” o solo tecnocratico o solo autoritario è troppo rigido e finisce per produrre ingovernabilità, come mostra il crollo dei regimi “comunisti”. La convivenza di democrazia e capitalismo però non è mai stata pacifica, trattandosi di regimi che seguono logiche alquanto diverse ed anche opposte. Un punto d'incontro è offerto dallo stato di diritto e costituzionale, ovvero da un sistema di istituzioni e di regolazioni che guidano l'attività economica (in senso molto blando ed indiretto in termini cumulativi, più in tempi di crisi e meno in altri), e nello stesso tempo offrono spazio per le attività di una società civile che almeno in via di principio non è solo una dipendenza del mercato. Tuttavia, la situazione descritta implica per la democrazia una serie di gravi problemi: per un verso i principi democratici non riguardano tutta la vita sociale e meno che mai quella economica, quindi per definizione sono confinati entro limiti netti (si pensi solo al problema della diseguaglianza sociale, intrattabile come tale). Per un altro, la democrazia dipende dalle prestazioni del sistema economico, sotto il profilo del prelievo fiscale ed anche in altre forme. Il ciclo economico influenza il ciclo politico e la politica – specie dopo la fine dei partiti di massa – si alimenta di rendite finanziarie che presuppongono un patto (più o meno scellerato) con interessi economici forti, e comunque non democratici.

2.
Dunque, in via di principio la democrazia convive malamente con il capitalismo, ma vi è costretta. La storia mostra che altri regimi economici comportano la morte della democrazia, mentre nel caso del capitalismo abbiamo a che fare piuttosto con una crisi endemica e alla lunga con un deperimento delle capacità di governo democratico dello sviluppo. Ciò è stato da tempo segnalato sia nelle tesi della Trilaterale sulla crisi da sovraccarico sia nel discorso sulla crisi fiscale dello stato. Nel primo caso, si sostiene che la democrazia finisce – in combutta con uno stato di diritto divenuto stato regolatore – per assumersi troppi compiti, espandendo quella che più avanti chiameremo “funzione pubblica”. Ciò finisce per sottrarre al mercato materie ed ambiti pregiati, e quindi a un certo punto l'espansione dello stato sociale deve essere stoppata e ciò anche per la seconda ragione: che tale stato costa troppo. Spende troppo in termini di percentuale del PIL e d'altra parte non è possibile aumentare troppo le sue entrate senza andare ad incidere sul sistema di diseguaglianza sociali che sono la base materiale del capitalismo stesso (come fonte di legittimazione, come stimolo della competitività e mobilità sociale, come causa di conflitti che alla fine dinamizzano la società). C'è crisi fiscale dello stato in quanto è inevitabile uno squilibrio tra entrate e uscite che non può essere sanato.

3.
Chiamiamo abitualmente democrazia liberale il regime democratico nel capitalismo. Si sono sempre contrapposte, già nell'800, due tesi: la componente liberale consiste sia nella convivenza con il capitalismo sia nello stato di diritto: si tratta di fattori che devono limitare i potenziali eccessi democratici. Nei casi migliori si immagina una felice combinazione dei tre fattori socioistituzionali in gioco. L'altra tesi invece da più peso, coerentemente con il dettato delle costituzioni più recenti, al fattore democratico e quindi in pratica ipotizza che lo stato liberale debba ed anche possa - senza danno per il capitalismo, anzi salvandolo in un certo senso dai suoi eccessi – crescere fino a diventare stato sociale, come stato cioè in grado di garantire pari opportunità ed espansione delle capacità e delle libertà. Si accetta in questo caso, pur con qualche preoccupazione, l'aumento del peso del prelievo fiscale, l'allungamento della lista dei diritti sociali e civili da soddisfare, insomma una espansione della funzione pubblica. Sempre nei limiti comunque di quanto richiesto dal processo di accumulazione.

4.
La democrazia liberale oscilla storicamente tra il polo di uno stato liberale tendenzialmente minimale con una funzione pubblica ridotta, e che lascia dispiegarsi a pieno gli animal spirits acquisitivi e accumulativi, e il polo di uno stato sociale con funzione pubblica estesa, centralità del nesso fiscale, e prove di governance del processo capitalistico. I puristi pensano che solo nel primo caso la dizione sia appropriata, mentre considerano il secondo polo come una degenerazione pericolosa. Essi fondano il sociale demo-capitalistico (chiamiamolo così) su alcuni motivi essenziali: la brama di possesso o greed, o il motivo del profitto; l'autonomia dell'individuo come monade asociale; lo stato solo guardiano delle leggi essenziali. All'inizio questi argomenti avevano probabilmente una motivazione principalmente ideologica, antisocialista insomma. Oggi però si tratta di altro: alle spalle degli argomenti contro una funzione pubblica allargata c'è l'imperativo materiale di aprire o costruire per il capitalismo sempre nuovi mercati, e quindi sempre nuove forme di merce. Nessun bene o risorsa può sfuggire: organi, prodotti culturali vecchi e nuovi, beni virtuali e digitalizzati, conoscenza, capitale sociale, capitale umano anche nelle sue forme più intime e idiosincratiche, e naturalmente tutto ciò che finora è rimasto “in comune”. Tutto deve essere spacchettato, spogliato della sua veste sociale, e reso accessibile al mercato. Il motivo di questa tendenza che non rifiuta carceri e magari pena di morte affidate ai privati, o formazioni militari mercenarie al posto dell'esercito nazionale, o la corruzione su grande scala per ammorbidire le ultime difese non solo dello stato sociale ma anche di diritto, è che una funzione pubblica allargata sottrarrebbe troppi beni al mercato. E naturalmente a sostegno di questa tesi virulenta c'è l'argomento che il mercato è il migliore allocatore di risorse possibile. Per i beni in questione e tanti altri analoghi per la verità non c'è traccia di una possibile dimostrazione della veridicità dell'assunto, né teorica né empirica. Le condizioni che il mercato dovrebbe soddisfare per approssimare almeno tale tesi sono troppo esigenti per essere realistiche ed anzi sarebbero in diretta contraddizione con gli imperativi effettivi di quello, anche per ridere e non solo piangere, chiamiamo turbocapitalismo. Al contrario si potrebbe segnalare che le privatizzazioni (spacchettamento di parti di funzione pubblica per il mercato) sono state quasi ovunque un enorme affare per il capitalismo delle rendite e della finanza, con la creazione di nuovi oligopoli, abusi di posizione dominante e altre forme di commistione e corruzione specificamente del ceto politico.

5.
C'è qui un paradosso interno: si parla di mercato, ma in effetti non si sa bene come spiegare allora il ruolo militante del lobbismo, sia a Washington sia a Bruxelles, cioè la necessaria esistenza di un mercato politico delle decisioni economiche, che surroga e sostituisce il mercato “libero”. La corruzione diretta e indiretta dei decisori non è mai lontana, e in materia è sufficiente vedersi qualche film americano tipo House of cards. Il capitalismo mostra con ciò di dipendere da scelte pubbliche e da finanza pubblica, non di essere capace di fare meglio le cose, una dimostrazione impossibile nella maggior atre dei casi. Piuttosto si parlerebbe di fallimento del mercato: brutality (come dice S. Sassen), corruzione e distorsione di risorse pubbliche sono la condizione per l'attività di mercati importanti, in ogni settore di attività. Non si tratta di deviazioni dalla norma o dalla normalità, ma di caratteri intrinseci non emendabili.

6.
In sostanza, per avere nuovi mercati occorre avere non solo meno stato sociale ma anche meno stato di diritto, e bisogna asservire il più possibile la politica alle esigenze della redditività privata. Così il momento neolib è la confutazione delle premesse liberali, e mentre il neolib è un arma violenta per l'affermazione di una strategia alla fine antidemocratica, il pensiero liberale non è mai andato oltre una dignitosa difesa di principi, la correzione puntuale di “deviazioni” come mostra tutta la storia dell'antitrust. Il suo carattere normativo, che ha qualche peso nella sfera giuridica, alla fine è solo l'alibi morale o l'illusione di un ceto intellettuale ignaro del mondo?

7.
Vediamo meglio cosa implica la riduzione della funzione pubblica. Abbiamo parlato di beni che devono transitare dalla sfera pubblica a quella mercantile. Di che si tratta? Sono o beni pubblici o beni comuni. O beni prodotti deliberatamente da organismi pubblici e pubblicamente finanziati (istruzione, ricerca, sanità, housing, trasporti, ambiente,...), o beni materiali o virtuali quali i beni culturali, la conoscenza, la coscienza e simili. Questi beni in comune vengono curati più che direttamente prodotti, dato il loro carattere intrinsecamente sociale e storico. Anch'essi però esigono investimenti pubblici e organizzazione. La riduzione della funzione pubblica consiste nella riduzione della qualità e del tipo di beni che devono essere forniti fuori mercato. Si noti che in molti casi, e in tutti i principali, si tratta di beni esigibili come diritti anche fondamentali. Quindi azionabili giuridicamente nel quadro dello stato di diritto liberale e sociale. Ridurre la lista e la quantità, poi anche la loro qualità serve a: risparmiare risorse, e quindi in prospettiva a ridurre la pressione fiscale, e quindi a “risolvere" la crisi fiscale; inoltre significa che tali beni il più possibile possano essere merci per mercati “competitivi”. Un bene che avesse difficoltà a diventare merce non meriterebbe di essere prodotto e fornito. Tagli alla formazione, alla ricerca e alla cultura sono così motivati. Anche nei casi in cui bene pubblico e gestione imprenditoriale sono ben miscelati.

8.
Si vede dunque che il ridimensionamento della sfera pubblica serve a risolvere un paio di problemi del capitalismo a spese della sua componente liberale: già lo si era visto nelle ondate di deregolazione spesso ai limiti dell'irresponsabile. Purtroppo l'UE, come è noto, è diventata fortemente corriva ad queste tendenze oltranzistiche. Meni beni, meno diritti, meno capacità più greed. Non si tratta neppure di una critica, ma della semplice constatazione di tratti essenziali di un regime capitalistico, che del resto si vedono anche in regimi autoritari tipo Cina o Kazakistan. Che poi i sacrifici richiesti, necessariamente alle componenti meno dotate della popolazione, implicati dalla decostruzione della funzione pubblica, siano presupposto razionale per una ripresa dell'accumulazione che poi genererà le risorse necessarie proprio per un nuovo e meglio calibrato nesso fiscale è tutto da dimostrare, ma ha l'aspetto più di un inganno (forse anche autoinganno) che di un argomento razionale

9.
Ora si tratta di vedere fino a che punto sia possibile destrutturare la funzione pubblica e quindi tagliare beni essenziali per lo sviluppo, per capacitazioni, per stati di benessere esteso) senza danneggiare la stessa democrazia. È semplice immaginare che questa richieda la soddisfazione di livelli minimi essenziali di bisogni collettivi. Altrimenti: viola le proprie promesse e premesse normative e costituzionali, come nei paesi oggi in Europa più devastati dalle terapie neolib di austerità, erode le stesse basi della crescita, impoverendo tutte le forme del capitale trasse quelle finanziarie (capitale produttivo con perdita di produttività e capacità produttiva, capitale umano svalorizzato e inutilizzato, capitale sociale eroso e sfruttato, motivazioni e speranze di futuro). I livelli di diseguaglianza sempre molto alti e attenuati solo nel trtentennio postbellico per l'elevamento generale dei redditi e dei livelli di vita sono un forte limite per processi democratici non meramente rituali e strumentali. Ridurre la funzione pubblica significa ridimensionare la democrazia. Questo alla fine il sogno non tanto segreto dell'ideologia neolib. Essa rende evidente l'ossimoro di una democrazia liberale che fallisce nel tentativo di trovare un equilibrio tra democrazia e capitale. La democrazia liberale diventa impossibile e alla fine risulta indifferente o inutile per il capitalismo.

10.
Si può confutare questa tesi sostenendo che il mercato è perfettamente in grado di sostituire la funzione pubblica. Malgrado Coase però in concreto nessuno si avventura su questa pista di una società isomorfa con il mercato e basta. Continua l'alta pressione fiscale, il ruolo economico dello stato, o quello della'UE, continua la cooperazione lobbistica tra scelte pubbliche e interessi privati. Ciò mostra che il capitale vuole certo mercati e nuove merci, sottratti alla sfera pubblica, ma vuole anche continuare ad attingere a questa importante risorse finanziaria: la fiscalità. Anche le regolazioni di favore sono molto importanti, come le commesse pubbliche. Quindi: funzione pubblica finché serve al sistema delle imprese, lo stato predatore al servizio di chi lobbia meglio.

11.
In sintesi: vorrei dire che la formula democrazia liberale si è dissolta nelle entropie della globalizzazione e della mercificazione globale. Occorrerebbe trovarne un'altra. Per le ragioni dette oggi la democrazia non è più liberale, e d'altra parte essa non appare all'altezza delle sfide del globale e del tipo di capitalismo con cui dovrebbe convivere. Piketty o no, la democrazia ha senso come lavoro alla riduzione delle diseguaglianze locali e globali, e come lavoro per rendere più umano – quale che sia poi la forma concreta - ogni processo, economico e non, specie nella fase della storia del mondo che sta iniziando. Evitiamo che – come quella liberale - diventi un residuo ottocentesco.

12.
Sembra che con il passaggio all'economia globale e al primato della finanza la democrazia sia diventata superflua. Ci sono dati intrinseci – la nuova scala dei problemi, l'assenza di una polity planetaria o anche solo di una opinione planetaria, il carattere prevalentemente tecnocratico e lobbistico dei poteri attualmente insediati nei luoghi della governance globale – che la rendono difficile da praticare e comunque poco incisiva. Ma con riguardo all'economia la questione è proprio che quella necessaria convivenza da cui siamo partiti ha dato quello che poteva dare, la sua matrice ottocentesca ha esaurito la forza propulsiva. Non c'è da rallegrarsene, perché non sarà facile immaginare un diverso assetto dei rapporti tra politica ed economia. Qui però interessa solo il fatto quasi elementare che l'egemonia neolib ha al suo centro la contrazione della funzione pubblica, e quindi anche delle garanzie costituzionali, dello stato di diritto e della dei diritti dell'uomo e del cittadino. È un giudizio che ricorre spesso nella pagine di Guido Rossi, che scrive su il sole24H. Uno Smith, un Mill, un Keynes, i più grandi liberali di ogni tempo, si troverebbero a disagio a constatare come l'economia si sia mangiata prima la società e poi la politica. È vero che scienza e tecnica sono spesso state serventi in questo processo, ma il primato va riconosciuto al ruolo del denaro in rapporto al greed e alla forma di merce. Di fronte a questa potenza scatenata la democrazia ha potuto poco e solo per brevi periodi (il New Deal, i trenta gloriosi). Poiché i fatti hanno le loro ragioni, non si tratta di un gioco tra buoni e cattivi, ed anche l'indignazione ha i suoi limiti. Tutto avviene perché c'è un egemonia in atto, cui democrazia e liberalismo si sono piegati. Almeno si potrebbe capire per quali intrinseche debolezze ed anche fatuità, per quali astrazioni generose e velleitarismi normativi, per quali deficit di saper fare e di saper essere.

13.
Torniamo così alla nostra funzione pubblica. Essa comprende l'insieme delle funzioni dedicate alla produzione, genesi e cura di beni pubblici e comuni. In tal modo stabilisce una demarcazione nei confronti del mercato e del mondo delle merci. Certo ci può essere produzione privata di beni pubblici e del resto è comune una ampia mixité operativa, ed inoiltre gran parte degli input della funzione sono di origine privata. Tale funzione ha un rapporto stretto con la democrazia costituzionale e il sistema dei diritti e dei doveri. Questi ultimi si esprimono principalmente nel nesso fiscale che alimenta la funzione. Finalità precipua della funzione è di coprodurre condizioni generali di benessere esteso e di capacitazione almeno potenziale, le famose pari opportunità. Siamo certamente oltre l'utilitarismo, come dice giustamente Sen, ma si conserva l'idea welfarista e felicitaria che condizioni di benessere sono la via per, e/o l'esito, di spazi di libertà e di autonomia crescenti nel tempo o comunque valutati tali dai contemporanei. Oggi tali “ambienti” non sono pensabili se non con riferimento a criteri quali la coesione sociale, la sostenibilità dei processi, l'intelligenza diffusa. Solo finché c'è una funzione pubblica degna di questo nome si può anche dire che la coesistenza tra democrazia è sopportabile, o meglio che capitalismo e democrazia si scambiano qualcosa di pregio: potenziali di futuro.

14.
Oggi la funzione pubblica è in crisi perché: a. costa troppo; b. spreca troppo; c. genera un eccesso di pressione fiscale; d. genera corporativismi e corruzione; e. è poco efficiente anche come processo allocativo. Tutto vero. Ma la funzione pubblica è stata messa deliberatamente in crisi da: un sistema fiscale sperequato e anti-progressivo, da ampie aree sistematiche e politicamente coltivate di evasione ed elusione sia in grande che in piccolo; dalla difficile comprimibilità delle uscite (prestazioni essenziali, personale) e dalla rigidità verso l'alto delle entrate. Da qui la terapia: tetti prima, tagli poi, spending review come copertura. Un fattore importante naturalmente è il fatto che una quota rilevante dei debiti sovrani circolino sulle piazze finanziarie internazionali e che quindi sempre meno il governo del bilancio sia in mani nazionali, anche a prescindere dai parametri di Maastricht e dal Fiscal compact. Ma quel che conta per il nostro limitato argomento (che non tocca ovviamente tutti i nessi pensabili tra i fattori in gioco) è che con la crisi della funzione pubblica va in crisi non solo il rapporto di coabitazione tra democrazia e capitalismo, ma anche la democrazia stessa. Che cede le armi ad altri poteri perfino dentro il recinto delle sue competenze. La politica è eminentemente adattiva, il governo è il governo del rispetto e dell'obbedienza a standard e soglie, e non ai principi costituzionali, i tempi sono sempre stretti, la politica ha bisogno del ciclo economico, dei soldi ricavati dall'affarismo, del consenso massmediatico dei grandi gruppi.

15.
La ricostruzione su basi razionali di una funzione pubblica è quindi al centro di ogni disegno di rilancio del processo democratico, ormai di fatto già molto oltre il quadro di riferimento della democrazia liberale. Che sarebbe stata democratica e liberale se fosse stata capace di “domare il mostro” (Bobbio), ma è qui che è fallita.

Letture
Scritti di Bobbio e Pizzorno su Gramsci
Donolo C., Il sogno del buon governo, 2011
Donolo C., L'arte di governare processi e transizioni, 2012
Ferrara S., Democrazia e apertura 2012
Hirschman A.O., Retoriche dell'intransigenza
Muller, L'enigma democrazia 2012
Ostrom E., Governare i beni collettivi 2008
Petrucciani S., Democrazia 2012
Piketty Th., Capital in the 21 century, 2014
Rawls, Liberalismo politico
Secchi B., La città dei ricchi e la città dei poveri
Sen A., Commodities and capabiblities
Sen A., The profit motive,
Stiglitz Il prezzo della diseguaglianza

Stiglitz Report 2009

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