16.8.14

Pollicino accecato. Sulla poesia di Andrea Zanzotto (Massimo Raffaeli)

In una di quelle poesie che paradossalmente sanno catturare lo spirito del tempo con la forza delle parole più spiazzanti, dette letteralmente fuori luogo, Sì, ancora la neve (compresa nel volume baricentrico La Beltà, del ‘68), Andrea Zanzotto immagina in epigrafe la voce di un adulto che domandi a un bambino, insinuandosi dal fuori campo, se gli piaccia essere venuto a questo mondo. Sviato dal titolo che commemora la neve come sovrana maestà del mondo naturale, il lettore non si aspetterebbe la risposta del piccolo con il naso schiacciato sul vetro, perso nel candore che dilaga e lo ipnotizza: si viene invece subito a sapere che il bambino sta fissando la neve come fosse un altrove di noia e insensatezza, quasi un lenzuolo calato sulla vera luce delle cose. Per lui la luce naturale è un’altra e risponde che sì, gli piace essere venuto a questo mondo ma solo perché «c’è la Standa».
Per interposta voce e senza affatto rendersene conto, il bambino-ventriloquo si sorprende dunque a confessare che la Storia è da preferirsi alla Natura proprio in quanto l’ha sostituita, metabolizzata. Concentrandola nei modi di una allegoria, l’epigrafe di Sì, ancora la neve riassume la straordinaria vastità del campo poetico di Andrea Zanzotto, dove si profilano (poli di un conflitto che non può conoscere risoluzione ma soltanto perpetua mediazione) le zone confinarie di Natura e Storia, Sapienza dei dotti e Sapere degli stolti o insomma, per dirla con due fra le parole che furono più care al maestro di Pieve di Soligo, i margini incerti fra Semiotica e Petèl.
Esile, ignara di sé e della vastità del mondo, quella voce infantile è la stessa di un giullare di dio che profetizza (nel senso etimologico, di chi nomina al presente) la grande mutazione che in Italia venne detta del Boom o del miracolo economico, insieme con la relativa osmosi di naturale e artificiale, l’universo di presenze mutanti che ammiccano al supermercato e si specchiano sulla superficie levigata della plastica. È in effetti un luogo comune ben fondato riconoscere nella poesia di Zanzotto tanto il diagramma della mutazione biopolitica che comporta lo smaltimento del naturale e la caccia manu militari alle tracce residue nel paesaggio, quanto l’ontologia del mondo come distesa di merci e palinsesto di una economia politica che ritiene gli individui quote fungibili e talora eccedenti nel valore di scambio: «siamo un segno senza significato» scriveva nella medesima poesia citando uno della sua costellazione, Hölderlin, di fianco a Ungaretti e Paul Celan o magari, defilato nel suo piccolo cosmo domestico, l’abate Zanella.
Acclamato come un Signore dei Significanti, letto con l’ammirazione nonché la soggezione che si deve a partiture liberate da un acceleratore di particelle o chiuse nel mixage di un lirico petrarchista divenuto col tempo poeta di spessori danteschi, per lo stratificarsi delle più diverse lingue e orribili favelle, non andrebbe tuttavia dimenticato che nel nucleo profondo della sua testualità vibra una nota elementare, ossessiva e perciò incandescente. Essa corrisponde allo sguardo del bambino pensoso e preoccupato dalla neve, un Pollicino messo in salvo oltre il bosco del Montelloma per essere subito accecato da una luce sanguinaria, livida: mentre rumina in dialetto la sua filastrocca, sente che non gli è concesso alcun candore e che appunto lo aspettano i neon del grande magazzino.
Un paese dei balocchi o un mattatoio?
A decenni di distanza quella premonizione ritorna micidiale, necessaria, e fraterna oramai.

"il manifesto" 19 ottobre 2011

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