9.8.14

Rocche'n'rollo 1954/64. Nuovi ritmi e propaganda USA (Marilisa Merolla)

Marilisa Merolla, ricercatore e docente di Storia contemporanea presso la facoltà di sociologia della Sapienza a Roma, nel libro Rock’n’roll Italian Way-Propaganda americana e modernizzazione nell’Italia che cambia al ritmo del rock 1954-1964 (Coniglio ed., 2011) traccia un quadro approfondito e vitale dell’impatto politico e sociale avuto dal rock’n’roll di origine statunitense nel nostro paese, anche nelle sue ambiguità. Il rock da un lato accelerava il processo di laicizzazione della società nazionale, dall'altro fungeva da strumento della colonizzazione Usa. La stessa diffusione della nuova musica, peraltro, procedeva con alcuni inevitabili compromessi all’italiana. “Alias” ha estratto dal libro le pagine che qui riprendo. (S.L.L.)
1961 - Adriano Celentano con "I ribelli"
1954 
Dalla base Nato di Bagnoli si propaga il germe di una rivolta sonora che attraverserà l’Italia. Dc e Pci furono colti impreparati da Celentano e mille altri ribelli.

In Italia il rock’n’roll approda nel 1954, con l’arrivo dei marinai Usa alla base Nato di Napoli appena installata nella baia di Bagnoli dove in poco tempo sorgono a ogni angolo bar e locali notturni. Qui i ritmi viscerali e frenetici di una musica dalla matrice afroamericana affascinano borghesi e scugnizzi partenopei. Non erano certo gli ufficiali e le alte cariche militari ad acquistare i dischi di attualità, ma i tanti soldati e marinai acquirenti entusiasti dei vinili di rhythm’n’blues e di rock’n’roll dai rivenditori d’oltreoceano che garantivano tempi brevissimi di spedizione e prezzi assai ridotti rispetto ai listini di mercato.
Nella città partenopea il binomio musica Usa-presenza militare non era una novità; risaliva al 15 ottobre 1943 quando i V-disc, i padelloni in vinile contenenti i temi di swing e di jazz suonati dalle orchestre statunitensi e trasmessi dalle stazioni di Radio Napoli, si erano imposti sul ritmo monocorde di marce e inni fascisti per annunciare l’imminente vittoria e evocare l’avvento della libertà e della democrazia. La presenza dei militari americani non si era esaurita con la fine della seconda guerra mondiale, né tanto meno si era arrestata la corrente dei nuovi suoni provenienti da oltreoceano. Anzi, subito dopo la liberazione Napoli era stata ufficialmente riconosciuta l’ovvia sede del quartier generale dell’Allied Forces Southern Europe, organismo creato il 19 giugno 1951 come principale comando subordinato, responsabile della difesa del fianco destro della Nato contro la Cortina di ferro.
Con lo scoppio della guerra fredda - vera e propria guerra psicologica tra le due superpotenze, la cui vittoria passava anche per la «conquista degli spiriti» delle popolazioni europee - la musica divenne una vera arma strategica della propaganda Usa. Ne era consapevole il dipartimento di stato americano che si impegnava a sostenere l’industria discografica a scopo militare, individuando nel jazz l’arma sonora del governo Usa. La scelta non era casuale e aveva due obiettivi, uno interno e uno esterno: servirsi dei musicisti neri in una delicata operazione di politica internazionale significava riconoscere alla cultura afroamericana uno spazio nella storia ufficiale della nazione in un momento di forti tensioni razziali, esplose soprattutto negli stati americani del sud. I vantaggi sul piano internazionale erano altrettanto importanti perché si sperava di rimuovere la percezione esterna che gli Stati Uniti fossero una società razzista, assestando un duro colpo alla propaganda comunista che accusava, ad esempio, l’industria di Hollywood di incarnare «i mali del capitalismo».
There’s Music in the Air at the Bagnoli Post era insomma il messaggio che la Sixty Fleet Band, la Cincsouth’s Band o la Naples U.S. Navy Band diffondevano attraverso le centinaia di esibizioni in tutto il litorale campano in occasione di anniversari degli organismi della Nato, cerimonie ufficiali, parate per il 4 di luglio ecc. D’altronde, la musica era uno degli strumenti privilegiati per promuovere il «People to people program»: il processo di integrazione dei militari con le popolazioni locali per sponsorizzare il programma di amicizia degli americani nei paesi d’oltreoceano. Numerosissimi erano quindi i gemellaggi - non solo parate militari ma le tante feste da ballo, ricevimenti ufficiali, lotterie di beneficenza o le più frivole sfilate e di moda - in cui i militari americani suonavano insieme anche alle bande dell’arma italiana, ma non solo.
Gusti e consumi statunitensi si trasmettevano soprattutto ai giovani, di certo i più pronti a recepire quanto in termini di libertà emodernizzazione potesse offrire la «american way of life». Maschi o femmine, napoletani o americani, tutti impazzivano per le band di rock’n’roll fatte in casa, come Willy and The Internationals il gruppo composto da studenti della Sherman School e tre universitari
napoletani, che aveva conquistato un contratto discografico con la casa discografica Vis Radio e un’apparizione in televisione grazie a una indiavolata versione di Lucille, l’hit del rocker nero Little Richard. Tra i ragazzi ogni barriera era già superata grazie al nuovo vocabolo teenager, che gli adolescenti avevano sentito molto spesso pronunciare dai coetanei statunitensi per indicare un reciproco riconoscimento; la cui traduzione letterale non era chiarissima, ma palese appariva il concetto che veicolava: la consapevolezza di appartenere a una categoria che grazie alla giovane età, consentiva di scavalcare nazionalità, lingua, estrazione sociale, fede religiosa e politica.
Nel cuore della città, a pochi passi della centralissima piazza Municipio, nascevano l’Uso Club e il Bluebird Enlisted Men’s Club locali che con il motto «A home away from home», accoglievano membri delle forze armate, elementi della Sesta flotta, accompagnatrici e ospiti; e le centinaia di soldati americani provenienti da ogni parte del mondo e di passaggio a Napoli. Il manager dell’intrattenimento, Vincent Colucci faceva arrivare nella città partenopea le grandi celebrità della musica leggera americana: Platters, Four Aces, Everly Brothers. Balli mascherati, «international night», «thanksgiving parties» erano le tante occasioni per dimenarsi al ritmo della musica suonata dai fiammanti juke box appena giunti dalla madre patria o dal vivo con formazioni improvvisate con batteria, chitarra, cantante e un «basso finto»: quest’ultima una vera qualifica per i musicisti partenopei che offrendosi di compensare con la propria voce l’assenza di qualche strumento musicale, iniziavano a suonare o meglio a cantare, il cosiddetto rocche’n’rollo. Tra questi un giovanissimo, Renzo Arbore.
Lontano dalla minaccia razziale esplosa negli Stati Uniti, il rock perdeva il suo carattere eversivo; appariva solo una moda un po’ esotica da non vietare neanche nell’etere. Nel maggio 1963, il centro di produzione della Rai di Napoli ospitava nei propri studi e sulle proprie frequenze locali il programma Good morning from Naples!, uno spazio quotidiano in lingua inglese. Capitava che i napoletani accendendo la radio ricevessero un Good morning Naples!, mentre il fine settimana - divenuto weekend - era accompagnato dalle note di twist, surf, country, rock’n’roll lanciate dal disc jockey Wild Willy, il quale scavalcando ogni controllo e censura del governo italiano, riproponeva fedelmente i brani presenti nelle classifiche americane di Billboard.
Solo a Napoli come negli Stati Uniti, poteva insomma succedere che il famoso pezzo con cui il giovane Bob Dylan inaugurava la sua svolta elettrica, potesse essere inizialmente conosciuto nella sua originaria e rarissima versione in due parti perché troppo lunga per la radio americana: Like a Rolling Stone part 1 and part 2.
Dal golfo di Napoli, il rock’n’roll in un lampo risaliva la penisola e invadeva l’intera Italia che nel pieno del miracolo economico cambiava pelle al ritmo del rock; il cinema faceva il resto. Tra juke box, sfavillanti copertine dei nuovi 45 giri e colorati mangiadischi, il rock’n’roll diventa la colonna sonora della «grande trasformazione». Erano appunto i teenager, le ragazze e i ragazzi che si affacciavano all’età adulta in un’Italia più democratica, i più pronti a recepire i ritmi del nuovo benessere, sintetizzato nell’«American way of life», entrata come simbolo nell’immaginario collettivo fin dagli anni Cinquanta. Infatti, non era solo il miraggio di migliori condizioni di vita e di lavoro, ma anche le immagini sfavillanti e le nuove sonorità, trasmesse da vecchi e nuovi media, a spingere milioni di giovani a lasciare il sud agricolo e socialmente arretrato per raggiungere il nord, patria dello sviluppo industriale e della modernizzazione. In questo flusso di migranti che segnava la vigilia del boom, le diversità, le incomprensioni, le stesse sofferenze si stemperavano nella collettiva fascinazione per la nuova musica, emblema di libertà, di rottura con la tradizione, di promessa per il futuro, ma soprattutto strumento per esprimere la propria identità anche nelle più difficili condizioni.
Con la diffusione del rock, anche in Italia la canzone acquistava i connotati di bene-simbolo delle nuove generazioni; si trattava delle ragazze e dei ragazzi che, a differenza dei padri e dei fratelli maggiori, non avevano vissuto i traumi del secondo conflitto mondiale e della guerra civile di cui solo i ventenni potevano tutt’al più avere vaghissimi ricordi. In molti casi avevano trascorso parte della propria infanzia nelle fila delle organizzazioni sportive e ricreative dei partiti o delle parrocchie; ma, ancora per la maggior parte, al di fuori da qualsiasi militanza partitica, non avevano assorbito - per il momento - la cultura dello scontro ideologico che negli anni Quaranta e per tutti gli anni Cinquanta aveva avvelenato l’atmosfera politica italiana.
In Italia i ritmi sincopati e scomposti del rock’n’roll non si limitavano a scandire, ma contribuivano ad accelerare il processo di laicizzazione in corso; per la classe dirigente il rischio era una modernizzazione troppo rapida della popolazione che rompendo così velocemente tanti legami con il passato minacciava di allontanare i cittadini dalle culture tradizionali, cattolica e socialcomunista. Era innanzi tutto la Dc, impegnata in questi anni in un faticoso dialogo con i socialisti per un primo governo di centrosinistra, a cercare di correre a i ripari. D’altronde sin dal 1954, con la nascita della televisione il partito di maggioranza relativo era già impegnato con successo in una politica culturale di «Italian way» alla modernizzazione, volta a riadattare format e tendenze americane in una più rassicurante chiave nazionale.
A differenza del nuovo elettrodomestico d’oltreoceano, il rock’n’roll era tutt’altro che il prodotto ufficiale dell’America superpotenza capitalistica e, dunque, più difficile da imbrigliare. Certo risalendo la penisola la nuova moda musicale aveva già subito un primo fisiologico adattamento al contesto nazionale, che non sembrava aver però del tutto devitalizzato la carica «esplosiva» di questi ritmi dalla radice afroamericana. Lo dimostravano i disordini riportati dalla stampa locale e nazionale che attribuiva al dilagare della nuova febbre musicale il moltiplicarsi di episodi di teppismo giovanile.
Che si trattasse di un fenomeno del tutto inedito era emerso con chiarezza il 18 maggio del 1957, quando i celerini abituati a fronteggiare scioperi e manifestazioni dalla chiara matrice socialcomunista, si erano invece ritrovati del tutto impreparati a gestire ragazzi scalmanati che si accalcavano anche oltre i cancelli del palazzo del Ghiaccio a Milano, impazienti di partecipare al primo festival del rock’n’roll, dove a debuttare con il pezzo Ciao ti dirò, erano I Rocky Boys, formazione composta da Adriano Celentano, Enzo Jannacci, Giorgio Gaber e Luigi Tenco.
Spettava quindi alla Rai democristiana e a parte dell’industria discografica il compito di patrocinare un vero e proprio rock nazionale provvisto di idoli e hit più vicini a una più rassicurante tradizione melodica nostrana. Un rock provinciale che finiva per diventare accettabile anche per le sinistre. Alta pressione era, non a caso, il titolo del programma musicale in onda sul neonato secondo canale televisivo della Rai, che nel 1962 si rivolgeva ai «giovani» senza la tradizionale pretesa pedagogica della tv originaria, ma trasformando il piccolo schermo in una sala da ballo per un pubblico di teenager, incantati di danzare insieme a star già affermate della canzone e tra queste, gli appena sedicenni Rita Pavone e Gianni Morandi.
Chiudeva il ciclo di trasmissioni Adriano Celentano lanciando un nuovo brano, che sin dal titolo sintetizzava a pieno non solo la missione del programma, ma l’intera politica democristiana: una via nazionale alla modernizzazione che non si discostasse dai valori tradizionali, innanzi tutto cattolici; si trattava del pezzo del cantante nero Ben E. King Stand byMe, che perdendo ogni promiscuità del testo in lingua inglese diveniva nella versione italiana di Celentano Pregherò.
Non era solo la Dc a occuparsi dei pericoli associati alla diffusione del rock’n’roll; la questione toccò anche il Pci, in questo periodo scosso dal «terribile 1956» che aveva portato in Italia alla rottura con il Psi ormai proiettato verso un accordo con la Dc. La prospettiva di un isolamento politico a sinistra obbligava a una revisione dell’identità comunista per salvaguardare le radici del Pci nella società italiana avviata a un processo di cambiamento inarrestabile di cui il rock’n’roll era uno dei sintomi. Un genere musicale che era appunto l’emblema del «nemico americano» e soprattutto uno strumento privilegiato nella diffusione del suo modello culturale in tutto il mondo compresi i territori del blocco sovietico. Se persino in Russia e nei paesi satelliti le autorità comuniste non riuscivano a sbarrare l’ingresso al jazz, in Italia era evidente l’impotenza del Pci nel contrastare la diffusione del rock’n’roll, col rischio di alienarsi le simpatie di ragazze e ragazzi allevati nelle organizzazioni giovanili del partito, attirati dalla nuova musica.
Non era una caso che, nella stampa comunista, le inchieste e la polemica sulla nuova moda musicale – ritenuta insieme al cinema e alle ultime diavolerie Usa come una delle cause scatenanti dei tanti episodi di devianza minorile - stridessero con le sfavillanti e patinate copertine che la rivista della Fgci “Nuova generazione” e il rotocalco comunista “Vie nuove” dedicavano alle dive hollywoodiane, e con gli articoli sui giovani e italianissimi idoli della canzone che, rivisitando alla radio e in tv i ritmi americani in chiave nostrana, mettevano in difficoltà i divi della canzone tradizionale. Anche il mondo comunista, se voleva mantenere il passo con la società del miracolo economico non poteva, seppur solo in superficie, non tendere una mano alla modernità e alle sue molteplici seduzioni; in fondo anche il rock’n’roll una volta imbrigliato nella sua «Italian way», pur tra le proteste dei militanti più anziani, poteva essere suonato e ballato nei circoli comunisti o alle feste dell’Unità.
Insomma, nell’Italia che cambia al ritmo del rock non sono solo le ragazze ad essere rovesciate dai propri partner sulle piste da ballo, ma è lo stesso sistema di valori dell’Italia del secondo dopoguerra che rischia di essere ribaltato. Dalla capacità della classe politica - maggioranza e opposizione - di contenere e interpretare l’irrefrenabile ondata di trasformazione dipende la natura stessa del ’68 italiano; di movimento «antisistema» di contestazione generazionale, come nel resto del mondo occidentale, o di profonda crisi politica in grado di mettere in discussione l’apparato stesso dei partiti di integrazione di massa che nel secondo dopoguerra hanno fondato l’Italia repubblicana e democratica.

“alias – il manifesto”, 26 marzo 2011

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