8.8.14

Storie italiane. Alfa Romeo, il grande regalo agli Agnelli (Loris Campetti)

Una Alfa Romeo Giulietta degli anni Cinquanta del Novecento 
«Il problema dell’industria automobilistica italiana è rappresentato dal monopolio in mano agli Agnelli». Quante volte abbiamo sentito questo grido di dolore negli ultimi anni, lanciato da sponde opposte, dalla politica,dal sindacato e persino dall’economia? In genere accompagnato da un’altra denuncia: «La Fiat è un’azienda assistita dallo stato». Per spiegare perché siamo arrivati a questo punto ci vorrebbe un libro che riattraversasse l’intera storia del Novecento, dal 1899 (anno di nascita della multinazionale torinese), alle commesse belliche alla Fiat nella guerra di Libia del 1911, all’inglobamento spesso agevolato dalla mano pubblica di tutti i marchi automobilistici, alla scelta politica del modello di mobilità subalterno agli interessi degli Agnelli. Non è raro oggi ritrovare, tra i teorici del pluralismo del mercato e della libera concorrenza, alcuni degli artefici del monopolio automobilistico, del modello di mobilità auto-centrato e dell’assistenzialismo pubblico alla Fiat.
In questa sede ci limiteremo a ricostruire i tratti salienti della privatizzazione dell’Alfa Romeo e dunque del regalo alla famiglia torinese dell’ultimo marchio autonomo e pubblico delle quattro ruote. Gli attori principali di questa commedia all’italiana – trasformatasi in tragedia per migliaia di lavoratori, per le casse dello stato e per lo stesso prestigioso marchio del Biscione – sono 5: l’avvocato Gianni Agnelli, che non tollerava l’idea di ritrovarsi un concorrente in casa (la Ford); Romano Prodi, presidente dell’Iri, proprietario dell’Alfa tramite Finmeccanica; il sottosegretario alla presidenza del consiglio e deputato di Torino Giuliano Amato che lavorò ai fianchi il suo capo Craxi per agevolare la soluzione italiana, nonostante le offerte e le garanzie della Ford fossero migliori per ammissione di tutti; il ministro dell’industria Valerio Zanone, anch’egli deputato torinese e altrettanto orientato «italianamente» come Amato; il presidente del consiglio Bettino Craxi, artefice insieme a Prodi dell’«affare» Alfa Romeo. È sicuramente un caso che tre dei cinque attori, cioè tutti quelli viventi, siano collocati nel fronte variegato del centrosinistra.

Dalla nascita fino al flop dell’Arna
Nel 1906 nasce la Società italiana automobili Darracq con sede a Napoli, città troppo lontana dalla «domanda» di automobili e infatti nel 1908 si inaugura lo stabilimento milanese del Portello. Nel 1909 la Siad viene messa in vendita e finisce (1910) nelle mani di un gruppo di finanzieri lombardi che le danno il nome Alfa (Anonima lombarda fabbrica automobili). Nello stesso anno cominciò la produzione del primo modello Alfa, la 24 Hp progettata da Giuseppe Merosi e poi iniziano le corse. Nel 1915 arriva l’ingegnere napoletano Nicola Romeo ed eccoci all’Alfa Romeo, che l’Iri acquisterà nel 1932, dandola in gestione alla Scuderia Ferrari. La società corre e cresce fino ai bombardamenti della 2° guerra mondiale che porteranno alla chiusura momentanea del Portello. Negli anni Cinquanta riparte la produzione (i modelli vincenti sono la 1900 e la Giulietta) e continua la lunga corsa su strada e su pista che incorona, nel tempo, piloti come Ferrari, Farina, Fangio, Fagioli, Ascari). All’inizio degli anni Sessanta si inaugura lo stabilimento di Arese che sfornerà nel ‘63 il suo primo modello, la Giulia Gt. Arese è la più illustre delle vittime dell’era Fiat dell’Alfa che ha disperso lavoro, professionalità, senso d’appartenenza di oltre 15 mila dipendenti.
La data definitiva del decesso, preceduta da una lunga agonia, è il 2009. Nei suoi 46 anni di vita questa fabbrica ha prodotto oltre alle automobili e al conflitto sociale anche molto personale politico quasi esclusivamente per la sinistra: ben 31 parlamentari. La prima pietra dell’Alfa Sud, invece, viene posta a Pomigliano d’Arco da Aldo Moro il 29 ottobre del 1968. Non è contento l’aspirante monopolista Gianni Agnelli che definisce la scelta del governo «una pazzia, un’operazione clientelare in grande stile, nient’altro». I suoi successori si sarebbero vendicati dell’affronto.
Gli operai edili che hanno costruito lo stabilimento vengono riconvertiti in metalmeccanici, mediante trasferimento dalle impalcature alle linee di montaggio. Una sciagurata collaborazione dell’Alfa Romeo con la Nissan partorisce, nell’83, l’Arna, la peggiore performance delle quattro ruote italiane o giù di lì. La peggiore, insieme alla nascita della comica Fiat Duna.

La svendita
Il flop dell’Arna non è che l’ultima delle operazioni sbagliate dal management e dal suo proprietario pubblico e la sua uscita di produzione, nel 1987, coincide con la svendita dell’Alfa Romeo alla Fiat. Nel 1985 le perdite consolidate del gruppo sono di 1.685 miliardi di lire, nonostante una cifra quasi equivalente alle casse di Finmeccanica a quelle del Biscione dal 79 all’86. Da qui la decisione di vendere. Il primo potenziale acquirente a farsi avanti è l’americana Ford che punta a mettere un piede nel ricco mercato italiano (al tempo il quarto mondiale, dopo Usa, Giappone e Germania). Ford offre ampie garanzie e soldi ma ha un grande nemico: l’avvocato Agnelli che punta a chiudere il cerchio e inglobare l’ultimo concorrente italiano. Agnelli ha dalla sua la politica e soprattutto il governo. Inizia nella seconda metà del 1986 un lungo balletto di offerte e controproposte, proprio mente la Fiat è impegnata a liberarsi di un socio «scomodo» che gli Usa hanno scritto sul libro nero delle nazioni: la Libia di Gheddafi che con la finanziaria Lafico detiene un cospicuo pacchetto di azioni della multinazionale torinese. La liberazione (con ricca buonuscita, realizzata attraverso una straordinaria quanto truccata crescita delle azioni Fiat) da Gheddafi dell’Agnelli «americano» è contemporanea alla scelta del governo e dell’Iri di regalare l’Alfa Romeo all’Agnelli «italiano». Un pessimo affare economico, la formalizzazione definitiva del monopolio automobilistico Fiat in nome di un’improbabile e poco credibile difesa dell’italianità del marchio Alfa.
La Fiat si impegna a pagare con rate decennali (e solo a partire dal ‘93) 1.050 miliardi di lire, con la promessa del salvataggio del marchio sia pure attraverso la fusione con la Lancia con destinazioni produttive certe, garanzie occupazionali a nord e a sud e salvaguardia degli stabilimenti. Il danaro passato nello stesso periodo dallo stato alla Fiat supera di gran lunga l’ammontare dell’acquisto dell’Alfa Romeo.
Quel che avvenne sotto il cappello Fiat è noto: distruzione della cultura organizzativa dell’Alfa, sostituita dalla filosofia militar-burocratica dei torinesi ancora forti della vittoria dell’80 contro il movimento operaio torinese; epurazioni di professionalità e quadri sindacali con l’obiettivo di distruggere ogni sorgente e motore di conflitto; cancellazione di migliaia di posti di lavoro; svalorizzazione del prestigioso marchio con relativa rottura mai sanata nel rapporto fiduciario e identitario di un pubblico importante in Italia e in Europa – gli alfisti. Arese, come abbiamo raccontato, è stata fatta morire mentre Pomigliano è stata militarizzata (ma non piegata), per farne il caposaldo della più feroce restaurazione capitalistica.
Di tutto questo, della più insensata privatizzazione almeno fino alla liquidazione della telefonia realizzata cavalcando i capitani coraggiosi, e del monopolio di una Fiat in fuga verso la Serbia e gli Usa, adesso sappiamo almeno chi ringraziare.


Privati, supplemento al “manifesto”, 30 novembre 2010

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