27.8.14

Roma imperiale. I ritratti del potere (Caterina Mascolo)

Ho trovato questa recensione di una mostra ai Musei Capitolini su un vecchio “alias” e mi è sembrata nella sua brevità assai ben fatta, giacché riesce a dare agilmente conto di una questione centrale nella storia dell'arte antica e a suggerirne le implicazioni teoriche. E per di più invoglia ad una visita (o, per chi legge in ritardo, la fa rimpiangere).
In rete ho poi scoperto che al tempo dell'articolo Mascolo aveva 22 anni. Mi sono commosso. Da vecchio, pedante professore ho notato qualche giovanile intemperanza stilistica, e la cosa mi aveva tirato fuori una lacrimetta; ora l'intenerimento addirittura mi fa sperare: se ci sono in giro ragazze così brave, non tutto è perduto. (S.L.L.)
Ritratto di Caracalla 
«Le fotografie possono raggiungere l’eternità attraverso il momento» (H. Cartier-Bresson). Anche il ritratto di qualsiasi individuo, nell’antichità greca e romana, si presta a essere interpretato come un manifesto per l’eternità e come un mezzo per sconfiggere la morte attraverso la salvaguardia della fisionomia. Non va però trascurata la fondamentale funzione dell’effigie con il personaggio ancora in vita; basti pensare allo scopo celebrativo dei ritratti degli imperatori, che, sparsi e riconoscibili in tutto l’impero, veicolavano una sorta di biografia «facciale» autorizzata del dinasta, aspetto affrontato anche dalla mostra I ritratti Le tante facce del potere, ai Musei Capitolini fino al 25 settembre (a cura di Eugenio La Rocca e Claudio Parisi Presicce).
Ma cosa si intende per ritratto? Tre le condizioni fondamentali stabilite a suo tempo da B. Schweitzer e in parte ancora condivisibili: la raffigurazione di un personaggio specifico, la riconoscibilità dello stesso nella sua unicità e la riproduzione non solo fisionomica, ma anche caratteriale del soggetto (del resto Cicerone considerava il volto «lo specchio dell’anima»).
Il ritratto romano si è da sempre configurato, nell’ambito dell’antichistica, come uno dei temi più dibattuti: già J. Wickhoff vi riconobbe una delle forme artistiche più originali e autonome dell’arte romana; da tale premessa gli studi degenerarono in considerazioni razziali sulla presunta genuinità, tutta autoctona, dei volti della Roma repubblicana (IV-I secolo a.C.). La consistenza delle presunte energie indigene è stata però da tempo sconfessata, mentre maggiore attenzione si è prestata di recente ai processi di rielaborazione o semplificazione dei modelli greci.
Così la sezione iniziale della mostra «Egitto, Grecia, Roma» consente un eccezionale, per quanto complesso (per archeologi e non), accostamento tra la ritrattistica dell’Italia centrale in terracotta, bronzo e marmo e diverse creazioni greche, come il ritratto del commediografo Menandro: ben si comprende allora come le formule fisionomiche e formali elaborate in Grecia vengano recepite con prontezza sul suolo italico. Un’altra erronea tendenza ha riconosciuto nel ritratto antico un’evoluzione rettilinea, con esordi «ideali» culminati nel «naturalismo»/«verismo» dei tratti (termini spesso usati come sinonimi, senza che lo siano).
Eppure, non si può essere schematici nel tracciarne la storia e non lo si può fare con i nostri parametri di giudizio; che errore, infatti, considerare un ritratto «ideale» come non individuale (e di converso, pensare che qualche ruga basti a rappresentare con fedeltà un personaggio!); piuttosto, i due poli sono tra loro comunicanti, a volte persino sovrapposti. L’ossessione di ricercare la verosimiglianza in questi volti è poi tutta moderna: d’altronde, già Plinio il Vecchio denunciava il crollo di popolarità del ritratto somigliante… Semmai, le ricerche attuali tendono a cavillare – eccessivamente? – sull’aspetto formale, vivisezionando ogni disposizione di capigliatura mediante una precisa conta dei riccioli per l’individuazione dei tipi degli imperatori come dei «privati». Iper-reazione ai tentativi psicologizzanti di un tempo?
Se è meglio non cadere in facili equazioni (una bocca serrata nel III d.C.? Ovvio, è un’età d’angoscia!), le letture solo analitiche di queste immagini consentono sì una precisa datazione al quarto di secolo, ma rischiano di trasformarsi in studi esangui e di trascurare l’impatto dei ritratti sugli spettatori antichi. Nel catturare i tratti individuali di qualsiasi personaggio la realtà si intreccia alla finzione, l’arte alla mimesi; i piani si amalgamano a tal punto da non consentire più una lucida distinzione tra i diversi intenti. La maschera «pirandelliana» ben si applica specie sui volti dei potenti: la bocca serrata di un Traiano corrisponde a un atteggiamento reale che fu dell’Optimus, o è piuttosto un piglio energico costruito ad arte, quasi a mo’ di spot elettorale? O ancora, l’«espressiva volgarità» di Vespasiano ricalca i tratti di un provincialotto asceso alla porpora o mira a marcare quei requisiti di praticità e concretezza necessari dopo la caduta del vanesio Nerone?
A proposito di maschere. È proprio da quelle in cera degli antenati, tanto efficacemente descritte da Polibio – altrimenti sconosciute per via archeologica, se non in pallidi riflessi –, che l’esposizione prende avvio, snodandosi poi attraverso altre sezioni tematiche. Possono principi e privati uniformarsi agli dèi, almeno sul piano figurativo? Come si ricostruiscono le fisionomie di illustri predecessori e celebri personaggi (Omero, Esiodo etc.) senza che se ne conoscano i precisi tratti? Quale il linguaggio dei corpi, delle vesti e degli attributi? Le teste che spesso ci paiono mozzate vanno infatti ricollocate su statue stanti in varie pose, in abiti civili, loricate o nude; ciascuna tipologia comunicava uninsieme di messaggi che consentivano allo spettatore antico di interpretare
l’immagine senza – o quasi – margine d’errore. Ancora: la tendenza a copiare le mode dei vip (ossia, i membri della famiglia imperiale) si riscontra anche nel mondo romano: l’adesione ai modelli è tanto entusiasta da non limitarsi, in alcuni casi, a soli prestiti d’acconciatura, ma da estendersi persino alle stesse fisionomie. Ecco dunque perché tanti piccoli Traiani di ogni ceto sfilano in mostra, assecondando una tendenza che oggi avrebbe dell’inquietante: basti immaginare ogni cartellone pubblicitario con i volti calcati su quello del leader politico di turno…
Una Vanity Fair è infine assicurata dalle matrone romane, algide e belle come dee, pettinate con vistose ed elaborate acconciature che si spingono fino al kitsch estremo (per il nostro gusto): sensuali corpi divini – replicati da statue di Afrodite, ad esempio – in un curioso patchwork possono infatti abbinarsi a teste persino di anziane.
In conclusione, la mostra funziona sul piano estetico/scientifico, e il voluminoso catalogo si pone come un prezioso vademecum non solo per l’allestimento, ma anche per l’intero stato della questione.

“alias – il manifesto”, 2 luglio 2011

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