27.8.14

Torino anni 60. L'immigrato motore della modernità (Alberto Papuzzi)

Articolo da “La Stampa” utile a ricordare un importante problema storiografico. La lettura del processo di trasformazione della città sulla spinta delle nuove presenze mi pare valida, ma la conclusione del pezzo è eccessivamente conciliante e, perciò, non corrispondente alla realtà dei fatti. Gli scontri di Corso Traiano (c'è tutta una letteratura coeva a ricordarcelo) non unirono, divisero; e non secondo le linee tradizionali. E le tensioni furono addirittura laceranti. Su quella giornata di lotta si divisero al loro interno persino il Pci e la Cgil. Non sono necessarie, per rendersene conto, accurate ricerche, basta sfogliare giornali e riviste del tempo: la stessa “Stampa” per esempio, che gli operai proprio da allora cominciarono a chiamare “la Bugiarda”; o, sul fronte opposto, i “Quaderni rossi”. (S.L.L.)

Che cosa sarebbe oggi Torino se non ci fossero state, nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta, le grandi ondate di immigrazione meridionale? E non solo meridionale. Un colossale trasferimento di persone, culture, concezioni politiche, speranze e sacrifici. Che cosa hanno realmente significato nella vita della città gli afflussi massicci, alla stazione ferroviaria di Porta Nuova, con i «Treni del Levante» e con il «Treno del Sole», di contadini, braccianti, sottoproletari e disoccupati, che in quella calca iniziavano un faticoso viaggio dentro il maggiore polo industriale italiano, tra alloggi di fortuna, disturbi psicologici e il ripetitivo tic della catena di montaggio?
Interrogativi che hanno avuto in genere risposte tradizionali, per cui il movimento migratorio è stato visto come lo specchio di un paese spaccato, e come un dato di emarginazione e povertà, non una chance ma un handicap, fonte di stravolgimenti. Ma non sono mancate letture trasgressive, che hanno individuato nel fenomeno una molla per la modernizzazione del paese, e un potente fattore di trasformazione della città verso nuove forme nella politica, nell'urbanistica, nella funzione dei partiti, nell'organizzazione sociale.
Fondamentale in questa linea l'uscita nel 1964 dell'inchiesta L'immigrazione meridionale a Torino di Goffredo Fofi, inequivocabile nella rappresentazione del fenomeno, e delle forze in campo. Avrebbe dovuto essere pubblicato presso Einaudi, dove però apparve troppo duro rispetto a soggetti come la Fiat o il Pci, per cui l'editore disse di no, dopo un drammatico consiglio editoriale (l'inchiesta sarà pubblicata e più volte riedita da Feltrinelli).
Su questo stesso fronte di ricostruzione, l'immigrazione come moltiplicatore di sviluppo, è arrivato nelle librerie Da Porta Nuova a corso Traiano (Bononia University Press, pp. 263, € 25) di Michelangela Di Giacomo, ricercatrice dell'Università di Siena, specializzatasi nella storia delle migrazioni. Sulla base di una sterminata massa di documenti, il libro propone l'immigrazione come motore di modernizzazione, prima che conseguenza di squilibri.
Non che l'immigrazione sia spogliata dei suoi aspetti più aspri e dolorosi. Il libro, per esempio, ricorda e cita diversi diari di operai giunti alla Fiat dal Sud. O raccoglie testimonianze direttamente dalla voce dei protagonisti di quelle irripetibili vicende. «In linea. Io stavo morendo in linea - confessa un'operaia. Una linea lunghissima, da impazzire». Un altro testimone: «Diventavo pazzo. C'era una giostra, una piccola linea che girava sempre». Di pagina in pagina si seguono i percorsi dei nuovi arrivati alla ricerca di lavoro: prima nei cantieri dell'edilizia, spesso in condizioni precarie, poi nelle «boite», le piccole officine, da ultimo alla Fiat, chi ce la faceva: «Quando finalmente, all'inizio del '62, sono stato assunto a Mirafiori mi sembrava di aver toccato il cielo con un dito: lo stipendio aumentava, non dovevo più considerarmi un precario, ma i problemi sono cominciati subito, perché io non ero abituato a quel tipo di organizzazione del lavoro».
Ma è proprio l'asprezza dell'inserimento, è proprio il rischio dell'isolamento, con la diffusione di microcomunità di immigrati, a spingere verso forme di partecipazione sempre più irruente e consapevoli, su nuovi obiettivi di grande impatto sociale. Sono gli immigrati meridionali a chiedere che ci si batta non solo per le tradizionali rivendicazioni operaie - salari, orari, qualifiche - ma anche per conquiste che riguardano le condizioni di vita dei nuovi arrivati nella città. In questo conflitto tra la vecchia aristocrazia operaia e il nuovo operaio-massa maturavano le esperienze da cui sarebbe uscita una nuova classe politica e sindacale.
D'altronde queste vite che si perdevano in un nuovo mondo, di due cose erano debitrici alla città in cui poteva capitare di vedere i cartelli «Non si affitta a meridionali»: innanzi tutto lì, comunque, si faceva il futuro del paese. Come si legge in una pagina della ricerca, «non saranno proprio quelle macchinette utilitarie che lui e i suoi compagni producono con i loro gesti ripetitivi che porteranno il benessere da Trento a Catanzaro?». La città delle fabbriche è anche la città del miracolo economico, che dal '53 registra crescita dei consumi, dai frigoriferi alle radio alle automobili. In secondo luogo, l'intera ricerca è immersa dentro il mondo del lavoro, per cui si registrano le diverse politiche con cui, in quindici anni, comunisti e socialisti, Uil e Acli, superando anche radicati pregiudizi, inseriscono progressivamente le frotte di immigrati nel mondo delle officine, e avviano una graduale ma efficace integrazione tra la condizione operaia, dentro la fabbrica, e i bisogni degli operai, fuori nella città. Non a caso il libro si chiude sugli scontri di corso Traiano, che videro una fusione tra le due alternative, per una nuova stagione politica e sindacale.


“La Stampa” 21 novembre 2013

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