Rievocazione, nel
cinquantennio, di un momento cruciale della storia politica italiana,
la caduta nel novembre del 1945 del governo Parri, il governo del
“vento del Nord”, insediatosi subito dopo la Liberazione (giugno
1954). Il punto di vista del giornalista è manifestamente vicino
quello dell'“azionismo” e dunque le responsabilità di quella
caduta, giudicata un'involuzione, sono equamente divise tra le forze
moderate (liberali e DC) e i socialcomunisti; e tuttavia Corbi non
tace che anche il Partito d'Azione abbandonò al suo destino quel
governo e il suo presidente, quello che Walter Binni, che lo aveva
conosciuto nella cospirazione antifascista, avrebbe un giorno
definito “un volto nobile tra tanti ceffi ignobili”. (S.L.L.)
Settembre 1945. Il presidente Parri visita a Milano la mostra sulla ricostruzione |
Cinquant' anni fa, nelle
agitate settimane dell' autunno 1945, la caduta del governo Parri
segnò una svolta nella storia politica del nostro paese. Un
cambiamento decisivo che pochi avvertirono ma che dava inizio, col
primo ministero guidato da Alcide De Gasperi, al lungo predominio
democristiano.Fu una crisi complessa e drammatica. Una crisi che
ancora oggi, a mezzo secolo di distanza è una ferita non
rimarginata, una specie di rimorso non dimenticato della sinistra
italiana. Una sconfitta forse necessaria e inevitabile, ma che
accelerò la fine dell'Italia della Resistenza e dette il via alla
lunga serie di governi moderati all'insegna della Democrazia
cristiana.
Parri si dimette il 24
novembre del 1945 e viene sostituito due settimane dopo, il 10
dicembre, da Alcide De Gasperi. Ma per comprendere il senso di quell'
avvenimento bisogna fare un passo indietro di cinque mesi. Il 21
giugno del 1945, sospinto dal "Vento del Nord", Ferruccio
Parri - il popolare "Maurizio" e leader del Partito d'
Azione - arriva a Roma per sostituire alla guida del Governo il
vecchio notabile dell'Italia liberale Ivanoe Bonomi. Il cambio non è
indolore. La nomina di Parri arriva infatti solo dopo un tormentato
braccio di ferro tra i rappresentanti di un'Italia del Nord che vive
ancora nel clima della Liberazione, e i politici rimasti a Roma a
ricostruire, a restaurare, a ricucire, a mettere un po' d'ordine in
un paese moralmente e materialmente distrutto.
Nell'estate del 1945
l'Italia è, per molti aspetti, ancora spaccata in due,
psicologicamente e politicamente. Lo spettacolo è desolante. Le
comunicazioni sono praticamente distrutte, i servizi essenziali
paralizzati. Gli italiani non sono mai stati così magri. La razione,
per la maggior parte della popolazione, è al limite della
sopravvivenza: 150 grammi di carne alla settimana, 500 grammi di olio
e due chili di pasta al mese. Distrutti 2.986 grandi ponti e il 40
per cento delle aule scolastiche. Gli italiani camminano sulle
macerie. Si spostano su camionette e carri bestiame. Si affidano per
mangiare alla "borsa nera" e al buon cuore degli Alleati.
Con l'arrivo di Parri
sembrò per un momento che un nuovo ciclo politico si fosse aperto
con l'obiettivo di rinnovare radicalmente le vecchie strutture dello
Stato travasate nel fascismo. La premessa che muove Parri, e gran
parte delle sinistre che hanno vissuto l'esperienza della Resistenza,
è che non sarà possibile costruire uno Stato moderno e più giusto
senza prima aver spazzato via il marciume del fascismo e dello stesso
regime liberale anteriore al 1922. Progetti generosi ma destinati a
scontrarsi con la realtà romana. Fin dal giorno del suo insediamento
- il 21 giugno del 1945 - Parri dovette ben presto rendersi conto che
lo scirocco della nomenklatura della Capitale era ben più forte del
"Vento del Nord". Dopo cinque mesi di governo,
l'accerchiamento di Parri è quasi completo.
Non sono solo i grandi
burocrati a rendergli la vita difficile. Dopo cinque mesi di
navigazione il popolare "Maurizio" è alle corde, come un
pugile "groggy" scientificamente lavorato ai fianchi
e al fegato dai partiti del Cln che pure avrebbero dovuto essere i
suoi principali collaboratori. I giornali gli erano quasi tutti
sfavorevoli e non lesinavano critiche ed irrisioni. Il settimanale di
Guglielmo Giannini definiva il Partito d' Azione "il partito più
ridicolo dell'Italia post-Federico Barbarossa". Perfino un
giornale amico come “L'Europeo” metteva l' accento sulle
debolezze del capo del governo e sul suo eccessivo, e sterile,
moralismo. "Un profondo senso di disagio e di scontentezza",
scriveva “L'Europeo”, "si è venuto diffondendo negli ultimi
tempi nel paese, e forti correnti di opinione pubblica rifluiscono
impetuosamente verso destra". Parri, aggiungeva il settimanale
diretto da Arrigo Benedetti, ha una responsabilità molto limitata in
tutto questo: "I disordini, le violenze di alcuni gruppi
sbandati di partigiani, le intemperanze del Cln, la debolezza delle
forze di polizia, il disordine dell' amministrazione, la precarietà
della nostra situazione internazionale non sono certamente da
imputarsi a lui". Ma a lui, è l' impietosa conclusione di
Benedetti, "è da imputarsi la grande mancanza dell'opportunità
politica, una specie di irresistibile tendenza alla gaffe".
Mentre Parri è alle
prese con l'ordine pubblico, con la rimozione di prefetti e questori,
con i problemi spinosi dell'epurazione e degli approvvigionamenti
alimentari, i partiti di sinistra che avrebbero dovuto appoggiarlo
(Psiup, Pci, Partito d' Azione) prendono sempre di più le distanze.
I giudizi dei leader della sinistra su Parri sono durissimi, nella
forma e nella sostanza.
Scrive Nenni nel suo
diario: "E' una ghiacciaia. Parla impacciato guardandosi la
punta delle scarpe e non reggendo lo sguardo dell' interlocutore. Io
avevo finito per schivarlo tanto la conversazione è penosa con
lui...".
Altiero Spinelli, che
pure è del suo stesso partito, è addirittura insultante: "Parri,
malinconico, timido, sospettoso, debole, testardo... Era e si sentiva
un dispensatore di energia morale priva di vera volontà d'azione.
Oggi è come un gufo abbagliato dalla troppa luce...".
Sul versante moderato, a
parte De Gasperi che manifestò un certo fair play, l'attacco
è frontale. Il leader dei liberali Leone Cattani lo descrive come un
velleitario e un incapace: "Gli arrivavano montagne di carte che
si accatastavano sul suo tavolo. Lui non usciva mai dalla sua stanza
neppure per mangiare. Si faceva portare due uova al tegamino, dormiva
su una branda". L' altra accusa è di non aver senso del suo
ruolo: "Non c' era verso di fargli accettare il cerimoniale che
si usa in certe visite. Lui desiderava di trattare alla pari con
chiunque gli si rivolgesse. Quando un partigiano andava a trovarlo al
ministero entrava nella sua stanza e si sedeva mettendo i piedi sul
tavolo".
Sarà proprio il liberale
Cattani, un avvocato di 39 anni, bell'uomo, carattere difficilissimo,
come Parri coraggioso oppositore del fascismo, ad aprire la crisi. E'
lui, il 23 novembre del 1945, a scardinare il governo Parri
dall'interno. E' lui a presentare un decalogo di condizioni
inaccettabili: dalla liquidazione del Cln alla fine dell'epurazione e
al ritorno dei prefetti di carriera. Ed è infine ancora Cattani, a
portare avanti con decisione la candidatura di Alcide De Gasperi.
Si è discusso a lungo di
quella crisi, ricca di retroscena e di colpi di scena. Ma un po'
tutti sono d'accordo nel riconoscere che la sinistra, tutte le
sinistre, dimostrarono in quella occasione una scarsissima volontà
politica nel difendere il loro naturale rappresentante. La crisi
aperta da Cattani si conclude nel giro di ventiquattro ore con una
tempestosa conferenza stampa convocata la sera del 24 novembre 1945
da un Parri perfettamente consapevole che il suo breve viaggio
governativo è terminato. E, come spesso accade, non fu un esponente
della politica ma un artista come Carlo Levi a cogliere il senso più
profondo di quella drammatica e tumultuosa giornata. "Lo
guardavo", scrive il protagonista del romanzo L' Orologio,
"diritto in mezzo ai due compagni di destra e di sinistra, dai
visi fin troppo umani, accorti, avidi di cose presenti, e mi pareva
che egli fosse impastato della materia impalpabile del ricordo,
costruito col pallido colore dei morti, dei fucilati, degli
impiccati, dei torturati con le lacrime e i freddi sudori dei feriti,
dei rantolanti, degli angosciati, dei malati, degli orfani, nelle
città e nelle montagne... Dicevano che non fosse un uomo politico,
che non rappresentasse nessuna forza reale, che non sapesse
destreggiarsi nel gioco avviluppato degli interessi, che non fosse
altro che un personaggio simbolico e neutrale. Ma egli rappresentava,
o ne era piuttosto costruito, qualche cosa che non è negli schemi
politici...". E, come epitaffio, le parole diventate celebri che
Levi mette in bocca al protagonista del suo romanzo: "E' un
padre. Un crisantemo. Un crisantemo sopra un letamaio".
Ai molti che lo
rimproveravano per quella drammatica conferenza stampa notturna al
Viminale, quasi un happening politico, Parri rispose che la sua
scelta era obbligata. "Non avevo altro mezzo", dirà, "di
comunicare col paese e spiegare cos'era successo. Se invitai i
corrispondenti esteri fu perché avevo ottimi rapporti con loro e
l'opinione internazionale, in quella circostanza, m'interessava più
di quella italiana. Dissi che c'era una cosa che l'Italia non avrebbe
mai potuto tollerare: il ritorno del fascismo. Dissi che la crisi
provocata dai liberali era una porta aperta a questo ritorno. Sentivo
che era in corso un movimento di riflusso, che l' Italia del
Ventennio, sconfitta dalla Resistenza, mirava a una rivincita e che
si sarebbe servita della crisi per ottenerla. Non dissi che
democristiani e liberali si facevano complici del fascismo, ma lo
lasciai capire. Dicono che questo sfogo fu un errore. Ma io non ero
un Giolitti, non ero un ministro di professione. Non facevo calcoli.
Il mio era un discorso ammonitore e io avevo il diritto di farlo".
Aver abbandonato senza
combattere, o almeno fare una qualche resistenza, la posizione
presidiata da Parri, non fu senza conseguenze all' interno delle
sinistre. Venti anni dopo i protagonisti di quegli avvenimenti,
interrogati da Manlio Cancogni per “L'Espresso”, si lasciarono
andare ad una specie di autoanalisi critica che conserva ancora oggi
un notevole valore storico e politico.
Giustificazione del
comunista Giorgio Amendola: "Parri ormai era condannato.
Rappresentava una posizione troppo avanzata, e le forze conservatrici
non potevano accettarlo. Con lui non saremmo mai andati alle
elezioni... Se Parri ci avesse chiesto di batterci non ci saremmo
rifiutati. Ma dopo una breve resistenza lui stesso abbandonò".
Giustificazione del
socialista Sandro Pertini: "Noi socialisti credevamo di poter
sbarcare i liberali. Per questo avevamo accettato la caduta di Parri.
L'esclusione dei liberali sarebbe stata il giusto compenso".
Giustificazione
dell'azionista Ugo La Malfa: "Fu un grave errore abbandonare al
suo destino senza combattere Parri: se si fosse formato un blocco di
comunisti, socialisti e azionisti, i moderati avrebbero osato
spingere a fondo? Io credo di no. Non conveniva loro. Avrebbero
atteso. Ci lasciarono distruggere. De Gasperi ci liquidò, e con noi
liquidò l' unico partito capace di spingere la democrazia senza
spaccare il paese...".
Ferruccio Parri, più
sincero, sostenne invece che le sinistre, consentendo ai liberali di
abbattere il suo governo, "garantirono la continuità dello
Stato fascista, con i suoi istituti, le sue leggi, i suoi privilegi".
“la Repubblica”, 24
novembre 1995
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