Estela Carlotto, fondatrice delle "nonne di plaza de Mayo" (Abuelas) |
Buenos Aires,
12.8.2014
“Ho ricevuto una delle
gioie più grandi della mia vita: ritrovare un nipote che mi rubò la
dittatura civico-militare, quando mia figlia Laura, la più grande,
lo diede alla luce in un campo di concentramento. L’ho cercato per
più di trentasei anni – trentasette, perché quando l’hanno
presa già sapevo che aspettava un bambino e cominciai a cercarlo, a
reclamarlo alla giustizia di allora, che era la giustizia militare,
una giustizia che non esisteva. Trentasette anni di cammino per tutto
il paese, per tutto il mondo, cercando tutti i nipoti, perché questa
delle Abuelas è un’istituzione collettiva – non si cerca
il nipote di ciascuna, ma tutti i nipoti. E’ un lavoro duro, una
lotta di donne che si sono ribellate, e ci riusciamo quando vengono
loro a cercarci ora che sono adulti, come ha fatto mio nipote, o
quando noi troviamo dati sufficienti per presentarli ai tribunali”.
“Io vedevo che
passavano gli anni senza notizie, avevo già fatto 84 anni e la mia
preghiera era: non voglio morire senza riabbracciare mio nipote.
Anche quando ho dovuto testimoniare al procedimento che è in corso
contro gli assassini, gli chiesi che si mettessero una mano sul
cuore, ci dicessero quello che sanno perché possiamo trovare i
nipoti che sono desaparecidos vivi. Comunque non so come è
arrivato il giorno in cui nei dati della nostra Banca dei dati
genetici risultò che avevano identificato mio nipote Guido –
perché per me, per la mia famiglia, si chiama così [lui è vissuto
finora col nome di Ignacio e ancora si trova più suo agio così]. Il
5 agosto. Un miracolo, una cosa che mi ha riempito di luce, dicono
che sembro ringiovanita di colpo. La gioia trasforma tutto”.
Le compagne
dell’università di La Plata che sono con me confermano: lo scorso
aprile venne a La Plata a inaugurare la lapide all’università, e
camminava col bastone, piegata, il volto scavato. Stasera entra senza
aiuto, agile ed elegante come se avesse un quarto di secolo di meno.
“Quello che sento da
allora è una soddisfazione enorme non solo mia e della mia famiglia:
penso a sua madre, a suo padre. E mio marito Guido. Perché la madre
lo tenne nel ventre e lo partorì in un luogo orrendo, malnutrita,
torturata, ma Guido, il suo bambino, nacque; e nacque bene. Era una
coppia sfortunata, avevano già perso due bambini; ma si vede che in
questa solitudine del carcere si afferrò a questo figlio. Da dove ci
vede, sarà felice anche lei. E il padre, che pochi giorni dopo lo
sequestrarono – assassinato. Trovammo i suoi resti, continuavamo a
cercare, e c’erano delle corrispondenze con una famiglia del Sud.
Ai ricercatori dissero che c’era la possibilità che proprio il
loro figlio desaparecido fosse stato il compagno di Laura e
che anche loro potevano essere i nonni: e accettarono di dare il
sangue per la Banca. Così che quando si presenta qui mio nipote,
subito si trova la sua identità perché c’era tutto il sangue,
paterno e materno”.
“Lo stesso giorno, ci
incontrammo per conoscerci, a casa di mia figlia. Io andai per
abbracciarlo forte – e lui disse, 'piano – piano. facciamo le
cose un po’ per volta'. E davvero sto vivendo un sogno. Perché io
non sapevo che cosa avrei trovato. Chi lo aveva allevato, come lo
avevano trattato, se era stato abusato, se lo avevano inquadrato per
farlo diventare uguale agli assassini. Invece trovai un ragazzo puro.
E’ cresciuto in campagna, con una famiglia di contadini che magari
non ha tutte le sottigliezze della cultura ma lo hanno cresciuto
bene. Non credo che questa coppia di gente semplice, contadini, siano
colpevoli, hanno agito in buona fede, in campagna si può credere che
davvero una famiglia dia via un figlio che non può allevare. So che
è un crimine contro l’umanità, perché era un piano preciso della
dittatura; ma spero che non abbiano conseguenze troppo gravi. Non si
capisce come è andato a finire con loro, è tutta una catena,
l’ultimo che glielo ha consegnato è un latifondista, il padrone
della terra che adesso è morto. Glielo ha consegnato e gli ha detto:
non ditegli mai che non siete i suoi veri genitori.
“Guido è ancora in
contatto con loro. Nessuno impedisce ai nipoti di farlo; solo col
tempo, un po’ per volta,si allontanano. Però, dice, 'c’era
qualcosa in me, come un suono, che mi diceva: sono differente da
loro. Mi piaceva la musica, e anche se ho studiato e mi sono
diplomato, direttore di cantiere, che è un mestiere dove si guadagna
bene, però volevo studiare musica'. Lo disse alla famiglia, loro gli
dissero di no, ma lui ha insistito e adesso dirige una scuola di
musica, ha una band – è un ragazzo buono, sano puro.
Sentiva da sempre un’inclinazione verso i diritti umani, e ha
partecipato anche a un nostro progetto, Musica per l’identità.
Fra i musicisti c’erano alcuni dei nipoti ritrovati, e parlò con
loro. Quando si decise a venire diceva ironicamente, perché è un
ragazzo allegro, gli piace scherzare, diceva alla sua compagna: se
esce che davvero sono figlio di desaparecidos voglio che mia
nonna sia come minimo Estela perché è il massimo. Dice che aveva
visto foto mie e che gli pareva che mi somigliava”.
“Ma non è solo una
cosa familiare. L’impatto sociale di questa notizia è stato
condiviso a tutti livelli sociali. Mi ha scritto il papa, i
presidenti di tutta l’America latina, l’Unesco. L’autobus 114
invece del numero girava col nome di Guido, perché lui è il nipote
ritrovato numero 114. C’erano cartelli nelle strade, dai
fruttivendoli. Tutti hanno reagito con gioia. Perché? Perché se ci
possiamo unire nella gioia di questo incontro che è la liberazione
di una persona e il sogno realizzato di un’altra che ha lottato
tanto, c’è qualcosa che possiamo festeggiare in comune, qualcosa
che ci appartiene a tutti.
“Ne avevamo bisogno?
Credo di sì. Questo paese ne aveva bisogno, in questo momento, con
il problema del debito e dei fondi avvoltoio, con le parole vuote
della politica, con queste guerre in tutto il mondo – che poi è
quello che predichiamo noi Abuelas: unità. Se tutti siamo
abitanti di questo pianeta Terra, non possiamo essere nemici. Saremo
diversi ma non nemici; e cerchiamo quello che abbiamo in comune.
Bisogna dare un senso a questa gioia collettiva. Mi arrivano fiori da
tutto il mondo, dalla Svizzera, dal Belgio; dall’Italia mi ha
telefonato il sindaco di Arzignano,il paese da cui sono emigrati i
miei, mi hanno telefonato dalla Fondazione Basso, anche politici,
Massimo D’Alema...”.
“Dobbiamo condividere
questo momento di amore collettivo. E già eravamo uniti nella
ricerca. Alla campagna per invitare chi ha dubbi sulla sua identità
a venire da noi hanno partecipato perfino i giocatori della nazionale
di calcio. Perché parliamo di gente che adesso ha 35 anni, e fin
dall’inizio abbiamo cominciato a domandarci che cosa potevamo fare
per ciascuna età dei nostri nipoti. Abbiamo sempre lanciato messaggi
adeguati all’età che potevano avere. Nell’adolescenza cercammo
di raggiungerli attraverso il teatro perché sapevamo che c’erano
ragazzi che facevano teatro; poi abbiamo fatto Musica per
l’identità, Tango per l’identità… E siamo andate
alle partite di calcio, coi cartelli. E poi è successa questa cosa
di Messi. E Messi con molto piacere [insieme con Lavezzi, Mascherano,
Aguero] è andato in televisione con il cartello delle Abuelas che
invita i ragazzi a venire da noi. Adesso farà qualcosa anche
Maradona. Si sono saturati i telefoni. Ci sono arrivati undici
milioni di messaggi – come dire che almeno un quarto della
popolazione argentina ci ha cercato. Adesso abbiamo un’affluenza
incredibile di ragazzi che vengono; a quelli che hanno l’età
giusta facciamo il test. Sanno che qui li aspetta rispetto, ascolto e
– se sono nipoti di desaparecidos – la liberazione.
“il manifesto”, 14
agosto 2014
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