28.9.14

Follia docente. Uno studio sulla psicopatologia degli insegnanti (1990)

Esistono “malattie professionali degli insegnanti” di carattere psichico e nervoso? Su questo aspetto delicato e inquietante del "mal di scuola" lavorò nel 1990 ProForma, associazione di studio e ricerca sui problemi della formazione, ricavandone un opuscolo intitolato Follia docente, pubblicato con la collaborazione di Scuola notizie di cui era supplemento (N. 8-9, ott.-nov. 1990).
La domanda era: “Cosa distingue alienazione, estraneità, sviluppo di meccanismi di difesa di tipo nevrotico nel lavoro insegnante dalla psicopatologia quotidiana di altri lavori?”. E poi, provocatoriamente: "la follia è una dimensione che può caratterizzare, in casi seppure estremi, questa professione? C'è forse qualcosa di specifico nell'insegnare, nel mettersi continuamente in gioco non solo professionalmente, ma anche emotivamente, che rendono la follia quasi una malattia professionale?".
Walter Maraschini riassunse in “sette tesi sulla follia docente” le coordinate di una prima ricognizione del problema. L'ipotesi principale è che i casi estremi di comportamento evidentemente disturbato (molto più numerosi nei resoconti degli studenti di quanto appaiano nei fuggevoli rapporti tra colleghi) erano la punta visibile di un iceberg patogeno che è la vita quotidiana nella scuola, acceleratore e detonatore di equilibri individuali fragili e instabili. Le riprendo qui ricordando che sono il risultato sintetico del materiale raccolto nel fascicolo, tra cui gli estratti, non incredibili, di agghiaccianti resoconti sui loro professori fatti da studenti delle scuole medie superiori.
Cesare Pianciola, che commentò il fascicolo su “Rossoscuola”, (anno XIII n.2, marzo 1991) vi appose due marginali appunti di lettura, condivisibili: primo, la necessità di disaggregare la questione in relazione ai diversi livelli di scuola giacché le tesi tendono a generalizzare a tutto il corpo insegnante disagi e devianze sperimentati soprattutto nella scuola secondaria superiore; secondo, l'allargamento eccessivo del concetto di "follia docente" fa correre il rischio di sussumere sotto il temine disagi riferibili a molte condizioni di lavoro.
Il tempo trascorso da quello studio ci fa aggiungere qualche considerazione. Non è più vero che il quadro normativo della scuola non cambia: negli ultimi 15 anni è cambiato più volte. Sono da troppo tempo lontano da quel mondo e disattento ad esso per arrischiare un giudizio compiuto e argomentato, ma l'impressione è che il mutamento che è intervenuto sia superficiale e non in meglio. Quanto all'esigenza di un controllo sociale sulla qualità dell'istruzione, mi pare che essa sia cresciuta, ma che dai governi succedutisi si siano date risposte sbagliate, orientate a prove di memoria o a un controllo burocratico, o basate sul tempo impegnato a scuola, tutte tali da accentuare le patologie psichiche degli insegnanti. (S.L.L.)

SETTE TESI SULLA FOLLIA DOCENTE

1. - Il lavoro di insegnante è un lavoro di relazione, ma si svolge in condizioni di isolamento adulto.
L'insegnante è in aula con gli studenti, ma è solo con se stesso, la sua adultità, la sua responsabilità (...). Le forme di lavoro collettivo sono prevalentemente a contenuto burocratico e formale più che di reale collaborazione e progettazione: nelle riunioni non si formulano piani o strategie di intervento, né si valutano seriamente progetti; non si stendono relazioni, ma si redigono verbali, non si analizzano le situazioni ma si vota sui voti. L'isolamento del lavoro, la mancanza del confronto reale trascinano via via l'insegnante a confondersi con quelle dinamiche sociali con le quali prevalentemente opera come lavoratore — e che sono le dinamiche delle classi in cui insegna. Il rischio è allora che egli stesso, da operatore che conosce e governa tali dinamiche le introietti via via, assumendo comportamenti "infantili" sia nella relazione didattica (capricciosità, diffidenza estrema nei confronti degli alunni, talvolta spirito di vendetta) sia nelle situazioni in cui non si trova dalla parte della cattedra (passività e subalternità in occasione di seminari di aggiornamento, mitizzazione dell'esperto e dell'universitario, comportamenti turbolenti e ai limiti della demenzialità nei collegi docenti).

2. - C'è uno squilibrio tra il potere formale di cui è investita l'autorità insegnante ed il potere effettivo sia nella scuola che nella società.
L'insegnante ha un elevato potere formale sul singolo che si manifesta in sede di scrutini e di esami. Questa autorità delegata e pressoché insindacabile (se non per manifesti vizi di forma) spesso non corrisponde ad una autorità reale nei confronti della classe (la cui indisciplina può risultare ingovernabile) né sicuramente è supportata da una qualche forma di prestigio sociale o da una positiva immagine di ciò che l'insegnante sa, dell'importanza della cultura di cui dovrebbe essere portatore. Si crea cosi una situazione di profonda e pericolosa asimmetria tra ruolo ed autorità sociali (sentiti dalla collettività come "bassi") e potere formale sull'individuo (relativamente alto). Come per un poliziotto al quale sia permesso impunemente di sparare al primo sospetto ladruncolo, l'arma del voto può diventare un pericoloso strumento di ricatto e il mondo dell'aula (o dello scrutinio) può diventare il microcosmo in cui si compensa la debolezza sociale con atteggiamenti autoritari ed assolutistici.

3. - Il lavoro docente è costituito da una inseparabile miscela di componenti affettive ed intellettuali.
La componente affettiva gioca un peso molto importante nella relazione didattica; vi può essere voglia di compiacere sia da parte dell'insegnante che degli studenti; emergono richieste di affetto o di comprensione; uno studente talvolta studia per adesione alla figura del docente, come talaltra uno studente non studia per desiderio di trasgressione. Ogni insegnante, dopo pochi anni di esperienza, sa quanto la componente affettiva condizioni l'applicazione allo studio, la qualità e la velocità dell'apprendimento. Ma egli, avendo spesso iniziato la sua carriera con l'idea di svolgere un lavoro a prevalente contenuto culturale e tecnico-specifico, si trova cosi a sostenere ruoli e svolgere compiti educativi, affettivi o psicologici per i quali non ha alcuna preparazione specifica oppure nessuna voglia di esplicarli. Trovandosi ad assumere ruoli materni, paterni o amicali, oltre che a rivestire funzioni docenti, trovandosi a dovere elargire premi e punizioni, dovendo così spesso giudicare oltre che insegnare, si rinchiude via via in standard repressivi o lassisti, ingessandosi dentro regole sempre più rigide che impoveriscono la sua iniziale, anche se ingenua, ricchezza di comportamenti. Si acquisiscono così a poco a poco abitudini (anche ridicole e ridicolizzate dagli studenti) che nulla hanno a che fare con la normativa scolastica (i 2 per indisciplina, le 'i' per le impreparazioni, le battute ad effetto per risvegliare l'attenzione, ...) e che tendono a diventare maniacali rivestimenti di una incapacità, una difficoltà o una stanchezza nel gestire umanamente la relazione umana con i ragazzi.

4. - Gli studenti cambiano, gli insegnanti invecchiano.
Le contraddizioni esaminate nei primi tre punti (...) si acuiscono con l'avanzare dell'anzianità. Il motivo è un elemento materiale molto semplice: con gli anni aumenta la differenza d'età tra l'insegnante ed i suoi alunni. Gli insegnanti infatti, come tutti gli esseri umani, invecchiano, ma gli studenti non crescono se non in quel breve arco di tempo che li si ha sotto controllo. Di anno in anno gli studenti cambiano, vanno via i vecchi, ne compaiono di nuovi: magicamente conservano sempre la stessa età.
La tendenza alla fossilizzazione delle energie o dei comportamenti si unisce ad una sempre maggiore distanza generazionale che in una società come questa (con ritmi cosi rapidi di cambiamento sia nei costumi, sia nelle mode culturali, sia nelle risorse tecniche) può determinare forme acute di incomprensione o senso di arretratezza. Ancora peggio, questa contraddizione, in una società così prepotentemente orientata all'esaltazione del consumo giovanile, può provocare odio, malinconia o invidia.

5. - La macchina della scuola si ripete ogni anno uguale a se stessa.
E inesorabilmente ossessiva la ripetitività del ciclo dell'anno scolastico, che ogni volta ripete i suoi riti, i suoi tempi e i suio problemi. Pochi sono i lavori – come quello del docente – il cui si continuano a svolgere per anni le stesse mansioni in un quadro normativo e legislativo che sostanzialmente non cambia da decenni, in una atmosfera di pigro e progressivo abbassamento della qualità. La ripetitività del lavoro, con le sue prevedibili fasi cadenzate nell'anno, unite alla mancanza di variabili (che non siano gli studenti stessi) nell'organizzazione scolastica, determina una curiosa e contraddittoria tendenza. Da una parte vi è un miglioramento delle capacità di custodia e governo dell'indisciplina (si imparano i 'trucchi del mestiere'), dall'altra si avverte una diminuzione della vivezza intellettuale e delle capacità di ascolto: quando non 'scoppia', l'insegnante spesso s'appiattisce su standard bassi, sufficienti a contenere una classe o a sostenere colloqui con i genitori sempre uguali a se stessi. La variabilità e la complessità dei problemi rimangono sotto la superficie dei riti ripetitivi e via via se ne perde traccia: il risultato finale può essere un vuoto profondo che lascia il soggetto in balia del nulla togliendosi quella rete di salvataggio psichica che può essere costituita da un lavoro nel merito soddisfacente.

6. - Non esiste alcuna forma di controllo sociale sul contenuto o sulla qualità dell'istruzione.
La situazione descritta nel precedente punto è accentuata da questa particolare situazione della scuola pubblica italiana, che pare non importi come funzioni, purché in qualche modo funzioni.
L'insegnante può ridursi a notaio delle assenze e custode delle classi e non vi è praticamente alcun controllo di qualità rispetto al quale misurarsi, confrontarsi, dibattere e quindi crescere.
re di intervento sulle grandi scelte.
Se questa situazione può dare un senso di libertà (ma permette pure l'esistenza di zone di manifesta evasione di minimi ed imprescindibili doveri istruttivi), accentua contemporaneamente il senso d'inutilità ed aumenta pertanto le insinuanti frustrazioni di cui gli studenti sentono gli insegnanti malati.

7. - La microdemocrazia burocratica disperde le energie positive.
Le forme di partecipazione 'democratica' che sono state attivate nella scuola a partire dai decreti delegati del 1975 accentuano il senso di impotenza e frustrazione perché sono limitate ad aspetti minuti e talora irrilevanti, a problemi gestionali di ordinaria amministrazione, senza che invece, tramite esse, si eserciti un reale potere di intervento sulle grandi scelte.
E proprio chi sentiva più fortemente esigenze di impegno sociale o culturale nella scuola si sente via via impelagato in problemi che riguardano i livelli più bassi dell'efficienza più che le scelte politiche culturali, ideali o materiali di più vasto respiro (...).
Walter Maraschini (da Follia docente, pp. 6-9)


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