Un Asor Rosa d'altri tempi in
splendida forma, non il “barone delle lettere” né lo storico
delle ingegnose formule definitive, ma il critico che saggia, chiama
in aiuto i testi, documenta e verifica, ci appresta buone chiavi per
rileggere Calvino: la vertigine e la moralità in primo luogo. Una
bella, rara pagina di critica militante. (S.L.L.)
Italo Calvino è stato
uno scrittore ricco, longevo, molto mutevole, ma anche molto fedele a
se stesso. Niente di strano, quindi, che ne siano state date, prima e
dopo la morte, definizioni diverse, e anche molto contrastanti, in
cui era spesso presente un aspetto singolo di verità, accanto ad
approssimazioni ed arbitrii.
Del resto, più di
trent'anni or sono, Elio Vittorini, presentando nel risvolto di
copertina Il Visconte dimezzato (n. 9 della leggendaria
collana dei "Gettoni"), denunciava la difficoltà
d'incasellare il giovanissimo "scoiattolo" con queste
parole: "Calvino ha interessi che lo portano in più direzioni:
la sintesi delle quali può prender forma (senza che cambi né di
merito né di significato) sia in un senso di realismo a carica
fiabesca sia in un senso di fiaba a carica realistica". E' ovvio
che sul primo versante Vittorini avrebbe messo Il sentiero dei
nidi di ragno e i racconti di Ultimo viene il corvo e di
L'entrata in guerra (quest'ultimo destinato ad apparire di lì
a poco), mentre sull'altro lo stesso Visconte, e poi gli altri
due romanzi della trilogia degli antenati.
L'alternativa, indicata
da Vittorini con quell'efficacissima formula, avrebbe poi
accompagnato Calvino fino alle ultime opere. E che l'intreccio tra
razionalismo e fantasia costituisca un tratto distintivo permanente
della sua personalità, mi pare fuori discussione. L'amore per
Ariosto ne è una controprova: anche se, proprio pensando ad Ariosto,
sorge il dubbio che la formula vittoriniana sia tanto felice quanto
sostanzialmente limitativa. Ma su questo tornerò più avanti. Quello
che invece mi ha colpito come un pericolo in molte delle più recenti
rievocazioni è la riduzione di Calvino all'immagine di uno scrittore
brillante ed elegante, colto e tecnicamente agguerrito, capace,
appunto, in virtù delle sue alte doti "professionali", di
passare con disinvoltura perfino eccessiva da un registro all'altro
della sua ispirazione.
Io Calvino non lo
ricordavo così. Sono andato a rileggermi alcune delle sue cose più
lontane e alcune di quelle più vicine, e alcuni dei suoi bellissimi
saggi. Ed ho riscoperto ancora una volta, ma con più forza, una
sensazione che avevo scoperto per la prima volta tanti anni fa,
recensendolo in un suo racconto intitolato La speculazione
edilizia, e non avevo mai dimenticato, ritrovandola anche nelle
sue cose più leggere e vaganti (Le città invisibili, ad
esempio): la percezione, dietro l'eleganza raffinata della scrittura,
dell'esistenza come di un nocciolo duro, di un elemento di resistenza
conficcato nella parte più segreta e profonda della sua natura, non
facile da sciogliere né da comunicare, anzi, a dir la verità,
talvolta anche parecchio scostante. Che cosa fosse questo nocciolo
duro, ho faticato a lungo a capirlo, anche se almeno una volta,
leggendo La giornata di uno scrutatore, credo d'essermi
avvicinato alla sua comprensione. Oggi non avrei più dubbi al
proposito: senza voler togliere nulla alla legittimità delle
interpretazioni realistico-fiabesche o fiabesco-realistiche, mi sono
persuaso che questo nocciolo duro, questo elemento irriducibile di
resistenza, è la natura morale dell'ispirazione calviniana, e che in
essa, forse, consiste il vero fattore di continuità, la coerenza
complessiva della sua ricerca (da Il sentiero dei nidi di ragno,
sì, fino a Palomar), il macigno sotterraneo da cui spiccava
il volo la sua fantasia o si dipanava il filo sottile del suo
ragionamento. Voglio proporre, insomma, di leggere Italo Calvino come
scrittore morale. Intendiamoci: per scrittore morale non intendo
affatto quello che suggerisce valori o addita obiettivi; lo scrittore
morale non si pone il problema di dire qual è il bene e qual è il
male. Chi fa questo è un moralista (in senso riduttivo) o, peggio,
un propagandista. Per me lo scrittore morale è quello che si limita
a suggerire dei comportamenti e ad additare una linea di condotta:
ma, al tempo stesso, affianca alla natura apparentemente limitata del
"messaggio" l'inflessibile persuasione che non si può
rinunciare alle regole di comportamento né a perseguire con fedeltà
e tenacia una linea di condotta, pena l'inabissamento nel magma
dell'indistinto e dell'arbitrario. Ricordiamoci che il suo più
lontano scritto teorico (risaliamo addirittura al 1955) s'intitola, -
e il titolo è già un programma, - Il midollo del leone. C' è
da stupirsi, oggi, che le parole di questo saggio non siano risuonate
allora così alte come meritavano. Ricordate? "In ogni poesia
vera esiste un midollo di leone, un nutrimento per una morale
rigorosa, per una padronanza della storia". Erano parole che
Calvino dedicava alla memoria di Giaime Pintor. Ma ben calviniane,
fino al punto da risultare quasi una dichiarazione di poetica, erano
le formule, che egli, riconoscendovi l'eredità migliore di Pintor,
indicava implicitamente al tempo stesso come sue proprie: "Il
rigore di linguaggio, il rifiuto d'ogni compiacenza romantica, il
senso della realtà scontata e difficile, la non adesione alle
apparenze più vistose, l'avara presenza del bello e del bene, questo
è il midollo di leone che Pintor traduttore di Rilke, lettore di
Montale, morse dalla civiltà letteraria che l'aveva preceduto,
questa è la lezione di uno stile che trasferì nell'azione,
nell'intelligenza storica". Rigore di linguaggio, rifiuto di
ogni compiacenza romantica, senso della realtà scontata e difficile,
non adesione alle apparenze più vistose, avara presenza del bene e
del male: quale critico non si sentirebbe onorato di aver trovato per
l'arte, anzi, di più, per la personalità di Calvino, definizioni
appropriate e calzanti come queste, che il giovane scrittore,
nell'additarle operanti all'interno d'un personaggio-simbolo come
Pintor, rammentava a se stesso quasi provvisorio bilancio dell'opera
già compiuta e impegnativo programma per quella futura? E chi
sarebbe in grado di distinguere, all'interno d'ognuna di esse, la
componente puramente letteraria dalla professione di fede morale? La
letteratura è già, in questo caso, la scelta di una linea di
condotta: l'eleganza scaturisce dall'etica, non ne rappresenta la
contraddizione. Intrecci di questa natura sono talmente profondi da
segnare le radici stesse di una personalità: sono lo "stile di
vita", che s'incarna in uno "stile di scrittura".
Potremmo dire che ci sono prima ancora che lo scrittore in quanto
tale sia venuto alla luce e si sia riconosciuto. Però, è vero anche
che possono esserci momenti in cui tali radici vengono più
chiaramente allo scoperto e un determinato particolare matura,
divenendo riflessione. Ora, io credo che la moralità, e la sua
necessità, nascano sempre, non da una situazione di stasi, ma da un
conflitto, da una resa di conti, da una stretta storica. Il
ragionamento su Calvino diventa anche un pezzo della sua storia.
Bisogna risalire molto indietro nel tempo. Sono gli anni fra il 1955
e il 1965. Anni molto importanti: vedono la conclusione, e l'
esaurimento insieme, di quanto aveva animato il decennio precedente:
il neorealismo e la prospettiva palingenetico-resistenziale. Tutti i
giovani scrittori - diciamo, in particolare, quelli fra i migliori
della generazione degli anni Venti, - fanno i conti con questa
situazione. Pasolini, che sembra ed è così lontano da Calvino, ha a
che fare con gli stessi problemi. Ma Calvino ha uno scontro con
quella che possiamo chiamare la "crisi della prospettiva"
molto più traumatico di quanto non appaia a prima vista. Se si
rileggono le sue cose di allora si capisce, per esempio, che egli ha
una precisa percezione del fatto che si sta creando una situazione
del tutto nuova, e che questa percezione è drammatica. Nella
risposta ad un' inchiesta sul romanzo della rivista Ulisse
(autunno-inverno 1956-1957), Calvino spiega che lui avrebbe voluto
sì, scrivere romanzi di tipo tradizionale, ma che, per l'appunto,
non glie n'è venuto di farne neanche uno. E prosegue: "C'è
Thomas Mann, s'obietta; e sì, lui capì tutto o quasi del nostro
mondo, ma sporgendosi da un'estrema ringhiera dell'Ottocento. Noi
guardiamo il mondo precipitando nella tromba delle scale". E'
dunque la narrativa stessa, l'idea stessa di racconto, che vengono
messi in discussione da questa "vertiginosa situazione". E'
la letteratura stessa, che s' affaccia smarrita su di un vuoto, che
non sa più come riempire. Da questa vertiginosa situazione si può
tentare d'uscire in modi diversi: per esempio, accettando di avvitare
il proprio sguardo al corpo che precipita nella tromba delle scale;
oppure scegliendo la strada (checché se ne dica) del mimetismo
naturalistico-espressionistico alla Pasolini. La mia idea è che da
allora - non, dunque, come i più sostengono, da anni recenti - dura
la lotta di Calvino per costringere dentro la misura di uno stile
rigoroso ed essenziale una situazione avvertita come di vertiginosa
caduta: per "mettere un ordine" dentro un cosmo in sé
frantumato, produttivo di affascinanti e mortifere suggestioni. La
ricerca letteraria procede in lui, a lungo, strettamente affiancata a
questa esigenza di rigore morale, che consiste nel resistere alla
tentazione della scomparsa o dell' annegamento dell'io. Di fronte
alla crisi - crisi epocale, di cui oggi vediamo soltanto le ultime
conseguenze - come è accaduto in altre situazioni consimili, anche
in un passato remoto, Calvino accentua l'aspetto riduzionistico e al
tempo stesso rigoristico della sua scelta morale: il rifiuto, per
così dire, delle passioni e il primato della ragione discendono da
questa scelta. E' fin troppo facile parlare di stoicismo, ma non se
ne può fare a meno. Nel 1960 all'interno, significativamente, del
saggio intitolato Il mare dell'oggettività, Calvino polemizza
con l'amico Citati, il quale aveva dichiarato la "fine dello
stoicismo", per essere venuti meno "i demoni romantici, i
gorghi irrazionali contro cui quella tradizione aveva preso forza".
Invece, obietta Calvino: "Rieccoci, Pietro Citati, sulla riva di
un gorgo, tale da mettere a prova scafi ben più saldi dei nostri; un
gorgo privo stavolta d' aloni tragici o demoniaci ma più difficile
da attraversare che una distesa di sabbie mobili". E allora,
ecco riemergere le istanze di fondo, a cui una tradizione culturale
"stoica" poteva legittimamente ricollegarsi: "un
ideale stilistico e morale di ostinazione volontaria, di riduzione
all' essenziale, di rigore autocostruttivo". Anche qui, quale
invidiabile precisione terminologica in queste definizioni, che, per
voler essere generali, non smettono d' essere l'autoritratto vivente
della sua prosa! La giornata d'uno scrutatore, il romanzo (o
racconto lungo) del 1963, può piacere o non piacere a confronto di
opere maggiori dello stesso Calvino, ma andrebbe sicuramente
giudicato come un momento essenziale della sua evoluzione. E non
tanto perché il protagonista mostra d'aver appreso ormai fino in
fondo la lezione stoica del suo autore ("Amerigo, lui, aveva
imparato che in politica i cambiamenti avvengono per vie lunghe e
complicate, e non c'è da aspettarseli da un giorno all'altro, come
per un giro di fortuna; anche per lui, come per tanti, farsi
un'esperienza aveva voluto dire diventare un poco pessimista. D'altro
canto, c'era sempre la morale che bisogna continuare a fare quanto si
può, giorno per giorno; nella politica come in tutto il resto della
vita, per chi non è un balordo, contano quei due principi lì: non
farsi mai troppe illusioni e non smettere di credere che ogni cosa
che fai potrà servire"). Quanto perchè in quest'opera Calvino,
immerso nel recinto del Cottolengo, si scontra per la prima volta e,
direi, irrimediabilmente con quel limite insormontabile di ogni
ragione e di ogni operare umani, che è la natura, o, meglio, il
mistero biologico, che sta alla base della nostra esistenza. Quando
lo scrittore arriva a percepire questo confine, questo limite dell'
umano operare, il suo pessimismo - per riprendere una distinzione
famosa - da storico si fa esistenziale, il suo sorriso molto, molto
più amaro che in passato. Mi limito ad osservare che tra La
giornata di uno scrutatore e Palomar corre una linea retta
(trovo incredibile che la critica unanime - a meno che vi siano
eccezioni che non conosco - abbia salutato in Palomar la
nascita del personaggio autobiografico calviniano, quando nella
Giornata e nella Speculazione edilizia
l'identificazione fra autore e protagonista era già così
clamorosamente avvenuta). Ogni morale stoica ha un che di gretto e di
chiuso, a cui neanche Calvino è sfuggito. Il rifiuto delle passioni,
il rigore delle scelte possono diventare avarizia dei sentimenti,
tentazione del non concedersi, una troppo facile liquidazione di
tutto ciò che non rientra nello schema aristocratico in termini di
affetti, movimenti e rivolgimenti. Questa è la parte secca del
nocciolo duro. Ma, dentro la ricerca letteraria (non fuori di essa,
voglio dire, ma proprio dentro le sue strutture costitutive, e
perfino dentro il suo stile), l' "ostinazione volontaria",
la "riduzione all' essenziale", il "rigore
autocostruttivo", il sentimento virile "dell'attrito con il
mondo" producono la morale più perfettamente laica che la
cultura letteraria italiana contemporanea abbia mai prodotto, e cioè
più coerentemente antideologica e antireligiosa che si potesse
immaginare in un paese come questo. A me piace pensare, sulla base di
questa constatazione, che la coppia di opposti: "favoloso
realismo" e "realistica favola", siano veramente una
cosa sola: la duplice rifrazione di uno stesso sguardo, quando,
posandosi su di un universo rigorosamente umano, lo vede cangiante
come un arcobaleno ma anche, al tempo stesso, solido ed incrollabile
come una pietra. Da questo punto di vista Palomar è la coerente
conclusione di un percorso. E' vero che, a rileggerlo oggi, vi si
coglie un impressionante presentimento di morte. Ma questo senso del
limite della natura (e persino della ragione) umana è proprio di
ogni grande, autentica esperienza laica. Quello che importa non è l'
inevitabile - e umano - trasalimento di fronte al grande mistero che
avanza, alla linea d' ombra che tutto tende ad abbracciare. Quello
che conta è l'ostinato rigore della ricerca, perseguito fino alla
fine. Ancora una volta sullo sgomento dell'individuo e sulla sua
tentazione di annullamento, ha prevalso il dovere dello sguardo e
dell'ordine: ricercatore curioso e paziente, fino all'ultimo.
“la Repubblica”, 1
dicembre 1985
Una bella pagina di analisi letteraria.
RispondiEliminaComplimenti per la scelta