Francesco Crispi |
"Noi edificheremo la
Società nuova... Io veggo la Sicilia quale fra non molti anni potrà
essere: io la veggo ai fianchi e per lo mezzo rigata dalle vie di
ferro... e fra gli aranceti, gli oliveti e i vigneti, da tutte le
alture e da tutte le valli, veggo le nuove strade dei comuni e delle
province a discendere e salire su quelle, siccome rivi... E le città
e le terre fin sui corsi dei monti si rifanno tutte e si abbellano
mettendosi quasi un nuovo abito. Acquedotti, ospedali, opifici,
scuole, teatri, piazze e fontane, camposanti e ville, e signorili
palagi, bellissimo di tutti quello del Comune; sino alla casa del
popolano soleggiata, ariosa, eretta ed allegra".
Così profetizzava il
futuro dell'isola Luigi Mercantini, autore dell'Inno di Garibaldi,
parlando a Palermo nel giugno 1871 all'inaugurazione della stazione
ferroviaria al molo. L'enfasi poetica aveva certamente preso la mano
all'oratore.
Ma, tolti gli svolazzi di
rito, sulla sostanza del discorso erano allora in molti a credere. A
dieci anni dall'unità di Italia, si respirava in tutta l'isola un
clima di grande fervore e animazione. Nell'ambito della società
meridionale, divenuta più forte e compatta di quanto non fosse al
tempo dei Borboni, la borghesia non solo era riuscita a superare lo
smarrimento e la paura che l'avevano paralizzata all'indomani della
rivoluzione garibaldina, ma cominciava anche a trarre beneficio dalla
vendita dei beni ecclesiastici e demaniali, nonché dalla costruzione
di porti e ferrovie. E la classe dirigente siciliana costituiva una
sezione forte dei ceti emergenti del Sud.
Il liberismo economico
aveva spalancato ai proprietari terrieri le porte del mercato
nazionale; sui produttori di zolfo - minerale d'importanza strategica
per il saldo dei nostri conti con l'estero - stava piovendo una
autentica pioggia d'oro; fra la borghesia commerciale e imprenditrice
era diffusa la speranza che lo sviluppo dei traffici col Levante,
(propiziato dall'apertura dell' istmo di Suez), avrebbe apportato
vantaggi non secondari anche all' economia locale. Non è perciò
sorprendente che nell'isola si coltivassero arditi progetti di
sviluppo e che si giungesse ad avanzare la candidatura delle
deputazioni meridionali alla direzione della vita pubblica nazionale:
tanto più in presenza di un uomo come Francesco Crispi, l' astro
maggiore della Sinistra.
In effetti, il voto
siciliano (come, in parte, quello di altre regioni del Sud) alle
elezioni del novembre 1874, che ridusse i margini di stabilità della
maggioranza parlamentare, suonò come una campana a morto per la
Destra e fu all'origine, due anni dopo, della caduta dei moderati.
L'avvento della Sinistra al potere non venne quindi considerato in
Sicilia soltanto come una rivincita nei confronti di precedenti
governi che - per giustificare la repressione dei tumulti contro le
tasse e i provvedimenti eccezionali di pubblica sicurezza enunciati
nel 1874 da Minghetti - avevano evocato, a proposito dell'isola,
l'immagine desolata e allarmante dell'Irlanda, mostrando così di
volerla mortificare ed umiliare.
La "rivoluzione
parlamentare" del marzo 1876 venne vissuta dai siciliani anche
come l'inizio di una nuova fase politica, in cui il Mezzogiorno
avrebbe posto le basi di un rapporto diverso col resto d'Italia e
rimosso le sue secolari condizioni di inferiorità e di arretratezza.
Nasceva così la
"questione meridionale". Proprio dalla Sicilia, del resto,
era scaturita - con l'inchiesta parlamentare del 1875 e le indagini
di Franchetti e Sonnino - la prima scintilla del dibattito che da
quel momento avrebbe opposto, sullo sfondo del divario fra il Sud e
il Centronord del paese, quanti invocavano per il riscatto del
Mezzogiorno una politica riformatrice e di intervento pubblico e
quanti invece ritenevano che, per sanare le piaghe e i mali locali (a
cominciare dal brigantaggio e dalla delinquenza), bastassero il
rigore delle leggi e le misure di polizia; meglio se applicate col
ferro e col fuoco.
La prospettiva di fare
della Sicilia un avamposto della causa meridionalista e insieme un
centro propulsivo di iniziativa politica nazionale, durò per quasi
un ventennio. Ma alla fine fu affossata proprio da colui che per
primo le aveva dato voce, rendendosene il più autorevole interprete.
Fu infatti Crispi (in coincidenza con l'opera di rafforzamento delle
istituzioni statali di cui fu uno dei principali protagonisti) ad
assecondare quasi tutte le iniziative che promossero sino agli inizi
degli anni Novanta una crescita eccezionale della società e
dell'economia siciliane (basti pensare alla ventata di prosperità
cui concorsero sia lo sviluppo dell'agricoltura, sia la nascita di un
grande impero finanziario e industriale come quello dei Florio). Ma
fu poi lo stesso statista agrigentino (come pure successivamente un
altro suo conterraneo, il palermitano marchese Di Rudinì) a
interrompere bruscamente questa parabola ascendente e a ricacciare
così la Sicilia, sul finire del secolo, nell'isolamento e nelle
acque stagnanti della reazione, con le repressioni antipopolari e le
leggi liberticide, con la "guerra doganale" con la Francia
e con la non meno disastrosa avventura coloniale in Abissinia.
Alla lunga, i contadini
non si mostrarono più disposti a pagare, sottomettendosi ai peggiori
soprusi, i costi che la politica crispina aveva finito coll'
addossare loro per assicurarsi l' appoggio della grande proprietà
meridionale alla costruzione di una stabile unità nazionale; nè
videro nella "terra promessa" in Africa un' adeguata
valvola di sfogo alla loro miseria endemica. Nello stesso tempo le
regioni più avanzate del Nord - auspice Giolitti - fecero capire che
non avrebbero barattato la guida del paese con la garanzia di un
ordine malfermo imposto dall' alto e una manciata di commesse
statali. Da allora, come osserva Francesco Renda nel suo secondo
volume della Storia della Sicilia, che va dal 1870 al 1943 (Sellerio,
pagg. 456, lire 40.000), il divario nel rapporto tra lo sviluppo
della Sicilia e quello nazionale si sarebbe aggravato anzichè
ridotto. L' afflusso nel primo decennio del Novecento di valuta
pregiata, frutto dei sudati risparmi di tanti lavoratori emigrati
oltre Oceano, contribuì ad ampliare nell'isola l'area della piccola
proprietà coltivatrice, ma non bastò a rilanciare l' economia
siciliana.
Su un altro versante la
Sicilia fu teatro in quegli anni di grandi lotte del movimento
contadino, socialista e cattolico; ma quando queste lotte (così come
l'avanzata dei partiti di massa determinata dal suffragio universale
maschile) parvero sul punto di spezzare il predominio della classe
baronale, sopraggiunse il fascismo. A proposito del quale il libro di
Renda fornisce, come del resto per il periodo precedente, alcune
interpretazioni di particolare vigore ed equilibrio critico. Assai
istruttive - non foss'altro per capire le matrici di quel complesso
intreccio di interessi privati, complicità politiche e violenza
organizzata che si trova in questi giorni al centro dell'attenzione
col processo di Palermo - sono le pagine dedicate dallo storico
siciliano alle vicende della mafia nel ventennio fascista. La lotta
all'"onorata società", intrapresa da Mussolini nel 1925,
fu innanzitutto un'operazione politica di stabilizzazione del regime
in Sicilia. Da un lato, si voleva tagliar corto alle beghe interne al
movimento fascista locale ed eliminare qualsiasi forma d' appoggio
che potesse venire agli ultimi residui della vecchia destra moderata
da alcuni "pezzi da novanta"; dall'altro lato, si mirava ad
ottenere il plauso della "gente perbene" che non si
occupava di politica ma voleva solo la restaurazione dell'ordine.
Fatto sta che, pur con
qualche eccezione, il regime fascista mostrò col tempo di adoperare
il guanto di velluto nei riguardi dei proprietari e dei notabili in
odore di mafia, e il pugno di ferro nei confronti dei contadini
sospettati del medesimo reato. Col risultato che, sotto il pretesto
di combattere la mafia, fu posto il bando ad ogni principio legale e
si diede luogo spesso ad una spietata caccia alle streghe, o meglio
all'instaurazione di un regime permanente di polizia tanto assoluto
quanto arbitrario, che finì per colpire assai più in basso che in
alto, senza per questo metter fine realmente alla spirale della
criminalità comune. I "pesci grossi", sfuggiti alla rete o
riusciti a riparare in America, costituirono un sistema mafioso di
opposizione clandestina al fascismo, pronti a rialzare la testa alla
prima occasione favorevole: tanto che, caduto il regime, la mafia,
rinsanguata da molteplici collegamenti internazionali, risorse più
forte e pericolosa di prima.
Al fascismo bastò
insomma l'estromissione della mafia dal controllo delle istituzioni
locali, per pensare di averla debellata una volta per tutte. Alla
stessa logica, tipica di un regime totalitario, obbedì
l'allontanamento della proprietà terriera dalla gestione del potere
politico, che parve dovesse annientare le basi dell'economia
latifondistica. Anche in questo caso non mancarono novità e segnali
positivi: la regolamentazione collettiva dei rapporti di lavoro non
lasciò più in balia della legge della domanda e dell'offerta
(sempre favorevole ai ceti possidenti) la determinazione dei salari
bracciantili. E delle misure di assistenza e previdenza sociale,
appannaggio in passato dell'aristocrazia operaia sindacalizzata del
Nord, vennero ad usufruire anche le masse contadine. Ma l'indirizzo
autarchico favorì, con l'espansione della produzione cerealicola,
gli interessi dei grandi proprietari; e "l'assalto al latifondo"
lanciato in extremis, nel gennaio 1940, se non fu un gesto di
amicizia del regime verso i maggiori possidenti, non intendeva
tuttavia rappresentare l' inizio di un'autentica riforma agraria che,
insieme all'appoderamento, contemplasse anche l'espropriazione delle
terre incolte.
A questa operazione,
orchestrata in modo tale che sortisse i massimi effetti demagogici,
il duce volle accoppiare un'altra iniziativa capace di suscitare
uguali risonanze e aspettative fra i siciliani: un'adunanza oceanica
degli uomini di cultura che, sotto la regia di Bottai e di Giovanni
Gentile, celebrasse i "grandi nomi dell'isola", in spirito
di continuità con i fasti dell'antica Trinacria e in funzione del
nuovo ruolo che il fascismo intendeva assegnare alla Sicilia: quello
di "centro geografico" del "secondo Impero" di
Roma, verso cui convogliare con maggior intensità le "energie
dello Stato". Da Crispi a Mussolini, accantonate le esigenze di
modernizzazione e di elevamento civile, il cerchio si chiudeva così,
ancora una volta, con il miraggio di un "grande destino
mediterraneo" sorretto dalle armi e alimentato dai rubinetti
della spesa pubblica.
La Repubblica, 14
febbraio 1986
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