Una recensione del 91 per
ricordare un'opera del Tasso con molti meriti. A mo' di giunta io
propongo a chi legge un confronto sistematico tra il citato Coro
dei pastori del dramma tassiano
con il coro del IV atto nel Pastor fido
del Guarini, di qualche decennio più tardo, che può definirsi
tecnicamente una parodia per la ripresa allusiva di stilemi, rime e
immagini, ma ne è un radicale rovesciamento per la moralistica
rivalutazione dell'“onore”, in opposizione al libero amore
esaltato dal Tasso. (S.L.L.)
Nei classici della Bur
(introd. Mario Fubini, note di Bruno Maier, con venti incisioni fuori
testo di Novelli, Rizzoli, 1991) viene riproposto l'Aminta, il
dramma pastorale composto da Torquato Tasso nel 1573 (due anni prima
di concludere la Gerusalemme Liberata) e rappresentato nel
luglio dello stesso anno per la corte estense di Ferrara
nell'isoletta di Belvedere sul Po, vero e proprio giardino delle
delizie con tanto di palazzo, alberi, siepi, animali di ogni specie,
che il papa Clemente VIII pensò bene di distruggere quando il ducato
passò nelle mani della Chiesa.
Nella musicalità
vigilata di endecasillabi e settenari si svolge la vicenda del
pastore Aminta e della ninfa Silvia, la quale disdegna le offerte
d'amore del timido pastorello. La coppia di giovani è assistita da
due «esperti» d'amore, Tirsi (sotto le cui spoglie si nasconde
Torquato Tasso) e Dafne che incoraggiano e rimproverano
rispettivamente Aminta e Silvia.
Alla falsa notizia della
morte di Silvia, Aminta decide a sua volta di uccidersi. Riuscirà
però fortunosamente a salvarsi e i due amanti si ritroveranno a
conclusione del dramma - ma non sulla scena - finalmente uniti.
Questo, in estrema
sintesi, il riassunto dell'opera, una «favola boschereccia» in
cinque atti che testimonia la vitalità di un genere letterario
antichissimo che Tasso riempie di continue allusioni al mondo della
corte ferrarese: ricordiamo solo la polemica allusione all'ortodossia
aristotelica del letterato Sperone Speroni (il gretto Mopso) che fu
tra i critici più severi della Gerusalemme e al quale Tasso
fa pronunciare parole di fuoco contro la corte («astuti e scaltri
cittadini», «cortigiani malvagi», «magazzino delle ciancie») in
contrasto con l'apologia del poeta del duca Alfonso e degli Estansi:
«I' vidi / celesti dee, ninfe leggiadre e belle, /[....] / ed in
quel punto / sentii me far di me stesso maggiore, / pien di nova
virtù, pieno di nova / deitade, e cantai guerre ed eroi, / sdegnando
pastoral ruvido carme».
Non è la prima volta
nella tradizione letteraria che la finzione pastorale nasconde
allusioni ed eventi storici e biografici. Ma come ha notato uno
studioso americano, Douglas Radcliff-Umstead, in un saggio apparso
vent'anni orsono in Studi Tassiani: «L'originalità del Tasso
sta, parzialmente, nell'aver egli evitato quella che doveva divenire
convenzionalmente opposizione tra la rustica semplicità del mondo
pastorale e la raffinatezza cortigiana [...]. Invece di stabilire un
contrasto fra le ingiustizie della struttura sociale autoritaria
della corte e la superiore autorità d'amore nel mondo naturale,
l'Aminta tende a rafforzare l'effettivo ordinamento della
società ed a celebrare i valori di una corte che fornisce modelli
d'ineguagliata eccellenza [...]. Tirsi, come poeta, si muove tanto
nel regno pastorale che in quello di corte, ed afferma che emulando
l'eleganza e la perfezione del suo magnifico protettore ha acquisito
nuova eloquenza per cantar le lodi della sua silvana terra natìa. Un
delicato equilibrio regna tra la libertà della campagna e le
formalità della vita di corte».
Contrappunto continuo
all'esile trama dell'opera sono le dispute sull'amore, l'esaltazione
del Coro dei pastori dell'età dell'oro quando Amore poteva
dispiegarsi senza i tabù dell'Onore. l'Amore maestro di se stesso,
l'invito ad amare senza pensare alla morte «Amiam. che non ha tregua
con gli anni umana vita, e si dilegua. Amiam, che l'sol si muore e
poi rinasce: / a noi sua breve luce / s'asconde, e '1 sonno eterna
notte adduce».
Senza considerare l'eros
chiave dominante del dramma - come ricorda Mario Fubini
nell'introduzione («la sensualità [...] è soltanto una voce fra le
altre voci della favola») - non bisogna tuttavia neanche limitare
eccessivamente l'edonismo, seppure tormentato, di chi esalta la
primitiva «legge aurea e felice / che natura scolpi»: «S'ei piace,
ei lice». «Ogni cosa che piace è lecita» non è un neutro modello
della tradizione ma uno dei capisaldi dell'etica rinascimentale che
l'offensiva controriformista prenderà di mira quale emblema di
pericolosa sovversione morale.
Il tema dell'amore,
d'altronde, è ancora più accentuato nella Gerusalemme Liberata.
Qui Torquato Tasso ispessisce i modelli letterari del passato (la
diafana Laura di Petrarca diviene la sensuale Armida) e ci da dei
versi di straordinaria tensione erotica, come nelle ottave 31 e 32
del canto quarto, quando egli descrive le seduzioni della maga
musulmana Armida nel campo cristiano: «Mostra il bel petto e le sue
nevi ignude, / onde il foco d'Amor si nutre e desta. / Parte appar de
le mamme acerbe e crude, / parte altrui ne ricopre invida vesta: /
invidia, ma s'a gli occhi il varco chiude, / l'amoroso pensier già
non arresta, / che non ben pago di bellezza esterna / ne gli occulti
secreti anco s'interna.» (31).«Come per acqua o per cristallo
interno / trapassa il raggio, e no '1 divide o parte, / per entro il
chiuso manto osa il pensiero / sì penetrar ne la vietata parte. /
Ivi si spazia, ivi contempla il vero / di tante meraviglie a parte a
parte; / poscia al desio le narra e le descrive, / e ne fa le sue
fiamme in lui più vive.» (32).
E' curioso notare che due
studiosi, Getto in un'edizione integrale (La Scuola) e Pazzaglia in
un diffusissimo testo scolastico (Zanichelli), sentano il bisogno -
dopo quattrocento anni - di eliminare questi versi dai loro volumi.
Non ci sogneremo, oggi, nell'età dell'«amore-supermercato», di
attribuire all'eros un'eccessiva carica sovvertitrice; anche se esso
mantiene forti margini di incompatibilità con i modi della
produzione odierna e, nel caso delle ottave censurate, una certa
cultura lo ritiene ancora nocivo per delle giovani menti.
“la talpa libri del
giovedì – il manifesto”, ritaglio senza data, ma 1991
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