14.9.14

L'Aminta del Tasso. Trame d'amore in versi (Donatello Santarone)

Una recensione del 91 per ricordare un'opera del Tasso con molti meriti. A mo' di giunta io propongo a chi legge un confronto sistematico tra il citato Coro dei pastori del dramma tassiano con il coro del IV atto nel Pastor fido del Guarini, di qualche decennio più tardo, che può definirsi tecnicamente una parodia per la ripresa allusiva di stilemi, rime e immagini, ma ne è un radicale rovesciamento per la moralistica rivalutazione dell'“onore”, in opposizione al libero amore esaltato dal Tasso. (S.L.L.)

Nei classici della Bur (introd. Mario Fubini, note di Bruno Maier, con venti incisioni fuori testo di Novelli, Rizzoli, 1991) viene riproposto l'Aminta, il dramma pastorale composto da Torquato Tasso nel 1573 (due anni prima di concludere la Gerusalemme Liberata) e rappresentato nel luglio dello stesso anno per la corte estense di Ferrara nell'isoletta di Belvedere sul Po, vero e proprio giardino delle delizie con tanto di palazzo, alberi, siepi, animali di ogni specie, che il papa Clemente VIII pensò bene di distruggere quando il ducato passò nelle mani della Chiesa.
Nella musicalità vigilata di endecasillabi e settenari si svolge la vicenda del pastore Aminta e della ninfa Silvia, la quale disdegna le offerte d'amore del timido pastorello. La coppia di giovani è assistita da due «esperti» d'amore, Tirsi (sotto le cui spoglie si nasconde Torquato Tasso) e Dafne che incoraggiano e rimproverano rispettivamente Aminta e Silvia.
Alla falsa notizia della morte di Silvia, Aminta decide a sua volta di uccidersi. Riuscirà però fortunosamente a salvarsi e i due amanti si ritroveranno a conclusione del dramma - ma non sulla scena - finalmente uniti.
Questo, in estrema sintesi, il riassunto dell'opera, una «favola boschereccia» in cinque atti che testimonia la vitalità di un genere letterario antichissimo che Tasso riempie di continue allusioni al mondo della corte ferrarese: ricordiamo solo la polemica allusione all'ortodossia aristotelica del letterato Sperone Speroni (il gretto Mopso) che fu tra i critici più severi della Gerusalemme e al quale Tasso fa pronunciare parole di fuoco contro la corte («astuti e scaltri cittadini», «cortigiani malvagi», «magazzino delle ciancie») in contrasto con l'apologia del poeta del duca Alfonso e degli Estansi: «I' vidi / celesti dee, ninfe leggiadre e belle, /[....] / ed in quel punto / sentii me far di me stesso maggiore, / pien di nova virtù, pieno di nova / deitade, e cantai guerre ed eroi, / sdegnando pastoral ruvido carme».
Non è la prima volta nella tradizione letteraria che la finzione pastorale nasconde allusioni ed eventi storici e biografici. Ma come ha notato uno studioso americano, Douglas Radcliff-Umstead, in un saggio apparso vent'anni orsono in Studi Tassiani: «L'originalità del Tasso sta, parzialmente, nell'aver egli evitato quella che doveva divenire convenzionalmente opposizione tra la rustica semplicità del mondo pastorale e la raffinatezza cortigiana [...]. Invece di stabilire un contrasto fra le ingiustizie della struttura sociale autoritaria della corte e la superiore autorità d'amore nel mondo naturale, l'Aminta tende a rafforzare l'effettivo ordinamento della società ed a celebrare i valori di una corte che fornisce modelli d'ineguagliata eccellenza [...]. Tirsi, come poeta, si muove tanto nel regno pastorale che in quello di corte, ed afferma che emulando l'eleganza e la perfezione del suo magnifico protettore ha acquisito nuova eloquenza per cantar le lodi della sua silvana terra natìa. Un delicato equilibrio regna tra la libertà della campagna e le formalità della vita di corte».
Contrappunto continuo all'esile trama dell'opera sono le dispute sull'amore, l'esaltazione del Coro dei pastori dell'età dell'oro quando Amore poteva dispiegarsi senza i tabù dell'Onore. l'Amore maestro di se stesso, l'invito ad amare senza pensare alla morte «Amiam. che non ha tregua con gli anni umana vita, e si dilegua. Amiam, che l'sol si muore e poi rinasce: / a noi sua breve luce / s'asconde, e '1 sonno eterna notte adduce».
Senza considerare l'eros chiave dominante del dramma - come ricorda Mario Fubini nell'introduzione («la sensualità [...] è soltanto una voce fra le altre voci della favola») - non bisogna tuttavia neanche limitare eccessivamente l'edonismo, seppure tormentato, di chi esalta la primitiva «legge aurea e felice / che natura scolpi»: «S'ei piace, ei lice». «Ogni cosa che piace è lecita» non è un neutro modello della tradizione ma uno dei capisaldi dell'etica rinascimentale che l'offensiva controriformista prenderà di mira quale emblema di pericolosa sovversione morale.
Il tema dell'amore, d'altronde, è ancora più accentuato nella Gerusalemme Liberata. Qui Torquato Tasso ispessisce i modelli letterari del passato (la diafana Laura di Petrarca diviene la sensuale Armida) e ci da dei versi di straordinaria tensione erotica, come nelle ottave 31 e 32 del canto quarto, quando egli descrive le seduzioni della maga musulmana Armida nel campo cristiano: «Mostra il bel petto e le sue nevi ignude, / onde il foco d'Amor si nutre e desta. / Parte appar de le mamme acerbe e crude, / parte altrui ne ricopre invida vesta: / invidia, ma s'a gli occhi il varco chiude, / l'amoroso pensier già non arresta, / che non ben pago di bellezza esterna / ne gli occulti secreti anco s'interna.» (31).«Come per acqua o per cristallo interno / trapassa il raggio, e no '1 divide o parte, / per entro il chiuso manto osa il pensiero / sì penetrar ne la vietata parte. / Ivi si spazia, ivi contempla il vero / di tante meraviglie a parte a parte; / poscia al desio le narra e le descrive, / e ne fa le sue fiamme in lui più vive.» (32).
E' curioso notare che due studiosi, Getto in un'edizione integrale (La Scuola) e Pazzaglia in un diffusissimo testo scolastico (Zanichelli), sentano il bisogno - dopo quattrocento anni - di eliminare questi versi dai loro volumi. Non ci sogneremo, oggi, nell'età dell'«amore-supermercato», di attribuire all'eros un'eccessiva carica sovvertitrice; anche se esso mantiene forti margini di incompatibilità con i modi della produzione odierna e, nel caso delle ottave censurate, una certa cultura lo ritiene ancora nocivo per delle giovani menti.


“la talpa libri del giovedì – il manifesto”, ritaglio senza data, ma 1991

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