L'articolo eccede forse in semplificazioni e trovate giornalistiche (immagino che,
divenuto nel frattempo un accademico, oggi l'autore si imporrebbe qualche
freno); e tuttavia il racconto della “fortuna” di Ovidio e
delle sue ragioni mi pare abbastanza convincente. (S.L.L.)
Pittura morale a Pompei. L'amore di Polifemo e Galatea |
Si può fare un film da
una poesia? Una poesia, anzi un poema, senza personaggi, tenero,
sornione, allusivo, elegante: un libretto che si legge tutto d'un
fiato e si rilegge la sera, prima di dormire, per scoprire i segreti
dell'anima. Tutti diranno: un film è impossibile. E invece ben due
registi sostengono il contrario: il primo è Tinto Brass, il secondo
è Valerian Borowicz. Il poema è l'Arte di amare di Ovidio.
Ha cominciato Tinto Brass: insieme a un giovane poeta, Antonio
Veneziani, ha avuto l'idea audace di tradurre in immagini la lirica
ovidiana. Poi è spuntato Borowicz, che, indipendentemente, ha
scritto una sceneggiatura. Tinto Brass ha desistito e Borowicz è
andato avanti, riuscendo a combinare il film.
A dire la verità, simili
iniziative non dovrebbero suscitare molta sorpresa: è un po' di
tempo ormai che intellettuali e grande pubblico si sono ricordati di
Ovidio, grazie anche al fatto che moltissime case editrici tornano a
pubblicare le sue opere. Si tratta di un aspetto del rinnovato
interesse del pubblico per gli autori classici dell'antichità o di
qualcosa di più?
Diciamo subito che
l'opera ovidiana per secoli è stata soggetta a periodiche
denigrazioni, seguite da improvvisi processi di rivalutazione. Tanto
per non andare troppo indietro nel tempo, basterà ricordare che
per tutto l'Ottocento Ovidio è stato oggetto di una costante caccia
alle streghe. Probabilmente, a ciò non erano estranei gli
imperativi della morale vittoriana che facevano sì che nel poeta si
vedesse un corruttore dei costumi. Poi, nel primo ventennio del
nostro secolo, la critica di latinisti celebri come Lafaye,
Castiglioni, Heinze e Marchesi è tornata a «dare ad Ovidio ciò che
era di Ovidio».
Cosa precisamente? Ce lo
dice Scevola Mariotti nel saggio introduttivo all'Arte di amare
pubblicato nella Biblioteca Universale Rizzoli: si è trattato di un
riconoscimento critico dell'originalità del poeta di Sulmona. Le
precedenti accuse a Ovidio vertevano, infatti, sul piano letterario
e, quali che ne fossero i motivi moralistici ispiratori, sulla
mancanza di un suo autentico e originale mondo poetico. In altre
parole, Ovidio sarebbe stato solo un virtuoso della parola, un
decadente di tendenze alessandrine, che avrebbe trasferito in «bello
scrivere» il mondo poetico della mitologia e della lirica greche.
A supporto di queste tesi
non solo si portavano i contenuti di opere come Le Metamorfosi
(stralunato e geniale poema sulle trasformazioni degli eroi del mito)
o le Eroidi (lettere d'amore inventate di eroine
dell'antichità), ma addirittura si chiamava in causa come testimone
Ovidio stesso, che aveva scritto di amare il «cultus» e di odiare
la «rusticitas». Di qui a liquidare il poeta come uno dei tanti
membri della scuola «retorica» della sua epoca, di cui facevano
parte Arellio Fusco e Porcio Latrone, il passo era breve.
In cosa consiste, invece,
la rivalutazione dell'opera ovidiana voluta dalla critica moderna?
Essenzialmente, nella considerazione che nel poeta di Sulmona il
gusto della trasgressione è tale da farne un caso unico. Italo
Calvino lo ha addirittura paragonato ai grandi scrittori fantastici
moderni, avvicinandolo a Borges e Cortàzar. Dunque, un Ovidio della
stessa pasta dei narratori sudamericani? Un «arrabbiato», un
modello per autori di spettacoli eccessivi, sfrenati, nemici della
morale tradizionale, proprio come Tinto Brass e Valerian Borowicz?
La prima cosa da
chiedersi è: chi era davvero Ovidio? Nacque a Sulmona, in provincia,
ma vicino alla capitale, nel 43 a.C., l'anno in cui Augusto e Marco
Antonio fecero pace tra loro e si spartirono la Repubblica romana.
Mentre Ovidio, giovane, studiava legge a Roma, provinciale pieno di
sogni, Antonio il conquistatore fu conquistato dalla bella e
attempata Cleopatra: si montò la testa e fece guerra al suo alleato,
sperando di diventare il padrone di Roma. Invece fu sconfitto ad Azio
(31 a.C.) ed Augusto divenne il capo incontrastato dei romani. Si
proclamò, con modestia, «imperatore»: cioè, alla lettera, capo
delle forze armate. La Repubblica era salva, ma in sostanza Augusto
aveva fatto il «golpe». Infatti, a poco a poco, la vita politica
attiva sparì: nel 19, quando Ovidio aveva 24 anni, Augusto da
semplice caudillo divenne «console a vita», cioè presidente a vita
della morente Repubblica. Da allora «imperator» significo sovrano
assoluto.
Che rappresentava tutto
questo per il giovane avvocaticchio abruzzese, che in segreto
coltivava, tra una causa e l'altra, il «vizio assurdo» della
poesia? Più o meno ciò che per Stendhal fu la Restaurazione e per
Baudelaire l'età di Napoleone III: lo «stile impero», pomposo e
retorico come sempre accade in queste occasioni, non riusciva a
mascherare i conflitti e l'esuberanza di una società spregiudicata
che calpestava a ogni momento i sacri valori della tradizione.
Augusto, da buon dittatore, predicava patria e famiglia: ma la patria
era stato lui il primo a ridurla in schiavitù, e quanto alla
famiglia era il primo a dare il cattivo esempio, sposandosi a
ripetizione, con matrimoni che erano brutali compravendite a scopo
politico, senza amore né rispetto per le malcapitate spose.
E c'era di più. I romani
avevano assaggiato il piacere dei peccati orientali. Non era un caso
che il rude, se non rozzo, Marcantonio fosse caduto come una pera
cotta ai piedi della tarda, ma scaltra Cleopatra: davanti alle
matrone latine, tutte patria e famiglia, balenava l'immagine di
questa egiziana dagli occhi di fuoco che si presenta al primo
appuntamento nuda, su una nave piena di bellissime ragazze nude,
sfolgorante di gemme e broccati. Tutte le donne di Roma sognarono di
apparire così ai loro uomini; e tutti gli uomini credettero di
trovare al loro ritorno a casa le figlie dei Faraoni. L'Urbe divenne
lo sfondo di una marcia trionfale degna dell'Aida. L'impero si
affermava affermando la sua negazione.
E Ovidio? Fu il vate di
questa società percorsa da fremiti inespressi. Dame, ragazzine,
giovanotti, anziani e tardone erano affascinati dalla meravigliosa
eloquenza meridionale di questo conterraneo di D'Annunzio, un «dandy»
disinibito e scettico che aveva gettato alle ortiche la toga del
giurista, e aveva cinto l'alloro scrivendo fiumi di versi: gli Amori,
elegie su amanti grandi e piccoli; le Eroidi, epistole
inventate di eroine a eroi; l'Arte di amare, enciclopedia
della galanteria, della sensualità, del desiderio.
Quest'ultima opera (un
successo senza pari nel mondo antico!) ebbe l'unico difetto di essere
pubblicata lo stesso anno del più grande scandalo mai accaduto a
Roma: Giulia, la figlia di Augusto, scoperta in flagrante adulterio
dal marito, il futuro imperatore Tiberio, prediletto fra tutti
dall'ormai anziano capo di Stato, venne esiliata a Ventotene per
immoralità. Augusto, che tentava disperatamente di salvare la
faccia, compromessa dai suoi indegni parenti, certamente malediceva
in cuor suo la filosofia libertina e disinvolta propagandata dal
giovane e brillante poeta di Sulmona.
E così quando Giulia
iunior, figlia di Giulia, decise «talis mater, talis filia» di
seguire le orme della genitrice buttandosi a capofitto in orge di
gruppo e follie erotiche, la pazienza del settantunenne imperatore
toccò l'estremo limite. Inferocito, Augusto esiliò Giulietta alle
Tremiti e si scatenò contro tutti i gaudenti di Roma, condannandoli
a pene durissime.
Il primo a pagare,
naturalmente, fu il povero Ovidio: da un giorno all'altro fu
obbligato a partire a piedi per la Romania, ai confini dell'Impero, a
Tomi, attuale Costanza, cittaduzza gelida sul Mar Nero, frequentata
da spietati guerrieri Geti e puzzolenti pescatori. I suoi libri
furono sequestrati in tutte le biblioteche e il suo nome fu coperto
d'infamia: l'intellettuale brillante, dalla battuta pronta e
l'avventura galante facile, fu rovinato per sempre.
Ai confini del mondo
civile, per ammazzare la noia imparò la lingua dei barbari e provò
a usarla in poesia senza successo; compose maldestre adulazioni di
Augusto che con ogni probabilità irritarono ancora di più il
vecchio tiranno; scrisse versi struggenti, dolorosi, i primi
veramente amari e umani, raccogliendo cinque libri di liriche, i
Tristia; poi, dopo otto anni di esilio, si spense, povero e
solo, e fu sepolto in terra straniera, nonostante le sue disposizioni
per poter tornare a Roma almeno dopo morto.
Eppure, nonostante la
censura, la storia era andata avanti: Ovidio, martire dell'Eros, era
il primo e aveva pagato; ma dopo di lui vennero moltissimi altri, una
impetuosa marea che travolse negli scandali e nella degradazione
l'Impero pomposo e ipocrita, che da allora fu retto sempre più
spesso da sovrani pazzi e sanguinari come Caligola e Nerone, e da
donne come Messalina, di fronte a cui i peccatucci delle due Giulie
erano roba da novizie.
La Roma descritta da
Petronio, la Roma imperiale, è la capitale del vizio, della
lussuria, della corruzione, della follia: insomma, la Roma di sempre,
sensuale, levantina, impura, sfrenata, «felliniana». Ovidio, che
aveva solo avuto il torto di anticipare ciò che sarebbe divenuta ben
presto la morale corrente, fu l'autore più letlo e apprezzato
dell'antichità: e anche dopo, nel Medioevo cupo e fosco, anche
nell'età del misticismo e della repressione cristiana, ogni volta
che si cercava luce in materia di sesso veniva fuori il nome di
Ovidio, magari con la scusa (per lungo tempo ufficiale e indiscussa)
che insegnava a evitare il male ritraendolo nei minimi dettagli.
La poesia ovidiana,
dunque, è sempre stata un simbolo di trasgressione? Certo. E non è
strano che anche oggi vi sia chi ritorna a essa, chi pensa di farne
una bandiera per nuove battaglie contro l'ipocrisia dei tutori
dell'ordine: in un'età com'è quella che attraversiamo, Ovidio ha
ancora un certo richiamo. Viene da chiedersi, però, che cosa mai
possa insegnare di nuovo un poeta colto e snob, per cui l'amore non è
che un gioco elegante e scintillante. L'uomo moderno, traumatizzato
dall'angoscia e dalla precarietà dei rapporti di coppia, può
ritrovarsi nella candida amoralità di un pagano capace di amare
senza innamorarsi, di godere senza soffrire, di prendere senza dare?
“L'Europeo”, 13
dicembre 1982
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