14.9.14

Ovidio e l'amore senza problemi (Fabio Troncarelli)

L'articolo eccede forse in semplificazioni e trovate giornalistiche (immagino che, divenuto nel frattempo un accademico, oggi l'autore si imporrebbe qualche freno); e tuttavia il racconto della “fortuna” di Ovidio e delle sue ragioni mi pare abbastanza convincente. (S.L.L.)
Pittura morale a Pompei. L'amore di Polifemo e Galatea
Si può fare un film da una poesia? Una poesia, anzi un poema, senza personaggi, tenero, sornione, allusivo, elegante: un libretto che si legge tutto d'un fiato e si rilegge la sera, prima di dormire, per scoprire i segreti dell'anima. Tutti diranno: un film è impossibile. E invece ben due registi sostengono il contrario: il primo è Tinto Brass, il secondo è Valerian Borowicz. Il poema è l'Arte di amare di Ovidio. Ha cominciato Tinto Brass: insieme a un giovane poeta, Antonio Veneziani, ha avuto l'idea audace di tradurre in immagini la lirica ovidiana. Poi è spuntato Borowicz, che, indipendentemente, ha scritto una sceneggiatura. Tinto Brass ha desistito e Borowicz è andato avanti, riuscendo a combinare il film.
A dire la verità, simili iniziative non dovrebbero suscitare molta sorpresa: è un po' di tempo ormai che intellettuali e grande pubblico si sono ricordati di Ovidio, grazie anche al fatto che moltissime case editrici tornano a pubblicare le sue opere. Si tratta di un aspetto del rinnovato interesse del pubblico per gli autori classici dell'antichità o di qualcosa di più?
Diciamo subito che l'opera ovidiana per secoli è stata soggetta a periodiche denigrazioni, seguite da improvvisi processi di rivalutazione. Tanto per non andare troppo indietro nel tempo, basterà ricordare che per tutto l'Ottocento Ovidio è stato oggetto di una costante caccia alle streghe. Probabilmente, a ciò non erano estranei gli imperativi della morale vittoriana che facevano sì che nel poeta si vedesse un corruttore dei costumi. Poi, nel primo ventennio del nostro secolo, la critica di latinisti celebri come Lafaye, Castiglioni, Heinze e Marchesi è tornata a «dare ad Ovidio ciò che era di Ovidio».
Cosa precisamente? Ce lo dice Scevola Mariotti nel saggio introduttivo all'Arte di amare pubblicato nella Biblioteca Universale Rizzoli: si è trattato di un riconoscimento critico dell'originalità del poeta di Sulmona. Le precedenti accuse a Ovidio vertevano, infatti, sul piano letterario e, quali che ne fossero i motivi moralistici ispiratori, sulla mancanza di un suo autentico e originale mondo poetico. In altre parole, Ovidio sarebbe stato solo un virtuoso della parola, un decadente di tendenze alessandrine, che avrebbe trasferito in «bello scrivere» il mondo poetico della mitologia e della lirica greche.
A supporto di queste tesi non solo si portavano i contenuti di opere come Le Metamorfosi (stralunato e geniale poema sulle trasformazioni degli eroi del mito) o le Eroidi (lettere d'amore inventate di eroine dell'antichità), ma addirittura si chiamava in causa come testimone Ovidio stesso, che aveva scritto di amare il «cultus» e di odiare la «rusticitas». Di qui a liquidare il poeta come uno dei tanti membri della scuola «retorica» della sua epoca, di cui facevano parte Arellio Fusco e Porcio Latrone, il passo era breve.
In cosa consiste, invece, la rivalutazione dell'opera ovidiana voluta dalla critica moderna? Essenzialmente, nella considerazione che nel poeta di Sulmona il gusto della trasgressione è tale da farne un caso unico. Italo Calvino lo ha addirittura paragonato ai grandi scrittori fantastici moderni, avvicinandolo a Borges e Cortàzar. Dunque, un Ovidio della stessa pasta dei narratori sudamericani? Un «arrabbiato», un modello per autori di spettacoli eccessivi, sfrenati, nemici della morale tradizionale, proprio come Tinto Brass e Valerian Borowicz?
La prima cosa da chiedersi è: chi era davvero Ovidio? Nacque a Sulmona, in provincia, ma vicino alla capitale, nel 43 a.C., l'anno in cui Augusto e Marco Antonio fecero pace tra loro e si spartirono la Repubblica romana. Mentre Ovidio, giovane, studiava legge a Roma, provinciale pieno di sogni, Antonio il conquistatore fu conquistato dalla bella e attempata Cleopatra: si montò la testa e fece guerra al suo alleato, sperando di diventare il padrone di Roma. Invece fu sconfitto ad Azio (31 a.C.) ed Augusto divenne il capo incontrastato dei romani. Si proclamò, con modestia, «imperatore»: cioè, alla lettera, capo delle forze armate. La Repubblica era salva, ma in sostanza Augusto aveva fatto il «golpe». Infatti, a poco a poco, la vita politica attiva sparì: nel 19, quando Ovidio aveva 24 anni, Augusto da semplice caudillo divenne «console a vita», cioè presidente a vita della morente Repubblica. Da allora «imperator» significo sovrano assoluto.
Che rappresentava tutto questo per il giovane avvocaticchio abruzzese, che in segreto coltivava, tra una causa e l'altra, il «vizio assurdo» della poesia? Più o meno ciò che per Stendhal fu la Restaurazione e per Baudelaire l'età di Napoleone III: lo «stile impero», pomposo e retorico come sempre accade in queste occasioni, non riusciva a mascherare i conflitti e l'esuberanza di una società spregiudicata che calpestava a ogni momento i sacri valori della tradizione. Augusto, da buon dittatore, predicava patria e famiglia: ma la patria era stato lui il primo a ridurla in schiavitù, e quanto alla famiglia era il primo a dare il cattivo esempio, sposandosi a ripetizione, con matrimoni che erano brutali compravendite a scopo politico, senza amore né rispetto per le malcapitate spose.
E c'era di più. I romani avevano assaggiato il piacere dei peccati orientali. Non era un caso che il rude, se non rozzo, Marcantonio fosse caduto come una pera cotta ai piedi della tarda, ma scaltra Cleopatra: davanti alle matrone latine, tutte patria e famiglia, balenava l'immagine di questa egiziana dagli occhi di fuoco che si presenta al primo appuntamento nuda, su una nave piena di bellissime ragazze nude, sfolgorante di gemme e broccati. Tutte le donne di Roma sognarono di apparire così ai loro uomini; e tutti gli uomini credettero di trovare al loro ritorno a casa le figlie dei Faraoni. L'Urbe divenne lo sfondo di una marcia trionfale degna dell'Aida. L'impero si affermava affermando la sua negazione.
E Ovidio? Fu il vate di questa società percorsa da fremiti inespressi. Dame, ragazzine, giovanotti, anziani e tardone erano affascinati dalla meravigliosa eloquenza meridionale di questo conterraneo di D'Annunzio, un «dandy» disinibito e scettico che aveva gettato alle ortiche la toga del giurista, e aveva cinto l'alloro scrivendo fiumi di versi: gli Amori, elegie su amanti grandi e piccoli; le Eroidi, epistole inventate di eroine a eroi; l'Arte di amare, enciclopedia della galanteria, della sensualità, del desiderio.
Quest'ultima opera (un successo senza pari nel mondo antico!) ebbe l'unico difetto di essere pubblicata lo stesso anno del più grande scandalo mai accaduto a Roma: Giulia, la figlia di Augusto, scoperta in flagrante adulterio dal marito, il futuro imperatore Tiberio, prediletto fra tutti dall'ormai anziano capo di Stato, venne esiliata a Ventotene per immoralità. Augusto, che tentava disperatamente di salvare la faccia, compromessa dai suoi indegni parenti, certamente malediceva in cuor suo la filosofia libertina e disinvolta propagandata dal giovane e brillante poeta di Sulmona.
E così quando Giulia iunior, figlia di Giulia, decise «talis mater, talis filia» di seguire le orme della genitrice buttandosi a capofitto in orge di gruppo e follie erotiche, la pazienza del settantunenne imperatore toccò l'estremo limite. Inferocito, Augusto esiliò Giulietta alle Tremiti e si scatenò contro tutti i gaudenti di Roma, condannandoli a pene durissime.
Il primo a pagare, naturalmente, fu il povero Ovidio: da un giorno all'altro fu obbligato a partire a piedi per la Romania, ai confini dell'Impero, a Tomi, attuale Costanza, cittaduzza gelida sul Mar Nero, frequentata da spietati guerrieri Geti e puzzolenti pescatori. I suoi libri furono sequestrati in tutte le biblioteche e il suo nome fu coperto d'infamia: l'intellettuale brillante, dalla battuta pronta e l'avventura galante facile, fu rovinato per sempre.
Ai confini del mondo civile, per ammazzare la noia imparò la lingua dei barbari e provò a usarla in poesia senza successo; compose maldestre adulazioni di Augusto che con ogni probabilità irritarono ancora di più il vecchio tiranno; scrisse versi struggenti, dolorosi, i primi veramente amari e umani, raccogliendo cinque libri di liriche, i Tristia; poi, dopo otto anni di esilio, si spense, povero e solo, e fu sepolto in terra straniera, nonostante le sue disposizioni per poter tornare a Roma almeno dopo morto.
Eppure, nonostante la censura, la storia era andata avanti: Ovidio, martire dell'Eros, era il primo e aveva pagato; ma dopo di lui vennero moltissimi altri, una impetuosa marea che travolse negli scandali e nella degradazione l'Impero pomposo e ipocrita, che da allora fu retto sempre più spesso da sovrani pazzi e sanguinari come Caligola e Nerone, e da donne come Messalina, di fronte a cui i peccatucci delle due Giulie erano roba da novizie.
La Roma descritta da Petronio, la Roma imperiale, è la capitale del vizio, della lussuria, della corruzione, della follia: insomma, la Roma di sempre, sensuale, levantina, impura, sfrenata, «felliniana». Ovidio, che aveva solo avuto il torto di anticipare ciò che sarebbe divenuta ben presto la morale corrente, fu l'autore più letlo e apprezzato dell'antichità: e anche dopo, nel Medioevo cupo e fosco, anche nell'età del misticismo e della repressione cristiana, ogni volta che si cercava luce in materia di sesso veniva fuori il nome di Ovidio, magari con la scusa (per lungo tempo ufficiale e indiscussa) che insegnava a evitare il male ritraendolo nei minimi dettagli.
La poesia ovidiana, dunque, è sempre stata un simbolo di trasgressione? Certo. E non è strano che anche oggi vi sia chi ritorna a essa, chi pensa di farne una bandiera per nuove battaglie contro l'ipocrisia dei tutori dell'ordine: in un'età com'è quella che attraversiamo, Ovidio ha ancora un certo richiamo. Viene da chiedersi, però, che cosa mai possa insegnare di nuovo un poeta colto e snob, per cui l'amore non è che un gioco elegante e scintillante. L'uomo moderno, traumatizzato dall'angoscia e dalla precarietà dei rapporti di coppia, può ritrovarsi nella candida amoralità di un pagano capace di amare senza innamorarsi, di godere senza soffrire, di prendere senza dare?


“L'Europeo”, 13 dicembre 1982

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