22.9.14

Poesie contro la dispersione. Amici vicini e lontani. (S.L.L.)

Walter Cremonte
In una delle (poche) poesie programmatiche di Walter Cremonte, (Contro la dispersione, poi divenuta titolo di una preziosa “autoantologia”) uno dei suoi (non pochi) versi memorabili così recita: “Intensità va con semplicità”. Funzionerebbe egregiamente come epigrafe di tutta la sua opera poetica, da cui è bandita l'enfasi, sebbene essa sia tutt'altro che facile e monocorde e tocchi temi ostici, esistenziali e civili, non di rado ponendo interrogativi radicali, e nonostante il fatto che Cremonte si confronti – a modo suo, quasi scusandosi - con la complessità del linguaggio e con la forza esemplare dei classici. La semplicità che va cercando, del resto, è “difficile a farsi” come il comunismo di Brecht, che egli colloca tra i massimi maestri, facendo propria la contraddizione di una poesia che vorrebbe e dovrebbe essere “gentile” ed è costretta, invece, a scontrarsi con la durezza dei tempi e dei rapporti sociali: “Che tempi sono questi quando discorrere di alberi è quasi un delitto”.
L'ultima fatica di Cremonte, una piccola raccolta intitolata Vicini fresca di stampa per LietoColle, canta soprattutto di alberi e animali. Sono questi i vicini, il prossimo di cui si discorre, da sempre parte fondamentale del suo mondo, non trastulli, pretesti e, meno che mai, simboli o proiezioni dell'io, ma portatori di una autonoma dignità, di una distinta serietà. Se una qualche umanizzazione del vegetale o dell'animale non umano si può leggere nelle liriche di questa raccolta (“Son nostri fratelli gli ulivi” - “Dove vanno i giovani castagni/ con la baldanza della loro /giovinezza”) ad essa corrisponde, complementare, una naturalizzazione dell'umano che si esprime nell'amorevole simbiosi (la cura dell'orto, per esempio), nella tensione cosmica (un morire che vorrebbe essere “lieve” come il silenzio dell'erba che cresce) o nella compassione. In tutta l'opera di Cremonte, ad esempio, è presenza amica un cane, compagno di inquietudini e gioie elementari, di conversazioni su cui aleggiano domande senza risposta; ma qui, nella poesia intitolata appunto Un cane, la compagnevolezza tocca vertici di intensità difficilmente eguagliabili (“Se piangevi / ti appoggiava il muso sui ginocchi / e ti guardava. / Voleva farti smettere / e non sapeva come // Cosa possiamo dire più di questo / per salvare dall'ultimo abbandono / quel dono”).
Quanto agli esseri umani il massimo dell'attenzione è riservato a sofferenti e morti. Questi ultimi il poeta vorrebbe in comunione con i viventi, come nella poesia religiosa di Aldo Capitini, ma invano. Per Cremonte il morire è leopardianamente un “venir meno ad ogni amante usata compagnia” e non trova ragioni che lo rendano accettabile, come non ne trovano il nulla donde veniamo e dove ricadiamo, l'abbandono cui siamo condannati (“noi portiamo fiori / loro non li vedranno/ era questo l'inganno”). La consolazione della memoria e della poesia può alleggerire lo scacco, ma non ne scalfisce l'inevitabilità.
Con una tematica siffatta, tra idillio ed elegia, tra comunione ed esclusione, i rischi del sentimentale sono in agguato; ma in questo caso il canto (ché di canto comunque si tratta) non risulta mai evasiva melodia, soprattutto grazie alle “transizioni” e “inversioni”, caratteristiche di Cremonte e pressoché indefinibili, le particelle, le pause, le citazioni impreviste, i luoghi comuni che segnano un mutamento nel ritmo o nel tono. In questa raccolta si fanno ancora più lievi del solito, quasi impalpabili, tuttavia efficacissime a fugare le insidie del patinato, dello sdolcinato e del grazioso, senza rinunciare del tutto al patetico.
Vicini si pone, per molte ragioni, in continuità con il Piccolo epistolario in versi che per la stessa casa editrice aveva l'anno scorso licenziato insieme a Paolo Ottaviani e dove i due poeti discorrevano le ragioni ultime dell'esistenza tra faggi, merli e nevai. Qui non c'è – volutamente credo – l'intrusione della storia, storia di orrori e brutali violenze, ancora più insopportabili perché fraterne, tranne forse nella poesia Le cose, ove la reticenza allusiva rimanda ai processi di generale “reificazione” del tardo capitalismo.
Presente in libreria, ma come curatore e prefatore, è l'altro poeta dell'epistolario, Ottaviani, che in questi ruoli ha cooperato ad una meritoria iniziativa dello stesso editore LietoColle, la pubblicazione in Italia delle poesie scelte (1980-2011) di Mari Vallisoo, una delle maggiori poetesse estoni viventi, sotto il titolo di una delle sue raccolte Parlano e volano. A Perugia vive da molti anni la traduttrice delle liriche, Mailis Põld, che - ormai interna ad entrambe le tradizioni letterarie (ha curato edizioni in estone di Sciascia, Calvino ed Eco) – continua a dare un contributo importante alla reciproca conoscenza e al confronto tra estoni e italiani. Non so giudicare della fedeltà della traduzione, che a vista sembra rispettare la metrica dell'originale e probabilmente aspira ad evocarne la ritmica. Operazione che immagino difficile giacché l'estone e i suoi dialetti (Vallisoo utilizza anche il dialetto) appartengono al ceppo linguistico ugro-finnico (lo stesso dell'ungherese o del finlandese) che ha sonorità e cadenze assai diverse dalle lingue romanze. In ogni caso mi pare che la Põld ci consegni un dettato chiaro e persuasivo, un italiano di grande eleganza.
La prefazione di Ottaviani coglie ottimamente alcune bellezze di questa poesia. In essa sembrano convivere in una tensione feconda la quotidianità dell'esistenza e la profondità senza tempo di un mondo emozionale, tensione che permette alla parola poetica di volare. Lo stato d'animo che accompagna l'esperienza forte e coinvolgente di questo poetare spesso senza soggetto, spaesato e spiazzante, è una suspense prolungata che accentua il senso di mistero. Vi si trova di tutto, paesaggi e piante, stanze chiuse e donne che attendono, strade e cieli, città e campagna, tradizione e scienze esatte, il canto che trascina e il silenzio improvviso. Io ho amato soprattutto il procedere dilemmatico di alcune poesie e la chiusa epigrammatica di altre, con l'aliquid luminis finale. E' anche questa lettura un ottimo antidoto contro la dispersione.


“micropolis” - Luglio 2014

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