Walter Cremonte |
L'ultima
fatica di Cremonte, una piccola raccolta intitolata Vicini
fresca di stampa per LietoColle,
canta soprattutto di alberi e
animali. Sono questi i vicini, il prossimo di cui si discorre, da
sempre parte fondamentale del suo mondo, non trastulli, pretesti e,
meno che mai, simboli o proiezioni dell'io, ma portatori di una
autonoma dignità, di una distinta serietà. Se una qualche
umanizzazione del vegetale o dell'animale non umano si può leggere
nelle liriche di questa raccolta (“Son nostri fratelli gli ulivi”
- “Dove vanno i giovani castagni/ con la baldanza della loro
/giovinezza”) ad essa corrisponde, complementare, una
naturalizzazione dell'umano che si esprime nell'amorevole simbiosi
(la cura dell'orto, per esempio), nella tensione cosmica (un morire
che vorrebbe essere “lieve” come il silenzio dell'erba che
cresce) o nella compassione. In tutta l'opera di Cremonte, ad
esempio, è presenza amica un cane, compagno di inquietudini e gioie
elementari, di conversazioni su cui aleggiano domande senza risposta;
ma qui, nella poesia intitolata appunto Un cane,
la compagnevolezza tocca vertici di intensità difficilmente
eguagliabili (“Se piangevi / ti appoggiava il muso sui ginocchi / e
ti guardava. / Voleva farti smettere / e non sapeva come // Cosa
possiamo dire più di questo / per salvare dall'ultimo abbandono /
quel dono”).
Quanto
agli esseri umani il massimo dell'attenzione è riservato a
sofferenti e morti. Questi ultimi il poeta vorrebbe in comunione con
i viventi, come nella poesia religiosa di Aldo Capitini, ma invano.
Per Cremonte il morire è leopardianamente un “venir meno ad ogni
amante usata compagnia” e non trova ragioni che lo rendano
accettabile, come non ne trovano il nulla donde veniamo e dove
ricadiamo, l'abbandono cui siamo condannati (“noi portiamo fiori /
loro non li vedranno/ era questo l'inganno”). La consolazione della
memoria e della poesia può alleggerire lo scacco, ma non ne
scalfisce l'inevitabilità.
Con
una tematica siffatta, tra idillio ed elegia, tra comunione ed
esclusione, i rischi del sentimentale sono in agguato; ma in questo
caso il canto (ché di canto comunque si tratta) non risulta mai
evasiva melodia, soprattutto grazie alle “transizioni” e
“inversioni”, caratteristiche di Cremonte e pressoché
indefinibili, le particelle, le pause, le citazioni impreviste, i
luoghi comuni che segnano un mutamento nel ritmo o nel tono. In
questa raccolta si fanno ancora più lievi del solito, quasi
impalpabili, tuttavia efficacissime a fugare le insidie del patinato,
dello sdolcinato e del grazioso, senza rinunciare del tutto al
patetico.
Vicini
si pone, per molte ragioni, in continuità con il Piccolo
epistolario in versi che per la
stessa casa editrice aveva l'anno scorso licenziato insieme a Paolo
Ottaviani e dove i due poeti discorrevano le ragioni ultime
dell'esistenza tra faggi, merli e nevai. Qui non c'è – volutamente
credo – l'intrusione della storia, storia di orrori e brutali
violenze, ancora più insopportabili perché fraterne, tranne forse
nella poesia Le cose,
ove la reticenza allusiva rimanda ai processi di generale
“reificazione” del tardo capitalismo.
Presente
in libreria, ma come curatore e prefatore, è l'altro poeta
dell'epistolario, Ottaviani, che in questi ruoli ha cooperato ad una
meritoria iniziativa dello stesso editore LietoColle, la
pubblicazione in Italia delle poesie scelte (1980-2011) di
Mari Vallisoo, una delle maggiori poetesse estoni viventi, sotto il
titolo di una delle sue raccolte Parlano e volano. A
Perugia vive da molti anni la traduttrice delle liriche, Mailis Põld,
che - ormai interna ad entrambe le tradizioni letterarie (ha curato
edizioni in estone di Sciascia, Calvino ed Eco) – continua a dare
un contributo importante alla reciproca conoscenza e al confronto tra
estoni e italiani. Non so giudicare della fedeltà della traduzione,
che a vista sembra rispettare la metrica dell'originale e
probabilmente aspira ad evocarne la ritmica. Operazione che immagino
difficile giacché l'estone e i suoi dialetti (Vallisoo utilizza
anche il dialetto) appartengono al ceppo linguistico ugro-finnico (lo
stesso dell'ungherese o del finlandese) che ha sonorità e cadenze
assai diverse dalle lingue romanze. In ogni caso mi pare che la Põld
ci consegni un dettato chiaro e persuasivo, un italiano di grande
eleganza.
La
prefazione di Ottaviani coglie ottimamente alcune bellezze di questa
poesia. In essa sembrano convivere in una tensione feconda la
quotidianità dell'esistenza e la profondità senza tempo di un mondo
emozionale, tensione che permette alla parola poetica di volare. Lo
stato d'animo che accompagna l'esperienza forte e coinvolgente di
questo poetare spesso senza soggetto, spaesato e spiazzante, è una
suspense prolungata che accentua il senso di mistero. Vi si trova di
tutto, paesaggi e piante, stanze chiuse e donne che attendono, strade
e cieli, città e campagna, tradizione e scienze esatte, il canto che
trascina e il silenzio improvviso. Io ho amato soprattutto il
procedere dilemmatico di alcune poesie e la chiusa epigrammatica di
altre, con l'aliquid luminis finale.
E' anche questa lettura un ottimo antidoto contro la dispersione.
“micropolis”
- Luglio 2014
Nessun commento:
Posta un commento