Chi è oggi Vittorini?
Cosa è vivo e cosa è morto dell'autore di Conversazione in
Sicilia e di Uomini e no, dell'inventore di Americana,
del fondatore del “Politecnico”, del polemista, del direttore dei
celebrati Gettoni, dell'iniziatore della discussione intorno a
«industria e letteratura»? Da quando nel 1974 Maria Corti curò la
stampa del secondo volume delle sue opere narrative nei «Meridiani»,
i romanzi di Vittorini sono stati ristampati col contagocce, tranne
forse Conversazione, il suo capolavoro lirico.
E dopo che, per circa un
ventennio, non c'è stato un solo lettore colto, o aspirante
scrittore, che non si sia cimentato con le sue opere, oggi il flusso
dei suoi lettori è molto diminuito, e anche la critica recente -
Giulio Ferroni, ad esempio - tende a ridimensionarne l'importanza
letteraria. Persino la vicenda del “Politecnico”, in assenza di
ogni discussione su politica e cultura, pare consegnata alla storia.
Anche il “Menabò” di letteratura, la rivista diretta insieme a
Calvino, che fece da battistrada alla neoavanguardia e ai suoi temi,
che hanno occupato il campo per vent'anni, appartiene ormai al
passato. Allora cosa resta di Vittorini, al di là della celebrazione
storica?
A questa domanda pare
rispondere, seppur indirettamente, il documentato ed esauriente
volume di Gian Carlo Ferretti, L'editore Vittorini, che sonda
una parte importante del lavoro dello scrittore siciliano, vissuto a
Milano dagli anni 40 al 1966, anno della morte. Come già fece per
Calvino giornalista, Ferretti ripercorre il lavoro di Vittorini
consulente editoriale e direttore di collane, dal 1933, anno del suo
debutto nell'editoria come traduttore, per arrivare alla creazione
della collana di avanguardia I gettoni nel 1951. Secondo
l'autore i caratteri della ventennale attività di Vittorini sono ben
chiari sin dal suo controverso esordio: «un'articolata
organizzazione e serrata produttività personale, una durezza e
spregiudicatezza nei rapporti (seppur attenuata o mascherata da frasi
rispettose, gentili o scherzose) e nei metodi di lavoro, che reca in
sé anche una dichiarata istanza di personalizzazione, di
utilizzazione originale del lavoro altrui, di trasformazione della
fedeltà del traduttore in creatività dello scrittore».
Vittorini è
un'inconsueta figura di intellettuale-editore che non solo si
preoccupa di scrivere e far pubblicare le proprie opere, ma affianca
a questa attività «tradizionale» quella del curatore di volumi,
del promotore di autori e temi, del redattore e programmatore
editoriale, fino alla direzione di collane e di periodici come
“Corona”, presso Bompiani, e il celebre “Politecnico”, del
1945. Giustamente Ferretti respinge l'ambigua definizione di
«organizzatore di cultura», usata spesso per Vittorini, dato che lo
scrittore siciliano non è solo un redattore-intellettuale ma anche
un redattore-funzionario. Negli anni 40 segue il prodotto-libro in
tutte le sue fasi: scelta dei collaboratori, dei traduttori, dei
titoli, disbrigo della corrispondenza, accordi commerciali,
contratti, editing, illustrazioni, bozze, confezione, stampa,
promozione in libreria e recensioni.
L'energia di cui sembra
dotato Vittorini è enorme, come si comprende anche dalla lettura dei
due volumi di lettere editi sinora da Einaudi e che riguardano gli
anni dal '33 al '43 e dal '45 al 51.
Ma non c'è solo questo
lavoro sui «libri degli altri», c'è anche, in primo luogo, la cura
e la promozione del proprio lavoro. In una efficace lettera a
Bompiani del giugno del 1948 Vittorini si preoccupa della ristampa
dei suoi volumi divisi tra Einaudi, Mondadori e lo stesso Bompiani,
il suo primo vero editore. Egli enuncia il principio che per un
autore che vive del provento dei suoi libri ripresentare le proprie
opere il più spesso possibile e in nuova veste, cioè presso editori
via via diversi, è fondamentale.
Perciò Vittorini cura
con attenzione la ristampa dei suoi romanzi e il continuo passaggio
da un editore all'altro. Del resto dal 1933 al '38 collabora con
Mondadori, poi si trasferisce come collaboratore e autore da
Bompiani, sino al 1941, e dal 1945 diventa uno dei riferimenti per
Einaudi, salvo tornare nel '46 da Bompiani e, dopo la fine del
“Politecnico”, dal '46 al '66, diventare consulente stabile di
Mondadori, mentre ancora dal 1951 al '57 dirige I gettoni
einaudiani.
Tuttavia non c'è solo il
Vittorini conoscitore dall'interno dei meccanismi editoriali -
privilegia la corporazione degli editori a quella degli scrittori -,
ma anche quello che gestisce con sapienza la propria «immagine».
Riprendendo gli studi di Raffaella Rodondi, efficace annotatrice
anche delle Opere narrative, Ferretti evidenzia nel dettaglio
come lo scrittore sia «un geniale quanto disinvolto creatore di
leggende non sempre innocenti su se stesso, che per lungo tempo hanno
influenzato la critica o sono rimaste punti fermi della sua
biografia.
Le leggende sono quelle
dell'antifascismo predatato, del mito operaio, del mito
dell'autodidatta e quello dell'origine contadina (ma anche operaia,
marinara, a seconda dei casi). Vittorini costruisce il suo
personaggio in rapporto con la sua poetica, ma soprattutto in
rapporto col «presente». L'oggi è il tempo su cui lo scrittore ed
«editore» rimodella il proprio passato, manipolando testi e
testimonianze, sino a quel capolavoro di autopromozione che è il
Diario in pubblico del '57, dove taglia e cuce i propri testi,
come già aveva fatto con gli autori americani tradotti, con i
collaboratori e gli scrittori del “Politecnico”, con gli
esordienti della collana dei Gettoni, per costruire un
autoritratto al presente che è sempre, almeno nelle sue ambizioni,
paradigmatico.
Che la tensione dell'oggi
sia il centro del progetto-Vittorini l'aveva già messo in luce lo
stesso Calvino, suo interlocutore e sodale, nello scritto apparso nel
1967, nel numero postumo e ultimo del “Menabò”: «Il suo dato di
partenza è l'esperienza letteraria del presente». Questo presente è
da Vittorini sempre riaggiornato in un datario fissato sull'«oggi»,
mediante una frenetica attività di lettura, di progettazione, di
scrittura e riscrittura, persino delle proprie opere, dove abbondano
infatti i testi incompiuti, rifatti o riediti con prefazioni che li
aggiornano.
Ferretti parla
giustamente di irrequietezza e di spregiudicatezza, indici di un
progetto coltivato su più piani o con mezzi diversi, ma in ogni caso
convergenti in iniziative che appaiono sempre insoddisfacenti. E
Calvino aveva visto giusto quando segnalava il dualismo insanabile di
Vittorini, diviso tra l'operare «sull'opera (che dia senso al
fuori)» e quello sul «fuori, sul contesto culturale dell'opera».
In questo movimento circolare tra «opera» e «fuori», Vittorini
pare prigioniero della sua stessa ansia di contemporaneità, legato a
un presente che gli pare sfuggire continuamente nell'ineliminabile
feedback tra opera e contesto, tra pensiero e scrittura.
La realtà non è
trasparente e il modello conoscitivo elaborato dallo scrittore non
riesce mai a esaurirla. Se come scrittore, Vittorini è segnato poi
da un lirismo di fondo, catturato dalla seduzione della «plasticità
della lingua» di ascendenze primonovecentesche, come
intellettuale-editore è invece schiacciato dal sistema
dell'«industria culturale» che finisce per accettare in tutto e per
tutto. Su quest'ultimo motivo Ferretti torna per ben tre volte nel
suo studio, segnalando come lo scrittore sia fermo a una visione
ottimistica e consenziente del mondo editoriale, di cui accetta
l'organizzazione del lavoro e gli obiettivi di mercato, senza mettere
in discussione la sua collocazione e il suo ruolo. La tensione
critica e autocritica di Vittorini si arresta così sull'uscio delle
case editrici.
La causa di questa
subalternità va probabilmente ricercata nel vitalismo di fondo
dell'uomo e dello scrittore, nella sovrastima che nutriva nelle
capacità proprie e altrui, nella possibilità di ribaltare a proprio
vantaggio i rapporti di forza tra produzione creativa e produzione
editoriale. Vittorini è un inguaribile ottimista. Leggendo le sue
lettere si comprende come sia sempre in movimento, esuberante e
pronto a sostenere tutte le sfide.
Il mito americano, quello
resistenziale, il mito pedagogico-didattico del Politecnico , quello
intellettuale e industriale, i miti della metropoli, di Milano e
dell'automobile, non sono che tante facce di un unico mito, quello
dell'uomo nuovo , il mito di Robinson, che poi è sempre lui, Elio
Vittorini, che incarna la figura dell'eterno scopritore, dell'uomo
che ricostruisce da solo, e col poco di cui dispone, il profilo della
nuova civiltà.
La stessa tensione
avanguardistica del Vittorini-scrittore ed editore si scontra con
quella divulgativa di molte imprese. Ferretti lo mostra con vari
esempi e fa vedere come il suo progetto editoriale non superi mai la
soglia di un'idea elitaria di lettore.
Dopo la fine del
“Politecnico” cade anche l'istanza «popolare» di Vittorini e si
verrà realizzando, secondo Ferretti, la convergenza e coerenza tra
«la tensione sperimentale, innovativa» e «l'area di lettura
libraria ristretta e privilegiata», anche se occorre dire che
proprio da quella sperimentazione sono usciti molti degli scrittori
più significativi dell'ultimo quarantennio.
La «tensione verso il
presente», il complesso della contemporaneità ha finito per
spiazzare Vittorini. La storia e la letteratura hanno preso ad
avanzare senza di lui, in direzione e in modi assai differenti,
lasciando tuttavia irrisolti molti dei problemi da lui sollevati.
Quello che resta il
cardine del suo lavoro - la convergenza di scrittura creativa,
attività editoriale e promozione culturale, la tensione a «superare
la separatezza del lavoro intellettuale, senza rinunciare alla
specificità della produzione artistica» (G. Grando) - fa di
Vittorini una delle personalità più originali del dopoguerra ed è
ancora oggi la sua eredità più importante. Nell'ultimo decennio
sono infatti rarissime le figure di scrittori che sostengono un
fronte così vasto di lavoro, pochi in confronto ai molti che
coltivano invece il terreno proprio delle sole opere.
“il manifesto – la
talpa libri”, 9 ottobre 1992
Nessun commento:
Posta un commento