Fra il 13 e il 15
dicembre 1985 si svolse a Roma tra il Centro culturale francese e
Villa Medici un Colloquio francese italiano, promosso
da due prestigiose riviste: la “Quinzaine litteraire” e
“Alfabeta”. Gran parte del suo svolgimento era basato sulla
alternanza sistematica di un letterato francese e un letterato
italiano che intervenivano sul tema Io parlo di un certo
mio libro. Non tutti si
attennero ad esso: non lo fece Fortini, che, impossibilitato a
intervenire, mandò il suo testo (lo lesse Romano Luperini), mentre
altri scelsero di parlare di più di un libro. Posto qui l'intervento
di Edoardo Sanguineti. (S.L.L.)
Potendo
disporre, come da programma, di una dimensione di discorso duplice,
«in termini critici» e «in termini teorici personali», cercherò
di situarmi in una zona intermedia, descrivendo un aspetto del mio
lavoro che sia in grado di delineare una riconoscibile famiglia di
scriventi.
Mi
trovo naturalmente iscritto, come tutti, per anagrafe, tra coloro i
quali, come tutti i moderni, secondo il paradigma goethiano, sono
coatti a scrivere le proprie opere complete, programmaticamente
consci, entro l'orizzonte necessitante di una Weltliteratur.
Posto questo, devo tuttavia identificarmi in quel tipo umano che
aspira egualmente alla costruzione di un'opera centrale, entro quelle
opere complete, e a risolvere così sé stesso, comunque,
essenzialmente, in un libro. All'interno di un genere così vulgato,
e volgare, vengo poi a collocarmi tra coloro che non aspirano alla
costruzione del proprio testo dominante attraverso l'esecuzione di un
piano strutturalmente precostituito, ma anzi tra coloro che vanno
coltivando un itinerario di scrittura che si definisce soltanto,
progressivamente, nel corso dei lavori, inventandosi mete e tappe a
cui costringersi, da nomade, nel tempo. Entro questo genere,
finalmente, appartengo a quella varietà di scriventi che si
correggono non per riscrittura, mediante interventi retrospettivi,
più o meno massicci, sul già scritto e già edito, esibendo il
proprio travaglio di pentiti, e di perfezionisti, ma, quasi
all'opposto, operano per correzioni di rotta tematiche, linguistiche,
ideologiche, costruttive, e dunque attraverso una supplementare
produzione di testi, per aggiustamenti ulteriori, con metodo
additivo.
Ogni
nuovo atto di scrittura, ovviamente, si ripercuote, anche se minimo
microtesto, sopra il macrotesto pregresso, e ne accresce e
diminuisce, definisce e storpia, moltiplica e deturpa i significati
acquisiti. Intanto, proprio perché riapre l'apparente totalità
della scrittura già cristallizzata in superficie, viene a
sospendersi continuamente sopra un nuovo vuoto di scrittura, che
attende di essere ancora colmato, più tardi, con un illusionistico
effetto complessivo, inevitabilmente, da perpetuum mobile.
L'idea di un'opera in progress, in breve, aspira a essere condotta,
in questo modo, alle sue ultime conseguenze. Per me, il fascino
discreto della scrittura riposa, totalmente, in un simile progetto
paradossale.
Questa
specie di lunga frase primaria, primariamente imperfetta, questa
sorta di assiale testo ininterrotto, e perpetuamente interrotto,
frantumato e ricompattato, è costituito, nel mio caso, dalla serie
delle mie scritture in versi, segmenti di un corpo poematico che
aspira a un mitico risultato unitario, continuamente trasgredito e
ricompattato, franto e restaurato, contraddetto e riaggiustato.
L'opera, dunque, in prima istanza, è la storia stessa del proprio
farsi. Per questo, quelle scritture che, pur essendo in versi, sono
digressive nei confronti di un simile itinerario dominante, sono
me
confinate e emarginate all'insegna di un Fuori catalogo.
E a distanza, si capisce, ruotano poi, come altrettanti pianeti, le
altre scritture, in questa prospettiva fatalmente periferiche, le
romanzesche e le teatrali, le saggistiche e le traduttive, - le
altre, genericamente.
Quanto
all'opera in sé, se esibisce intitolazioni nette per le diverse
serie compositive, cronologicamente ordinate, e per le serie
successivamente edite, isolate o a gruppi, non possiede un titolo
complessivo. Questo si presenta, come è fatale, ai miei occhi, come
un desiderabile gesto conclusivo, come un auspicabile sigillo
terminale.
Mi
limiterò allora a indicare adesso le insegne, rispettivamente, della
serie inaugurale e di quella provvisoriamente estrema. Perché la
prima, Laborintus,
manifestava subito il carattere erratico, e erraticamente carcerario,
della ricerca, attraverso la figura emblematica di uno smarrimento
entro la fabbrica del mondo, nel recinto delle parole, tra i muri del
reale, in un tempo storicamente concreto. E l'ultima, che sto
fabbricando, reca in fronte, con il nome di Rebus,
un rinvio immediato, per intanto, a una dimensione ludica, nel giuoco
aperto con i materiali verbali e con i campi referenziali, e
soprattutto alla forma dell'enigma. Questa viene suggerita al lettore
in ossequio a un'idea di scrittura come proposta di un testo, di un
tessuto verbale, che si è invitati a decriptare, a interpretare, a
sciogliere, in un'analisi che tuttavia, potenzialmente, rimane
interminabile. Ma nel titolo, insieme, si deposita un rinvio,
etimologicamente, alle cose stesse, alle res,
confessando l'aspirazione utopica a un disegno segnico in cui, a
realizzare il discorso, intervengano, al limite, gli oggetti, per sé.
L'utopia
dice che l'autore, che pure è lì che si fabbrica i suoi rebus
inventariando e montando le sue res,
può pervenire a un punto in cui siano le cose a prendere la parola,
deponendo il medium del soggetto, occultato e rivelato, al tempo
stesso, dalla maschera elementare dell'io demarcatore. È questa
utopia che volevo segnalarvi, sommariamente. E sono convinto che sia
questa che interviene, come regolatrice inconscia a guidare, in
sostanza, ogni nostro atto di scrittura, oggi.
Alfabeta
n.84, Maggio 1986 – Supplemento letterario 6
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