Franco Fortini (1992) |
Credo si debba
riconoscenza a Giorgio Agamben per la risposta che ha dato a Galli
Della Loggia (sul manifesto di venerdì). Non solo per consenso alla
sua posizione. Ma anche per la forma, per quello che il titolo
redazionale ha chiamato «le parolacce»: l'impiego di termini molto
duri per designare la categoria morale cui si ascrive il suo
interlocutore. Non vorrei insistere sulla sua dimensione retorica
perfetta, la gradatio che dopo l'ironia e il tranquillo moto
dei due terzi del breve scritto conduce all'invettiva, illuminando
sulla sostanziale continuità di funzione che intercorre tra i
pubblicisti hitleriani e fascisti e quelli odierni, addetti alla
grande stampa. Né merita più di un accenno la sola nube (ma
inevitabile) di quella scrittura, che è l'eccesso di nobiltà e di
guanto di sfida (un aggettivo come «ribaldo», per esempio).
L'insolenza rifugge, è noto, dalla medietà e si precipita agli
estremi: il plebeo e il cavalleresco.
Lo so benissimo: che,
proprio per quelle sue estremità, l'insolenza ha una tradizione
reazionaria. Da noi nella esagitazione alla D'Annunzio e alla Papini
e, prima ancora, in innumeri modelli di oratoria forcaiola e
clericale, nazionale e straniera. Altrettanto inutile lamentare
l'inefficacia della insolenza a favore della ironia e
dell'equilibrio. Perché non sempre eguali forme hanno eguale
funzione. Mutano col mutare dei contesti. È davvero questione di
arte retorica. E di interpretazione politica. L'assassinio di Marat,
la scarpa di Kruscev alle Nazioni unite, la fiamma di Palach sono dei
significanti che presuppongono una sintetica valutazione dell'intero
quadro semantico. E una situazione semantica è una situazione
politica. Così gli ex ufficiali napoleonici si aggiravano, in
borghese, nei caffè della Parigi della Restaurazione a provocare per
sanguinosi duelli i loro parigrado passati ai Borboni. C'è tutta una
letteratura anarchica (ma, prima ancora, mazziniana) sul «gesto
esemplare». E, se la tradizione marxista ne rifugge, non è per
astratte ragioni di principio ma per una precisa lettura dei contesti
politici, delle circostanze insomma: d'altronde gli scritti di Marx e
di Lenin consentono una strabocchevole antologia di insolenze.
L'invidia che provo per
la pagina di Agamben è dunque dovuta alla sua capacità
d'interpretare con un gesto il nostro presente; di illuminarlo. Chi
lo ha letto ha avuto l'improvvisa sensazione di respirare, non fosse
che per un attimo, meglio. Come fra sé e sé andasse ripetendosi il
verso: ond'ei repente spezzerà la nebbia. Poter dire «verme»
a un verme, non è così facile come si crede, se non si è dei
volgari cani da guardia di qualcuno, se - voglio dire - non si è
migliori dei cani e dei vermi. Ci sarà sempre qualcuno pronto a
rammentarti che bisogna criticare il meglio e non il peggio, il
pensiero e non la persona, il peccato e non il peccatore. Eppure tu
sai che vengono, o si stanno avvicinando, momenti nei quali il
pensiero e la persona, il servizio reso a una pubblicistica
repellente e l'identità anagrafica che quel servizio ha reso,
tendono a identificarsi; come d'altronde fa ogni giorno
l'amministrazione giudiziaria.
La situazione morale e
intellettuale, prima ancora che politica, del nostro paese, qual è
espressa ogni mattina e ogni sera dai quotidiani e dagli audiovisivi
è tale che un certo numero di persone (una delle quali sono io che
scrivo) prova sentimenti di schifo e di disprezzo - certamente
ricambiati - per un certo numero di appartenenti alla propria
medesima corporazione. Nel nostro caso, facitori di opinione,
giornalisti, filosofi o ex filosofi, studiosi o ex studiosi, e
simili. Tali sentimenti non hanno, nella situazione nostra, quasi mai
a che fare (e questo mi pare il punto eminente) con le ostilità
tradizionali all'interno delle corporazioni (accademiche,
giornalistiche, ecc.) e neanche con le divisioni partitiche o di
setta. Essi si sono sviluppati e sono divenuti irrimediabili (nel
senso di non-mediabili) nel corso dei passati vent'anni, come lo
erano stati nel ventennio fascista. E per tre fattori: il primo è
nella mancata interpretazione politica e non mitologica del
quindicennio 1967-1982, per i motivi che sappiamo e che
quotidianamente rigurgitano nella idraulica nazionale; il secondo è
perché tutto un personale di servizio «intellettuale», promosso ai
media proprio grazie a quella mancata interpretazione, è solidale
nella difesa interpartitica dello stato di cose vigenti e si divide
solo per la recitazione di alcune gags o parti in commedia; il terzo
- prodigiosamente enfiato dall'infantile o infame trattamento ormai
corrente degli eventi dell'Est europeo; ma, consoliamoci, in Francia
è anche peggio - è nella ipertrofia democraticistica secondo la
quale si debbono rispettare tutte le opinioni, anche le più turpi,
lasciar parlare anche i mentitori pubblici, rimandare le conclusioni
perché «il nostro tempo sta per scadere» e quindi pregiare
l'equilibrio e l'ironia, la ragionevolezza e il buonsenso e lasciare
l'insolenza a qualche pagliaccio televisivo, pagato per questo. Ne
viene che nelle conversazioni si è sempre più portati a selezionare
(come ai tempi di Papini e di Bottai, di Ansaldo e di Vallecchi e di
Ciano) i propri vicini dividendoli fra coloro per i quali A. e B. e
C. e D. sono spregevoli (e - in questo dissento da Agamben - non
perché siano pubblicisti e non eminenti filosofi o sociologi o
specialisti di qualche specialità; anzi) e quelli con i quali è
meglio non sfiorare neanche l'argomento. Venga finalmente, come la
chiama un poeta, «la sacrosanta rissa». Rammento lo schiaffo ben
assestato da mio padre, uomo mitissimo, quando, dopo anni di
umiliazioni, ebbe a incontrare in un luogo affollato del centro di
Firenze, la mattina successiva all'arresto di Mussolini, 1943, un
tale che da lungo tempo gli aveva tolto il saluto e che gli si era
fatto incontro sorridendo, anzi togliendosi il cappello. So bene -
non ci vuole grande sensibilità morale per saperlo - che il
disprezzo verso altrui, macchia anche e diminuisce chi disprezza.
Nell'ingiuria c'è sempre un autocompiacimento. Ma sono macchie che
accetterei di subire volentieri, se servissero a introdurre profondi
motivi di divisione, a costringere a scelte rigide, a riconoscerne la
inevitabilità salutare. Solo conforto, in questo senso, mi è la
certezza che fra i più giovani il disprezzo assume la forma della
indifferenza, della ignoranza benefica e volontaria, dell'odio
sorridente e quasi ignaro di sé.
E un'ultima parola. Di
quella mezza dozzina di persone, miei parigrado intellettuali e
pubblicisti, ai quali va da parte mia un gesto di ripugnanza e
disistima pari a quello di Agamben perché non mi (non ci) ammorbino
più a lungo, non ho scritto i nomi e i cognomi. Non l'ho fatto
anzitutto perché chi mi conosce sa già di chi sto parlando. E poi
perché non voglio dare al “manifesto” noie giudiziarie né a
costoro il piacere di trascinarmi davanti al giudice. Se non fossi
certo che essi sono ben discernibili ai miei lettori, dovrei dubitare
della mia analisi del presente. Dovrei credermi solo, quando invece
sono certo che non è vero.
"il manifesto", 21 gennaio 1990
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