10.10.14

“Dire verme al verme”. Le salubri insolenze (Franco Fortini)

Franco Fortini (1992)
Credo si debba riconoscenza a Giorgio Agamben per la risposta che ha dato a Galli Della Loggia (sul manifesto di venerdì). Non solo per consenso alla sua posizione. Ma anche per la forma, per quello che il titolo redazionale ha chiamato «le parolacce»: l'impiego di termini molto duri per designare la categoria morale cui si ascrive il suo interlocutore. Non vorrei insistere sulla sua dimensione retorica perfetta, la gradatio che dopo l'ironia e il tranquillo moto dei due terzi del breve scritto conduce all'invettiva, illuminando sulla sostanziale continuità di funzione che intercorre tra i pubblicisti hitleriani e fascisti e quelli odierni, addetti alla grande stampa. Né merita più di un accenno la sola nube (ma inevitabile) di quella scrittura, che è l'eccesso di nobiltà e di guanto di sfida (un aggettivo come «ribaldo», per esempio). L'insolenza rifugge, è noto, dalla medietà e si precipita agli estremi: il plebeo e il cavalleresco.
Lo so benissimo: che, proprio per quelle sue estremità, l'insolenza ha una tradizione reazionaria. Da noi nella esagitazione alla D'Annunzio e alla Papini e, prima ancora, in innumeri modelli di oratoria forcaiola e clericale, nazionale e straniera. Altrettanto inutile lamentare l'inefficacia della insolenza a favore della ironia e dell'equilibrio. Perché non sempre eguali forme hanno eguale funzione. Mutano col mutare dei contesti. È davvero questione di arte retorica. E di interpretazione politica. L'assassinio di Marat, la scarpa di Kruscev alle Nazioni unite, la fiamma di Palach sono dei significanti che presuppongono una sintetica valutazione dell'intero quadro semantico. E una situazione semantica è una situazione politica. Così gli ex ufficiali napoleonici si aggiravano, in borghese, nei caffè della Parigi della Restaurazione a provocare per sanguinosi duelli i loro parigrado passati ai Borboni. C'è tutta una letteratura anarchica (ma, prima ancora, mazziniana) sul «gesto esemplare». E, se la tradizione marxista ne rifugge, non è per astratte ragioni di principio ma per una precisa lettura dei contesti politici, delle circostanze insomma: d'altronde gli scritti di Marx e di Lenin consentono una strabocchevole antologia di insolenze.
L'invidia che provo per la pagina di Agamben è dunque dovuta alla sua capacità d'interpretare con un gesto il nostro presente; di illuminarlo. Chi lo ha letto ha avuto l'improvvisa sensazione di respirare, non fosse che per un attimo, meglio. Come fra sé e sé andasse ripetendosi il verso: ond'ei repente spezzerà la nebbia. Poter dire «verme» a un verme, non è così facile come si crede, se non si è dei volgari cani da guardia di qualcuno, se - voglio dire - non si è migliori dei cani e dei vermi. Ci sarà sempre qualcuno pronto a rammentarti che bisogna criticare il meglio e non il peggio, il pensiero e non la persona, il peccato e non il peccatore. Eppure tu sai che vengono, o si stanno avvicinando, momenti nei quali il pensiero e la persona, il servizio reso a una pubblicistica repellente e l'identità anagrafica che quel servizio ha reso, tendono a identificarsi; come d'altronde fa ogni giorno l'amministrazione giudiziaria.
La situazione morale e intellettuale, prima ancora che politica, del nostro paese, qual è espressa ogni mattina e ogni sera dai quotidiani e dagli audiovisivi è tale che un certo numero di persone (una delle quali sono io che scrivo) prova sentimenti di schifo e di disprezzo - certamente ricambiati - per un certo numero di appartenenti alla propria medesima corporazione. Nel nostro caso, facitori di opinione, giornalisti, filosofi o ex filosofi, studiosi o ex studiosi, e simili. Tali sentimenti non hanno, nella situazione nostra, quasi mai a che fare (e questo mi pare il punto eminente) con le ostilità tradizionali all'interno delle corporazioni (accademiche, giornalistiche, ecc.) e neanche con le divisioni partitiche o di setta. Essi si sono sviluppati e sono divenuti irrimediabili (nel senso di non-mediabili) nel corso dei passati vent'anni, come lo erano stati nel ventennio fascista. E per tre fattori: il primo è nella mancata interpretazione politica e non mitologica del quindicennio 1967-1982, per i motivi che sappiamo e che quotidianamente rigurgitano nella idraulica nazionale; il secondo è perché tutto un personale di servizio «intellettuale», promosso ai media proprio grazie a quella mancata interpretazione, è solidale nella difesa interpartitica dello stato di cose vigenti e si divide solo per la recitazione di alcune gags o parti in commedia; il terzo - prodigiosamente enfiato dall'infantile o infame trattamento ormai corrente degli eventi dell'Est europeo; ma, consoliamoci, in Francia è anche peggio - è nella ipertrofia democraticistica secondo la quale si debbono rispettare tutte le opinioni, anche le più turpi, lasciar parlare anche i mentitori pubblici, rimandare le conclusioni perché «il nostro tempo sta per scadere» e quindi pregiare l'equilibrio e l'ironia, la ragionevolezza e il buonsenso e lasciare l'insolenza a qualche pagliaccio televisivo, pagato per questo. Ne viene che nelle conversazioni si è sempre più portati a selezionare (come ai tempi di Papini e di Bottai, di Ansaldo e di Vallecchi e di Ciano) i propri vicini dividendoli fra coloro per i quali A. e B. e C. e D. sono spregevoli (e - in questo dissento da Agamben - non perché siano pubblicisti e non eminenti filosofi o sociologi o specialisti di qualche specialità; anzi) e quelli con i quali è meglio non sfiorare neanche l'argomento. Venga finalmente, come la chiama un poeta, «la sacrosanta rissa». Rammento lo schiaffo ben assestato da mio padre, uomo mitissimo, quando, dopo anni di umiliazioni, ebbe a incontrare in un luogo affollato del centro di Firenze, la mattina successiva all'arresto di Mussolini, 1943, un tale che da lungo tempo gli aveva tolto il saluto e che gli si era fatto incontro sorridendo, anzi togliendosi il cappello. So bene - non ci vuole grande sensibilità morale per saperlo - che il disprezzo verso altrui, macchia anche e diminuisce chi disprezza. Nell'ingiuria c'è sempre un autocompiacimento. Ma sono macchie che accetterei di subire volentieri, se servissero a introdurre profondi motivi di divisione, a costringere a scelte rigide, a riconoscerne la inevitabilità salutare. Solo conforto, in questo senso, mi è la certezza che fra i più giovani il disprezzo assume la forma della indifferenza, della ignoranza benefica e volontaria, dell'odio sorridente e quasi ignaro di sé.

E un'ultima parola. Di quella mezza dozzina di persone, miei parigrado intellettuali e pubblicisti, ai quali va da parte mia un gesto di ripugnanza e disistima pari a quello di Agamben perché non mi (non ci) ammorbino più a lungo, non ho scritto i nomi e i cognomi. Non l'ho fatto anzitutto perché chi mi conosce sa già di chi sto parlando. E poi perché non voglio dare al “manifesto” noie giudiziarie né a costoro il piacere di trascinarmi davanti al giudice. Se non fossi certo che essi sono ben discernibili ai miei lettori, dovrei dubitare della mia analisi del presente. Dovrei credermi solo, quando invece sono certo che non è vero.

"il manifesto", 21 gennaio 1990

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