26.10.14

Divergenze parallele. Steve Jobs e Edison. (Marco d’Eramo)

Thomas Edison & Steve Jobs
Elogi funebri a confronto
«Ha reso questo mondo un posto migliore in cui vivere e ha portato quelli che una volta erano considerati lussi nella vita dei lavoratori. Nessuno nella lunga lista di coloro che hanno beneficiato l’umanità ha fatto di più per rendere l’esistenza facile e comoda». Non è Steve Jobs di cui si parla, bensì Thomas Alva Edison, e queste frasi non sono state scritte l’altroieri, ma ottant’anni fa, esattamente il 18 ottobre 1931 nell’elogio funebre a firma di Bruce Rae che ne pubblicò allora il «NewYork Times», intitolato Il mondo reso migliore dalla magia di Edison - Fece più di ogni altro per immettere i lussi nelle vite delle masse.
È interessante paragonare le due retoriche che corrispondono non solo a due generi diversi di innovazione tecnologica, ma anche a due stadi differenti della civiltà dei mass-media per due innovatori/capitalisti, cioè per imprenditori che personificano ambedue l’idea del prometeico industriale schumpeteriano, ma in modo totalmente divergente. Certo, una differenza decisiva, che spiega almeno in parte i toni diversi, è che Edison (1847-1931) morì dopo una lunga vita e molti anni dopo che le sue invenzioni erano state rese invisibili dall’abitudine, mentre Steve Jobs è morto relativamente giovane (56 anni) dopo una lunga, pubblica battaglia con un tumore al pancreas, quando le sue innovazioni furoreggiano ancora per la loro «novità».
Ma non è solo per l’età avanzata che negli obituaries di Edison manca la lacrimosità versata invece in abbondanza (e in misura assolutamente bipartisan, da destra e da sinistra) per Steve Jobs, un commuoversi a buon mercato che ricorda altre ondate di (effimeri) struggimenti, quale quello per Lady Diana, e che quindi corrisponde a una figura nuova per i capitalisti o per gli industriali, quella del «divo». Né Edison, né Henry Ford (altro grande innovatore) furono mai star: certo furono famosissimi al loro tempo, ma la natura della loro fama era molto lontana da quella di un divo appunto, assomigliava più a quella di un grande generale (uno Sheridan o un von Moltke) che a quella di un artista di successo.
In questo senso si può dire che il rituale funebre di Edison era tutto immerso nell’idea di progresso, quello di Jobs è invece il trionfo del capitalismo postmoderno (basato sull’eleganza, sull’essere accattivante, oltre che sulla praticità). Dipende in parte dalla natura delle innovazioni di Edison che furono anch’esse, come quelle di Jobs, in gran parte migliorie di invenzioni preesistenti: Edison non fabbricò la prima lampada elettrica a incandescenza, bensì la prima lampada a incandescenza commerciabile. In questo senso contribuì a quella vittoria sul terrore della notte e del buio che secondo Wolfgang Schivelbusch (Luce. Storia dell’illuminazione artificiale, Nuove Pratiche Editrice, 1994) caratterizza la fine del XIX secolo (Parigi, la ville lumière). Ma il fonografo, quello sì che Edison lo inventò tutto lui. Scrive il «New York Times»: «E poi venne il fonografo – prima una novità, poi un genere di lusso, infine un oggetto comune. Portò le grandi arie dell’opera nei caseggiati popolari. La voce di Caruso s’innalzò per tibetani dalla faccia piatta nei villaggi delle colline del Darjeeling. I commercianti intuirono che grazie a esso africani ancora armati di lancia avevano la possibilità di ascoltare il jazz di Broadway… E tra cinquant’anni, la voce di Caruso e dei suoi contemporanei sarà ascoltata da coloro che non sono ancora nati».
Le innovazioni di Edison sono, per così dire, a monte dell’estetica, generano le condizioni perché possa prodursi un’esperienza estetica (grazie non solo al fonografo, ma anche alla cinepresa), mentre quel che colpisce negli elogi funebri di Jobs è che se ne parla come di un Dior o di una Coco Chanel dell’informatica (l’ipod come l’equivalente di quel che fu l’introduzione del tailleur per l’eleganza delle donne), cioè che il suo capitalismo è tutto immerso nella dimensione estetica: anche in questo se ne può parlare come di un «capitalista postmoderno»; non che sfrutti di meno, anzi (come ricordava Benedetto Vecchi a proposito dei beni prodotti negli sweatshops asiatici), ma lo sfruttamento si integra nella cultura del gratuito da cui trae profitto.
L’ultima coincidenza a colpire è che ambedue le morti sono cadute in un periodo in cui la crisi economica non accenna a diminuire: Edison morì due anni dopo il martedì nero 29 ottobre 1929, mentre Jobs è morto a poco più di tre anni dal fallimento di Lehman Brothers (15 settembre 2008). Anche qui però la morte di Edison è intrisa di progresso («le sue invenzioni diedero lavoro – oltre che luce e divertimento – a milioni» poiché crearono dal nulla tutta l’industria elettrica); mentre nell’altra, di posti di lavoro c’è traccia (come ha notato Alberto Piccinini) solo nel nome jobs (che in inglese vuol dire «posti di lavoro») oppure in Cina e nel sudest asiatico.


“il manifesto”, 9 ottobre 2010

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