La parola precario
(di cui precariato è derivazione) ha due funzioni
grammaticali, due significati ben distinti e una storia insolita.
Come aggettivo, nel senso
di “instabile”, “provvisorio”, “stentato” ed
“occasionale”, fa la sua comparsa in età decisamente avanzata
ossia nel Settecento e si consolida nel secolo successivo trovando
largo impiego sia nella retorica ufficiale (la “precaria stabilità
dei governi” di Foscolo) sia nel linguaggio famigliare (Paolina
Leopardi rimprovera il fratello Giacomo, impaziente ed improvvido, di
rendere “il suo stato sempre più penoso e precario”).
Va a finire che tocca al
nostro rivoluzionario meno sensibile alle novità dell’industria,
cioè Mazzini, l’onore di applicare per primo il termine alle
condizioni della nuova classe lavoratrice e di farlo addirittura con
toni da internazionalista: “Dappertutto, in Francia, in Inghilterra
ed altrove, l’operaio vive, generalmente parlando, come in Italia,
e più che in Italia, una vita povera, stentata, precaria, per
giungere a una vecchiaia inferma, squallida, senza soccorso”.
Ma precario è anche un
sostantivo coniato dal diritto romano: indica la concessione di un
bene, gratis o a prezzo simbolico, fatta da un proprietario che può
chiederne la restituzione in qualunque momento e senza preavviso.
Data la tenacia con cui
la giurisprudenza degli antichi ha retto alla fine del mondo classico
e al succedersi delle civiltà, niente di strano che in questo
significato la parola sia pervenuta sino al moderno diritto italiano
per indicare una particolare forma di comodato (sempre con
restituzione immediata) cui ricorre in particolare la Pubblica
amministrazione per concedere beni appartenenti al demanio.
La parola sembra insomma
marcata da un senso di provvisorietà, insicurezza ed arbitrio: e
questo particolarmente nel suo uso giuridico, dove definisce un
rapporto senza simmetria nel quale chi concede qualcosa lo fa per
pura benevolenza e chi la riceve non l’ha ottenuta nel nome di un
diritto ma in grazia di un beneficio. Insomma un rapporto di
vassallaggio. Tanto più se la concessione non è quella di un bene
generico ma quella di un posto di lavoro; in questa particolare
accezione, la prima attestazione del vocabolo risale ad un
anno-simbolo, il 1980, quando una testata popolarissima come il
“Radiocorriere Tv” spiega alla massa dei suoi lettori che
“nell’uso corrente del termine sono due le categorie di ‘precari’
[notate le virgolette!]: quelli della scuola e quelli della legge 285
sull’occupazione giovanile”.
Il punto però è che
l’aggettivo precario è testimoniato molto prima, addirittura alla
fine del Quattrocento: ma a quell’epoca risente ancora in maniera
diretta della sua derivazione da prex, precis
(“preghiera”, “supplica”) e difatti viene usato nel senso di
“supplicante” e “che si ottiene con preghiere e con suppliche”.
Poi, come un fiume carsico, sembra sparire per tornare in uso tre
secoli dopo ma con una trasformazione di significato sconcertante.
Forse un po’ meno sconcertante se si pensa a come funzionano le
concessioni arbitrarie, le grazie revocabili, i favori senza
garanzia.
“micropolis”,
settembre 2014
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