5.10.14

Parole. Precario (Jacopo Manna)

La parola precario (di cui precariato è derivazione) ha due funzioni grammaticali, due significati ben distinti e una storia insolita.
Come aggettivo, nel senso di “instabile”, “provvisorio”, “stentato” ed “occasionale”, fa la sua comparsa in età decisamente avanzata ossia nel Settecento e si consolida nel secolo successivo trovando largo impiego sia nella retorica ufficiale (la “precaria stabilità dei governi” di Foscolo) sia nel linguaggio famigliare (Paolina Leopardi rimprovera il fratello Giacomo, impaziente ed improvvido, di rendere “il suo stato sempre più penoso e precario”).
Va a finire che tocca al nostro rivoluzionario meno sensibile alle novità dell’industria, cioè Mazzini, l’onore di applicare per primo il termine alle condizioni della nuova classe lavoratrice e di farlo addirittura con toni da internazionalista: “Dappertutto, in Francia, in Inghilterra ed altrove, l’operaio vive, generalmente parlando, come in Italia, e più che in Italia, una vita povera, stentata, precaria, per giungere a una vecchiaia inferma, squallida, senza soccorso”.
Ma precario è anche un sostantivo coniato dal diritto romano: indica la concessione di un bene, gratis o a prezzo simbolico, fatta da un proprietario che può chiederne la restituzione in qualunque momento e senza preavviso.
Data la tenacia con cui la giurisprudenza degli antichi ha retto alla fine del mondo classico e al succedersi delle civiltà, niente di strano che in questo significato la parola sia pervenuta sino al moderno diritto italiano per indicare una particolare forma di comodato (sempre con restituzione immediata) cui ricorre in particolare la Pubblica amministrazione per concedere beni appartenenti al demanio.
La parola sembra insomma marcata da un senso di provvisorietà, insicurezza ed arbitrio: e questo particolarmente nel suo uso giuridico, dove definisce un rapporto senza simmetria nel quale chi concede qualcosa lo fa per pura benevolenza e chi la riceve non l’ha ottenuta nel nome di un diritto ma in grazia di un beneficio. Insomma un rapporto di vassallaggio. Tanto più se la concessione non è quella di un bene generico ma quella di un posto di lavoro; in questa particolare accezione, la prima attestazione del vocabolo risale ad un anno-simbolo, il 1980, quando una testata popolarissima come il “Radiocorriere Tv” spiega alla massa dei suoi lettori che “nell’uso corrente del termine sono due le categorie di ‘precari’ [notate le virgolette!]: quelli della scuola e quelli della legge 285 sull’occupazione giovanile”.
Il punto però è che l’aggettivo precario è testimoniato molto prima, addirittura alla fine del Quattrocento: ma a quell’epoca risente ancora in maniera diretta della sua derivazione da prex, precis (“preghiera”, “supplica”) e difatti viene usato nel senso di “supplicante” e “che si ottiene con preghiere e con suppliche”. Poi, come un fiume carsico, sembra sparire per tornare in uso tre secoli dopo ma con una trasformazione di significato sconcertante. Forse un po’ meno sconcertante se si pensa a come funzionano le concessioni arbitrarie, le grazie revocabili, i favori senza garanzia.


“micropolis”, settembre 2014

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