Edith Piaf |
Quella
che siamo soliti chiamare «canzone francese», quella di Edith Piaf
e di Juliette Gréco, di Trenet e di Brassens, è il prodotto di una
cesura storica: essa nasce, tra gli anni 30 e gli anni 60 del secolo
scorso, come canzone «moderna» (interna cioè alle dinamiche
produttive dell'industria culturale), sul dissolvimento e la
defunzionalizzazione di un repertorio «popolaresco» urbano
prevalentemente diffuso a Parigi.
È
soprattutto nella periferia parigina, dunque, che è rintracciabile
la presenza di un tipo di canzone «urbana» legata al tempo libero
di una classe operaia fordista in formazione, una classe che da un
lato vive, quindi, di balli di fine settimana, al suono della
fisarmonica e al ritmo della valse musette, dall'altro
conserva tratti culturali da vecchia società contadina (e quindi,
per restare nel nostro ambito, utilizza la musica in senso
«funzionale», mantenendo in uso forme come ninne nanne, canti di
lavoro, canti rituali, ecc.).
In
città esistevano, invece, diverse tradizioni: una tradizione di
canzone «letteraria», partita dai caveaux settecenteschi ,
le cantine dei primi cabaret (ne rimane traccia nell'opera di Pierre
De Béranger, forse il primo chansonnier, attivo nella prima metà
dell'Ottocento); una di tipo «artigianale», prodotta dalle
goguettes, associazioni di operai e artigiani del nascente
movimento socialista (a cui si può aggiungere la canzone «militante»
legata all'esperienza della Comune di Parigi, e dalla quale venne
fuori L'internationale); una «satirico-cronachistica»,
proveniente dalla strada e venduta su fogli volanti (detti canard
e anche petits formats) nei pressi del Pont-Neuf.
Tutti
questi repertori erano diffusi prima dell'avvento
della industrializzazione nella musica ed erano costruiti su modalità
espressive e contenutistiche molto diverse da quelle della canzone
francese moderna, a cominciare dalla consuetudine di adattare testi
diversi alla medesima melodia di autore anonimo. Punto di contatto
tra la vecchia e la nuova canzone può essere considerato Aristide
Bruant, il cantante immortalato da Toulouse-Lautrec in una celebre
serie di ritratti.
Bruant
si esibisce nei café-chantant e registra, intorno al 1910, gran
parte del suo repertorio: può essere considerato perciò, a tutti
gli effetti, un artista «moderno», che si serve dei canali
dell'industria dello spettacolo. Eppure Bruant è oggi di difficile
ascolto, risultando monocorde e ripetitivo: le sue canzoni, composte
su melodie molto semplici, sillabiche e prive di modulazioni,
consistono in una serie di strofe senza ritornello, spesso su ritmi
di marcia, con una «chiusa» finale di «cadenza» che ne svela il
carattere corale, funzionale al canto collettivo in ambienti piccoli.
Bruant insomma, pur moderno, mantiene i tratti della «vecchia»
canzone, e anche l'interpretazione «straniata» e rauca, e i
contenuti dei testi dei brani lo confermano, rifacendosi tanto alla
satira antiborghese quanto alla vita dei faubourgs, le
periferie parigine, con i loro drammi, i loro codici di vita e i loro
«eroi», le vecchie figure della marginalità sociale che l'artista
trasfigura romanticamente.
La
canzone propriamente «moderna» che seguirà, ha, invece, tutt'altre
caratteristiche: la musica è maggiormente sviluppata (soprattutto in
senso melodico e ritmico), i testi si fanno più effimeri, vengono
«interpretati» (e, quindi, «sottolineati» dal gesto e dalla
mimica) e, soprattutto, la sua durata è più breve perché deve
essere incisa su disco. È inoltre provvista di «ritornello», che
in un'epoca di «percezione distratta», quale quella della modernità
compiuta, funge da formula mnemonica, punto di ancoraggio al prodotto
di consumo.
È
questa la canzone di Fréhel, e successivamente di Maurice Chevalier
e di Mistinguett, connotata, anche linguisticamente, dalla parlata
popolare dei faubourgs. Intanto Parigi ha cambiato faccia
ormai da tempo: ci sono stati gli sventramenti e la ristrutturazione
urbanistica dei boulevards, voluta dal prefetto Haussmann, che ha
cancellato il centro storico e incorporato le periferie omologandone
le specificità culturali; la nostalgia trova perciò ampio spazio
nelle canzoni, anche in rapporto all'emigrazione, insieme
all'esaltazione acritica della «ville plus belle du monde», la
Parigi del divertimento e della vita notturna.
E
anche quando i contenuti dei testi restano improntati a tematiche
«sociali» (è il caso di Edith Piaf, ad esempio) essi vengono
neutralizzati dal linguaggio che viene utilizzato e da un
descrittivismo che tende al bozzetto e al patetismo. È tenendo conto
di tutto questo, che si può cogliere la «rivoluzione operata dagli
chansonniers»: Brel, Brassens, Vian e, soprattutto, Ferré.
Con la formazione di un nuovo pubblico, un'intellighenzia critica e
consapevole (e soprattutto dotata di notevole potere d'acquisto), e
in un'implicita strategia di compromesso con l'industria della musica
(massima libertà espressiva in cambio di consistenti vendite), nasce
dunque, negli anni '50, la «chanson éngagée», destinata a
ridisegnare interamente l'oggetto- canzone facendone un modello per
l'Europa intera, soprattutto per l'Italia.
Il
«padre» della moderna canzone francese è Charles Trenet. Se nella
sua produzione non mancano riferimenti alla vita «faubourienne»,
Trenet inaugura in realtà un linguaggio nuovo e ironico, fatto di
non-sense, di malizia, di gioia di vivere: in debito con «le fou
chantant», come verrà definito, saranno quasi tutti quelli che
verranno. La figura dello «chansonnier» vero e proprio nasce
nell'immediato secondo dopoguerra, in pieno esistenzialismo, con Léo
Ferré e, subito dopo, con Boris Vian, Georges Brassens, Jacques Brel
(senza dimenticare Jean Ferrat e, soprattutto due «disimpegnati»
come Charles Aznavour e Gilbert Bécaud).
La
prima novità è che essi cantano direttamente le loro composizioni,
senza passare necessariamente per la mediazione dell'interprete (e
sono quindi chanteurs-compositeurs-interprètes). Affiancati
da poeti «di professione», come Prévert, Eluard, Aragon, che
scrivono anch'essi occasionalmente testi di canzoni (per Juliette
Gréco, ad esempio, all'epoca «musa» dell'esistenzialismo),
gli chansonniers rompono definitivamente con la prima canzone
moderna, futile o nostalgica, dando grande importanza ai testi e
legandoli alle tematiche dell'attualità politica, o comunque
utilizzandoli in chiave contestativa verso i valori della borghesia,
nel quadro di una società che stava rapidamente cambiando e che di
lì apoco avrebbe vissuto i moti giovanili del 68.
La
forma della canzone, e la sua durata, rimarranno inizialmente le
stesse, ma con l'avvento del formato del long playing fu possibile,
lo fece soprattutto Léo Ferré, dilatare i tempi dei brani e
sperimentare nuove possibilità espressive. Anche il linguaggio fu
aperto a inedite suggestioni: il turpiloquio, che aveva già fatto
parte della canzone francese, e l'argot, il gergo parigino,
furono recuperati, ma la parola cruda della strada e del
sottoproletariato fu usata con una forza mai conosciuta prima, con
riferimenti diretti al sesso, alla morte, alla violenza.
Musicalmente
gli chansonniers presentavano un panorama estremamente composito,
utilizzando (dalle canzoni per voce e chitarra di Brassens,
apparentemente monotone ma in realtà ricche di riferimenti ai più
disparati generi, compreso il rock and roll, alle grandi
orchestrazioni di Ferré) sia i ritmi della canzone popolaresca che
quelli provenienti da altre tradizioni.
La canzone francese, per come l'abbiamo intravista, «muore», o meglio si esaurisce, con l'avvento della musica rock, che sacrifica la parola al suono amplificato, sostituisce «la voce urlata» al canto e richiede, in generale, testi più stringati e immediati: nonostante qualche felice connubio (lo straordinario Ferré con gli Zoo, ascoltabile anche in una bellissima versione in italiano), essa richiedeva tutt'altro tipo di ascolto e di contesto, e quelli che sono stati indicati come gli ultimi suoi rappresentanti (Renaud, Francis Lalanne, Bernard Lavilliers, ad esempio), pur bravi, sono già altra cosa.
La canzone francese, per come l'abbiamo intravista, «muore», o meglio si esaurisce, con l'avvento della musica rock, che sacrifica la parola al suono amplificato, sostituisce «la voce urlata» al canto e richiede, in generale, testi più stringati e immediati: nonostante qualche felice connubio (lo straordinario Ferré con gli Zoo, ascoltabile anche in una bellissima versione in italiano), essa richiedeva tutt'altro tipo di ascolto e di contesto, e quelli che sono stati indicati come gli ultimi suoi rappresentanti (Renaud, Francis Lalanne, Bernard Lavilliers, ad esempio), pur bravi, sono già altra cosa.
Alias - il manifesto, 9 luglio 2004
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