La “Repubblica”
pubblicò nell'ottobre del 1987, stralci da un taccuino di Carlo
Emilio Gadda escluso fino a quel momento dal Giornale di guerra e
di prigionia. La storia del
manoscritto veniva brevemente raccontata da Sandra Bonsanti nel testo
che segue, a mo' di appendice, il racconto, bellissimo, del tenente
Gadda. (S.L.L.)
Carlo Emilio Gadda in divisa da alpino |
IL NOSTRO ADDIO ALLE
ARMI
Notte del 23 sul 24
ottobre... Fummo svegliati da un sordo e intenso bombardamento nella
conca di Plezzo e verso il fondo valle Planina-Za Krain. Il ritmo era
quello d'un tiro violentissimo, tambureggiante. Pregai Sassella di
guardare le ore: erano le due. Il bombardamento non mi stupì
affatto: un senso misto d'impazienza per l'esito delle operazioni che
stavano per cominciare e di quasi rincrescimento che noi non fossimo
in grado di far qualcosa o di sopportar qualcosa, mi prese. Da noi
non arrivava per allora nessun colpo.
Ripresi un po' di sonno
fino alla luce. Il soldato Cattaneo e un altro andarono fino alla
vetta Krasji a prendere il caffè e me ne portarono un po', che
Sassella fece scaldare. Il bombardamento sul fondo valle a mattino
venne dissimulato da quello operato sulle nostre posizioni. Intanto
il cielo s'era rannuvolato e la montagna occupata da una fredda
nebbia.
Mattina del 24 ottobre,
fredda nebbia e nevischio. Il bombardamento veniva operato contro le
batterie 6a e 8a e verso la vetta del Krasji, non capivo lo scopo di
battere quest'ultima posizione, dove non c'era nessuno
(l'osservatorio d' Armata ecc. erano sul rovescio) ma credo che fosse
per rompere le comunicazioni telefoniche, ciò che infatti accadde. I
colpi erano da 75, da 65 e da 105; il fuoco era intensissimo. Esso
però non fu letale, perché i pezzi e le nostre mitragliatrici erano
in caverna... Io stetti pacifico nella mia casetta, poi andai a
trovare i miei serventi in galleria; poi andai da Cola in galleria,
sempre sotto il fuoco. Poi andai a veder sparare i pezzi della
batteria, che fecero un fuoco intensissimo contro il cocuzzolo del
Vorsic: sapemmo poi che un attacco nemico era stato tentato sulle
nostre posizioni del Vorsic, ma tosto respinto.
...Durante il pomeriggio
del 24 il fuoco rallentò, nelle prime ore, e poi riprese, violento.
Anche il fuoco delle nostre batterie, continuò. Io avevo le armi
postate, nella 1a e 2a feritoia (galleria e piazzola) e stavo un po'
presso l'una e un po' presso l'altra. Dopo il ritorno di Ranieri e
Guignet e la loro ambasciata, continuai a osservare la valle; ero
addolorato e inquieto; la nebbia impediva la vista dello Slatenik,
nonché delle antiche posizioni avversarie. Cercavamo con
inquietitudine il sottostante bosco con lo sguardo, ma la nebbia ci
permetteva di scorgere i primi alberi soltanto. Due specialmente
erano le mie afflizioni; quella di vedermi improvvisamente capitar
sotto gli austriaci, e quella di non avere le bombe a mano che erano
state promesse al comandante dell'8a; con delle buone bombe a mano mi
sarei sentito sicuro di difendere la nostra posizione. Temevo anche,
e ciò aumentava la mia responsabilità e difficoltà, di sparare sui
nostri perché non si dimentichi che sotto di noi correvano la prima
e seconda linea, e che nessun colpo di fucile si era sentito.
Avrei avuto ragione di
credere che le linee fossero ancora occupate dai nostri; ma il nessun
rumore e l'ambasciata di Ranieri mi fecero quasi certo di essere alla
prima linea. In tal caso il mio animo era pieno di amarezza, perché
con una sola sezione e con la fitta nebbia non potevo certo presumere
di tenere il Krasji. A destra c' era la 3a, ma a sinistra, verso la
6a batt. l'unico riparo era lo strapiombo. Tuttavia la coscienza del
mio dovere, sempre compiuto in 2 anni di guerra mi dette pace (per i
miei riguardi personali) in questo triste e difficile momento.
Finalmente, parendoci di aver scorto qualcosa muoversi nella valle,
eseguimmo alcune scariche con entrambe le armi, puntando a distanze
minori di 300-400 metri.
...Durante il fine
pomeriggio del giorno 24, seppi poi verso le 16 e mezzo, sentii una
grande eplosione; l'attribuii allo scoppio di qualche deposito di
munizioni, come m'accadde sul Carso a dolina Como, mentre di ben
altro si trattava. (Si trattò, probabilmente, delle cariche che
fecero saltare il ponte di Caporetto, ndr). Con me stette sempre il
mio attendente Sassella, il quale era triste, inquieto, nervoso. Si
direbbe presagisse. Io non potevo presagire e il motivo (si tenga ben
presente) era questo: avendo sottostato ai terribili concentramenti
d'artiglieria del Carso e di Magnaboschi, che duravano intere
giornate; e ricordando la nostra fucileria di Magnaboschi che faceva
per ore intere un unico suono fuso (non scoppiettio ma boato unico)
mi attendevo a qualcosa di simile qui, mentre non sentii nessuna
fucileria e il bombardamento fu violento ma non demolitore. Ero
dubbioso e speranzoso: tirando le somme, passai però una notte
terribilmente vigile e inquieta (ragione psicologica esatta che
ricordo con lucidezza perfetta).
(Notte del 24 sul 25
ottobre) ...Mandai Sassella a prendere il 2ø sacco a pelo, che m'
aveva portato giù la sera con la corvée del rancio e che aveva
lasciato in caverna di Cola. Poco dopo egli tornò con un altro,
recandomi l'ordine di ritirarmi dalla posizione il più presto
possibile. Quest'ordine mi fulminò, mi stordì: ricordo che la mia
mente fu percossa da un'idea come una scena e riempita da un lampo:
Lasciare il Monte Nero!; questa mitica rupe, costata tanto, e presso
di lei il Vrata, il Vrsic, lasciare, ritirarsi; dopo due anni di
sangue. Attraversai un momento di stupore demenziale, di accoramento
che m'annientò. Ma Sassella incalzava: Signor tenente, bisogna far
presto, ha detto il tenente Cola di far presto e incitò poi per
conto suo gli altri soldati. Mi riscossi: credo di non esser stato
dissimile dai cadaveri che la notte sola copriva. Diedi l'ordine a
Remondino, il vecchio alpino piemontese (cl. 90 o 91) che rimase pure
percosso, addolorato. Ma qui c'è qualche tradimento esclamò, ma non
è possibile. Poi andai nell'altra caverna e pur là diedi l'ordine.
Meticoloso come sono, volli curare che tutto fosse raccolto e portato
via: e in ciò persi del tempo: la caverna era stretta e buia, il
materiale (fucili, invogli, cassette coi pezzi di ricambio) la
ingombrava: i fucili, i cappotti, le maschere, gli elmetti,
tascapane, giberne, borraccia ingombrano estremamente il nostro
soldato, i fucili col mirino s' attaccano alle sporgenze rocciose:
nella fretta nasce sempre un po' di confusione. Ero attonito: i
soldati erano pure costernati. Come potei raccolsi tutta la sezione,
e a uno a uno li feci partire: Sassella chiamava. Io mi misi in coda,
col cuore spezzato, la mente fulminata dall'orribile pensiero della
ritirata, e andammo...
Gli artiglieri dell' 8a
batteria s' eran già ritirati, dopo aver guastato alla peggio i loro
pezzi, credo togliendo gli otturatori. Cola in testa, io in coda,
tutti a uno a uno, prendemmo la strada d'arroccamento con
l'intenzione di raggiungere Jezerca-Magozo e poi Ternova. L'ordine di
ritirata fu trasmesso all' 8a batt. dal Comando della Brigata Genova
oltre la mezzanotte perché lo comunicasse anche alle comp.
mitragliatrici. Noi lo ricevemmo verso le tre e solo verso le quattro
del mattino del 25 potemmo partire. Nella notte silenzio: bagliori in
fondo valle e talora grandi esplosioni: i nostri incendiavano
ritirandosi tutto ciò che potevano. Poco sotto trovammo il batt. Val
Chisone, che si ritirava ordinato; invece il... fant. si ritirava a
gruppi, ufficiali separati da soldati. Noi eravamo ordinatissimi e
nonostante i nostri soldati recassero sulle spalle le pesanti
mitragliatrici, sorpassammo gli altri. Cola e la 3a sezione in testa,
poi la 1a sezione, per esser sottomano a me, io ultimo in coda,
feroce sorvegliante che nessuno rimanesse. Il cuore era spezzato.
L'orrore e l'angoscia di quei terribili momenti dovevano esser
superati. Verso l' alba il tempo si rasserenò.
(Scritto fino al 21
novembre, con memoria freschissima dei partic.). 25 ottobre, tra le
11 e le 13,30... Mi raccolsi, nell' amarezza, e misurai la
situazione: un migliaio circa di fuggiaschi disordinati e privi d'
armi, cioè totalmente liberi da ogni peso, si pigiavano a rischio di
precipitare nel fiume verso la passerella. (Una passerella
improvvisata, larga una sola tavola, che permetteva il passaggio di
un solo uomo per volta, in circa 2 minuti, ndr); il fiume non poteva
guadarsi in alcun modo; l'Isonzo, sopra Tolmino e anche ad Auzza,
Canale ecc. ha un letto stretto (20 metri circa) e rive precipiti e
profonde (5-6 e più metri). Il fondo non è visibile, ma l'azzurro
cupo testimonia della profondità: la corrente è velocissima,
torrentizia. Insomma esso ha un carattere affatto diverso dagli altri
fiumi della pianura veneta, larghi, ghiaiosi, lenti. Un tal fiume, in
tal punto, non è guadabile in nessun modo, neppure a un nuotatore;
tanto meno poi vestito o con armi.
...D'altra parte il tempo
stringeva e l' affanno cresceva. Sentivo ormai a poco a poco
delinearsi il pericolo. Non in linea, non in posizione, dove avremmo
potuto batterci con onore e infliggere anche a un nemico
preponderante terribili perdite; ma dispersi in ritirata, fra una
folla di soldati sbandati! Come la sorte s' era atrocemente giocata
di me! Non l' onore del combattimento e della lotta, ma l'
umiliazione della ritirata, l' abbandono di tanta roba, e ora questo
maledetto Isonzo! questi ponti saltati.
...Cominciammo a
scendere, quando non so chi mi assicurò che Cola era ritornato e
nuovamente che il ponte di Ternova era distrutto. Allora decisi di
tornare alla passerella, unica speranza che ancor rimanesse. I
soldati mi seguirono istupiditi, con le mitragliatrici, stanchi,
forse ormai certi della nostra sorte. Io volevo sperare ancora, non
dico speravo. La necessità delle decisioni, la responsabilità di
condotta, mi tolse in quei momenti di soffrire troppo del vicino
pericolo. Riprendemmo ancora una volta il ciglio del fiume, nel bel
sole meridiano che la stanchezza e il dolore ci impedivano di
benedire, se bene ci riscaldasse dopo le lunghe piogge e la tormenta
della notte. Così marciando avvistammo sul bellissimo stradale della
sponda opposta una fila di soldati neri, che provenivano da
Caporetto, preceduti da alcuni a cavallo; il cuore mi s'allargò
pensando che fossero nostri rincalzi, e al momento quell'uniforme
nera mi fece pensare (che stupido) ai bersaglieri; non pensavo che
questi in combatt. hanno l'uniforme grigio verde. Al dubbio espresso
da alcuni gridai: Ma sono nostri rincalzi, che prendono posizione
sull' altra riva del fiume! e la cosa era logica, poiché, essendo
saltato il ponte di Caporetto, io immaginavo che i tedeschi fossero
innanzi a Caporetto, ma sempre sulla sinistra idrografica
dell'Isonzo! Mai più immaginavo la strada che fecero. Poco dopo, il
crepitio d'una mitragliatrice e qualche colpo di fucile: cominciai
allora a temere e intravedere la verità: i Tedeschi saliti da
Tolmino! Stanno per circondarci e pensavo che i colpi di
mitragliatrice segnassero una fazione, un combattimento tra
avanguardie salenti da Tolmino e nostre retroguardie dirette verso
Nord Ovest. Invece la mitragliatrice, come m'accorsi poi, crepitava
né più né meno contro i fuggiaschi della passerella.
...Intravidi ormai il
pericolo della prigionia, e affrettai il passo, per raggiungere Cola,
la passerella, non so che. L'ansia diveniva spasmodica. Disperavo di
trovar Cola, quando ci sentimmo chiamare, da poco sotto il ciglione!
Oh, finalmente si trovano i compagni. Scendemmo qualche decina di
metri e difatti trovammo Cola, con gli altri, seduti lì, sull'erba.
Gadda! Cola. Eh? Siamo qui. Mi ricordo esattamente che appena lo vidi
gli chiesi, e gli occhi mi luccicarono di pianto: Sono loro? Ma è
possibile? e non seppi dir altro, né far altro che piangere. Ah! è
orribile, è orribile esclamò Cola (parole precise). Più che se
fosse morto mio padre. Siamo finiti.
… I nostri passavano il
fiume arrendendosi: non c'era altro da fare. Allora decidemmo: di
star lì fino a notte, di guastare le armi, e di vedere di salvarci
nell'oscurità. Ma l'ostacolo del terribile, insuperabile Isonzo ci
sorgeva nella mente come uno spettro. Dove, come passarlo? Intanto ci
radunammo e ci riposammo; i 2 cucinieri che mi avevano seguito
divisero l'ultima volta il formaggio fra i presenti. Consigliammo ai
soldati di consumare i viveri, poiché, nella probabilità, ormai
grande, di cader prigionieri, non li dovessero dare ai tedeschi. Io
mangiai un po' di marmellata, offertami da Cola. Ero sfinito, ma
senza fame. Guardai ancora l'orribile fila dei tedeschi; la strada
non ne era più occupata, era ormai sgombra. Solo qualche gruppo, qua
e là. Cola strillò perché temeva mi mostrassi e ci sparassero: ma
purtroppo non spararono, si curavano poco di noi. Se avessero voluto
avrebbero potuto aprire il fuoco quando marciavamo in fila indiana
sul ciglio nudo e prativo, parallelamente e contrariamente a loro.
Poi mi sdraiai come giumento che più non vuol trarre le some
sull'erba, accasciato; le lacrime s'erano inaridite e un
istupidimento brutale mi teneva.
Nel fondo dell'anima
l'angoscia della prigionia e una speranza ultima di salvarci la
notte; ancora non guastavamo le armi. La cosa ci pesava; non so in
che speravamo. Vicino a me i miei migliori soldati: Raineri Andrea,
del ' 95, (venuto dall'America, di Menaggio) e Sassella Stefano, di
Grosio, il mio attendente, del '97. Erano essi pure costernati: già
uomini, sebbene giovanissimi; e intelligentissimi entrambi; sebbene
Sassella fosse un contadino, avevano la netta visione della sciagura
nazionale e personale. NON imprecavano a nulla, a nessuno, oppressi
dalla realtà presente. Sassella, con la sua inquietudine nella
notte, e con la sua tristezza, era stato presago: egli sarebbe stato
all'Ospedale se (per devozione a me non lo fece) avesse marcato
visita a Clodig. Invece mi seguì, sebbene malato di febbre reumatica
e brutto di ciera, e fu preso! Poveretto. Gli altri soldati tutti
erano angosciati; tutti rispettosi, ancora, nessuno disapprovò
l'invito nostro di attendere la notte. Solo alcuni, più paurosi,
avrebbero voluto darsi prigionieri subito. Il nostro animo era in uno
stato di dubbio angoscioso; il quale andava a mano a mano
tramutandosi nella certezza orribile della prigionia. Il fischietto
degli ufficiali tedeschi che ordinavano l'avanzata ai loro, verso i
monti di là dal fiume ci giungeva distinto. Ancora si fece sentire
qualche colpo di fucile, qualche breve scarica di mitragliatrice,
credo contro qualche tentativo di fuga. Noi eravamo di qui d'un fiume
invalicabile, senza ponti: i tedeschi, avendo sfondato a Plezzo e
Tolmino, s'erano già tra loro allacciati di là dal fiume: a
Caporetto c'erano; a Drezenca c'erano già, scesi dal Mrzli. Noi
eravamo esausti di forze e d' animo, accasciati, quasi digiuni. Ma
sopra tutto l'impossibilità di passare l'Isonzo. Io e Cola pensammo
quindi ormai inutile il prolungare le nostre speranze; sarebbe stato
puerile. De Candido uscì con un fazzoletto bianco, mentre io e
Raineri guastavamo le armi della mia sezione, asportandone e
disperdendone la culatta mobile, il percussore e altri pezzi. Che
dolore, che umiliazione, che pianto nell'anima anche in quest'atto
ormai inevitabile. L'ufficiale che a Torino aveva fatto il possibile
per assicurare all'esercito il funzionamento di un ottimo reparto,
dover gettare così le sue armi, lasciarle lì, negli arbusti! Io
gettai anche la mia rivoltella e tutti lasciarono i fucili, lì
dov'erano; poi in fila indiana, in ordine, dopo De Candido, Cola, poi
tutti i soldati, io ultimo, in coda, scendemmo per la boscaglia alla
passerella: nessuno più vi si trovava: tutto era deserto, lì tutti
ormai avevano già fatto l' inevitabile passo. Ai piedi della
passerella il flutto travolgente, brutale dell'Isonzo lambiva un
mucchio di fucili, mitragliatrici Fiat, nastri, roba, ecc. lasciata
nella resa. Di là la sentinella tedesca ci guardava passare,
osservando che non avessimo armi. Altre sentinelle armate custodivano
i prigionieri, raccolti nel prato soprastante, il prato dell'adunata
delle 13,20 del 25 ottobre. La passerella fu passata uno a uno;
reggendo i primi il cavo metallico che a sinistra serviva di
ringhiera. Tutti passavano lentamente, con gran precauzione per non
scivolare nel fiume; il ponticello arcuato mi costrinse a sedermi,
poiché gli scarponi chiodati scivolavano sull'asse. Giunto a metà,
mi levai e proseguii ritto. Passai di là col viso accigliato;
assorto e istupidito più che altro. Tra il branco adunato avanti le
sentinelle tedesche qualcuno non dissimulava la tranquillità per lo
scampato pericolo. Io guardai la sentinella, che non offerse nulla di
notevole alla mia curiosità: ritta, seria, quasi accigliata.
Nel prato, sopra un
sasso, una scatoletta di carne che qualche prigioniero aveva offerto
a un tedesco per propiziarselo: appena questo tedesco si voltò io
gli feci sparire la scatoletta, e me la mangiai con molta fame e con
una gioia satanica. Erano le 13,20 del 25 ottobre 1917; le sentinelle
tedesche tutte armate, con baionetta; facciamo sul prato l' ultima
adunata, l' ultima chiamata. Poi ci venne ordinato a me e Cola, di
incamminarci con gli attendenti, verso Caporetto, lasciando i
soldati. Col pianto negli occhi e nel cuore mi congedai da ciascuno,
stringendo a tutti la mano.
...A un nuovo bivio, dove
un ramo della strada prosegue per Tolmino, l'altro per Cividale,
ebbimo l'ultimo desiderio e tentativo di fuga. Ci fermammo un momento
e io feci la proposta: dobbiamo prendere per Cividale? I compagni non
la trovarono attuabile: la tema delle sevizie tedesche contro noi
quattro inermi valse pure a farci desistere. E poi la sentinella
sopraggiungeva. Avanti, allora, verso Tolmino. Io, Cola, Sassella, De
Candido. Finiva così la nostra vita di soldati e di bravi soldati,
finivano i sogni più belli le speranze più generose dell'
adolescenza: con la visione della patria straziata, con la nostra
vergogna di vinti iniziammo il calvario della dura prigionia, della
fame, dei maltrattamenti, della miseria, del sudiciume. Ma ciò fa
parte di un altro capitolo della mia povera vita, e questo martirio
non ha alcun interesse per gli altri. (Dal taccuino inedito di
Carlo Emilio Gadda)
Prigionieri italiani dopo Caporetto |
Appendice
Storia di un
manoscritto 'indecifrabile'
Settant'anni fa il
tenente degli alpini Carlo Emilio Gadda fu travolto con la sua
compagnia di mitraglieri nella disfatta di Caporetto. Mentre la
battaglia infuriava e al momento stesso della resa (ore 13,20 del 25
ottobre 1917) al di là della passerella sull'Isonzo nel prato dove i
tedeschi assistevano all'ultima adunata dei nostri prigionieri, Gadda
segnò su un taccuino alcuni appunti. Dieci giorni dopo, nel campo di
concentramento di Rastatt cominciò a redigere il diario-cronaca di
quei giorni e della sconfitta, continuando l'uso seguito per tutta la
durata della guerra e mantenuto poi durante tutta la prigionia.
Finché visse, Gadda non
volle che questo taccuino vedesse mai la luce. In esso erano narrati
i momenti di una tragedia nazionale che lui continuò a soffrire come
sua propria. Ma soprattutto egli sapeva, e temeva, che la descrizione
di quella tragedia stessa, col ricordo ancora vivissimo e preciso,
avrebbe potuto rinverdire le polemiche sulle responsabilità della
disfatta, sul grado di conoscenza da parte dei Comandi del disastro
cui le nostre truppe andavano incontro. Così Gadda affidò il
taccuino più prezioso del suo Giornale di prigionia a mio
padre, Alessandro Bonsanti, che lo custodì e lo fece copiare da mia
madre. Un lavoro molto difficile: il tenente prigioniero degli
austriaci aveva escogitato molte piccole e grandi astuzie per
impedire loro di leggere il testo, qualora ne fossero venuti in
possesso.
Mio padre, sopravvissuto
a Gadda per dieci anni, ritenne vincolante anche per sé il desiderio
del suo grande amico; così come non volle mai pubblicare le lettere
che testimoniano la storia della loro amicizia. Il settantesimo
anniversario di quella data sacra per l' Italia, e l'imminente
pubblicazione da parte dell'editore Garzanti dell'opera omnia di
Carlo Emilio Gadda, hanno convinto mia madre, mio fratello e me che
non fosse possibile aspettare oltre.
La storia di quel
supplizio, che segnò per sempre la vita e i pensieri dello
scrittore, completano quel Giornale di guerra e di prigionia
che, come accadde per diverse altre opere, Gadda si decise a
pubblicare soltanto negli anni Cinquanta per le insistenze di mio
padre che riuscì, come ha scritto Silvio Guarnieri, a vincere
miracolosamente le reticenze e i timori dell'amico. I due scrittori,
oltre che dalla grande amicizia, furono legati anche dal segreto di
Caporetto. Finché gli fu consentito, mio padre curò le angosce
dell' amico, che così violente dovevano riemergere quando i tedeschi
ricomparvero nella sua vita. Le sofferenze del '17-'18, la fame, le
morti di allora tormentarono Gadda nel ' 44, nei giorni fiorentini
dell'occupazione tedesca, quando sotto le bombe attraversava la città
per dividere con noi la zuppa di rape nei sotterranei del Vieusseux,
a Palazzo Strozzi. La sofferenza di quell'uomo così grande e così
impacciato, il tormento del suo sguardo trovano nella lettura della
cronaca di Caporetto una spiegazione definitiva.
Pochi giorni dopo la
morte di Gadda, nel '73, mio padre scrisse: Bisogna adattarsi a
considerarsi postumi degli amici oltreché di se stessi; chi si
dispone di fronte a Gadda come se tutto fosse cominciato trent' anni
fa, è nato alla storia in quel momento, e niente è più difficile
del resto di convincere la gente che il mondo esisteva anche prima.
La domanda essenziale è: capiranno meglio i nuovi, i freschi, coloro
che si pongono davanti al fenomeno liberi dai preconcetti d'un
passato cui non parteciparono? I vecchi amici, come i familiari,
possono diventare l' ingombro più pesante. Si dice tante volte:
vorrei arrivare per la prima volta da turista in questa città dove
sono nato e abito da sempre, e sappiamo che è un desiderio
irrealizzabile. Purtroppo, un Gadda inedito non potremo mai
conoscerlo, noi che venimmo su con lui e delibammo parola per parola
sul loro nascere scritti e idiosincrasie. (SANDRA BONSANTI)
“la Repubblica”, 21
ottobre 1987
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