In occasione della prima
guerra del Golfo, nel 1990, “il manifesto” pubblicò una serie di
schede dal titolo Le lezioni del Golfo,
che affrontavano i temi di quella guerra. In ciascuna di esse veniva
affidata alla riflessione di intellettuali di prestigio una
parola-chiave, di quelle usate (o anche abusate) in quei mesi di
guerra. A Franco Rella, docente e studioso di estetica sulla linea di
Benjamin e Bataille, che tra l'altro si è occupato più volte del
personaggio di Edipo, venne affidata la voce Tragedia.
E'
utile ricordare che la sua riflessione, come le altre di quella
rubrica Parole
Chiave, si svolge a un livello di astrazione piuttosto alto
e non presenta nessun collegamento immediato con la guerra
mesopotamica.
(S.L.L.)
Una scena dalle Baccanti al Teatro Greco di Siracusa (Edizione 2014) |
La tragedia non è un
genere letterario tra gli altri, a fianco dell'epica, della lirica,
della commedia, come ci hanno insegnato a scuola. Non è nemmeno,
come è invalso nel linguaggio comune, sinonimo di un evento efferato
o luttuoso. La tragedia è una delle più grandi creazioni dello
spirito umano: una creazione specificatamente greca, insieme alla
democrazia e alla filosofia, che fioriscono contemporaneamente nel V
secolo a.C..
Certo, nell'opera
tragica, abbiamo per lo più la rappresentazione di eventi terribili,
perché terribile è la vita dell'uomo presa in un'incertezza senza
fine, perché tutto ciò che è, come aveva detto Eraclito, il
pensatore che in qualche modo annuncia il tragico, avviene-giunge
all'essere, alla sua esistenza attraverso la contesa. Il Logos (la
ragione, e il linguaggio in cui questa ragione si esprime) di
Eraclito, come quello dei tragici è il logos dei contrari retti,
nella loro reciproca tensione, da Dike, la giustizia. La sapienza
dell'uomo è il luogo di questi contrari, per cui se tutto ha misura,
l'uomo che sta in mezzo a questi contrari, alla luce e alla notte,
alla vita e alla morte, è «smisurato». Così recita il Coro
dell'Antigone: «Molte sono le cose smisurate / ma nessuna è
smisurata come l'uomo». Per questo il logos dell'anima umana, come
ha detto Eraclito, è così profondo che non potrai trovare i suoi
confini per quante strade tu possa percorrere. Il destino umano è
dunque quello di essere la ragione della contesa attraverso cui le
cose giungono al loro essere. La sua «insicurezza» è dunque, in un
certo senso, la salvaguardia dell'esistenza stessa del mondo come
pluralità, come differenza. Per questo nessuno, nemmeno il dio degli
oracoli, può ridurre questa incertezza, e infatti, come ha detto
ancora Eraclito, egli non afferma né nega, ma dà segni.
L'uomo non è certo
nemmeno del nome di dio. Ma proprio in questa incertezza cresce il
suo sapere. Lo afferma Eschilo nel grande coro dell'Agamennone:
«Zeus, qualunque egli sia, se pure questo nome gli è gradito, con
questo io lo invoco...Egli ha aperto ai mortali le vie della sapienza
(phronein), fissando questa legge: 'attraverso la passione il
sapere (mathos)'. Anche nel sonno, davanti al cuore che stilla
affanno, che ha memoria del dolore, anche a chi non vuole, tocca la
saggezza (sophronein)». La phronesis, ovvero l'intelligenza
umana, il mathos, ovvero il sapere in senso proprio, la
sophrosyne, ovvero la sapienza assoluta, nascono di faccia
alla pathos: alla passione del mondo.
E' su questo punto che
Platone, e tutta la filosofia, aprirà un'immensa battaglia contro la
tragedia, in favore di un sapere certo e immutabile che escluda da sé
ogni incertezza, ogni antinomia, ogni ambiguità. Per il tragico,
viceversa, questo sapere che rifiuta la diversità è un sapere
funzionale al potere, che è, nella prospettiva tragica, «malsano»
(Euripide, Baccanti, vv. 309 e sgg.). Quando un uomo ha
potere, scrive ancora Euripide (Baccanti, 270-271) «anche se
sa parlare bene diventa un cittadino cattivo»). Quindi, abbiamo che
la tragedia esprime un sapere e un'etica. Un sapere legato al dolore
e alla passione umana, all'esperienza, e una morale che rifiuta la
semplificazione della contesa e delle contraddizioni attraverso un
atto della ragione o del potere che annulli uno dei termini del
conflitto stesso. Ma la tragedia non si limita a riflettere
l'antinomia del mondo, viva nei conflitti delle democrazie greche è
attiva nell'aprire il conflitto là dove questo si è chiuso. L'eroe
tragico vive in una
situazione di «atopia» di «extraterritorialità» che mette in
discussione le leggi attraverso cui la società ha stabilito In
frontiera tra l'umano o il divino, tra la vita e la morte, tra il
civilizzato e il selvaggio, fra suddito e potente. La linea di
frontiera si fluidifica, diventa una soglia attraverso cui transita
nuovamente ciò che era stato escluso. Questo lo vediamo
particolarmente in Edipo, che è sempre «straniero», e soprattutto
in Antigone che spinge la sua extraterritorialità fino all'assoluto:
«La mia dimora non è tra gli uomini o tra le ombre; non è tra i
vivi o tra i morti» (vv. 850-853).
Lo vediamo nel grande
dialogo tra Antigone e Creonte, in cui tutte queste antinomie sono
messe in gioco. La tragedia finisce alla fine del V secolo. Secondo
Nietzsche, con l'Edipo a Colono di Sofocle e con Le
Baccanti di Euripide. Nietzsche ha ragione, e infatti nell'Edipo
a Colono Edipo lo straniero che rende le cose straniere mettendo
in discussione ogni confine, diventa il confine e la frontiera sacra
e intoccabile di Atene. Nelle Baccanti Euripide estremizza la
tragedia al punto che la contraddizione diventa invisibile, in quanto
tutto si fonde in una oscillazione senza fine.
Ma se la tragedia muore
alla fine del V secolo, con la crisi della democrazia ateniese e con
il trionfo della filosofia, essa rinasce continuamente. Rinasce ogni
volta che in luogo di un sapere e di un potere viene proposta una
visione aperta, plurale, contraddittoria, e per questo vitale, del
mondo e della vita. Hegel ha dovuto ripercorrere la tragedia per
esprimere un pensiero all'altezza del suo tempo, un pensiero che si
ponesse di faccia alle contraddizioni del suo tempo. Holderlin
traduce l'Edipo re, traduce l'Antigone. Nella tragedia
scopre la possibilità di dire l'inesprimibile, anche l'inesprimibile
della gioia, che il linguaggio della concettualità filosofica non
gli permetteva di dire. Scopre anche il segreto della tragedia e lo
consegna alla modernità: la prima parola della sua traduzione
dell'Antigone è Gemeinsam-schwesterliches: un mostro
anche per la lingua tedesca, per ogni lingua: questa parola infatti
esprime una possibilità, inesplorata dall'uomo, di vivere i rapporti
al di fuori della violenza in «ciò che è sororale comunità».
E' con questo livello di
coscienza tragica che Dostoevskij interroga le teodicee laiche e
religiose, e che risuona oggi nelle coscienze dei giovani. Il più
perfetto degli ordini, instaurato sul dolore di un solo bambino, è
in grado di riparare questo dolore? Che rapporto esiste tra
quell'ordine e questo dolore? La domanda non ha una risposta facile,
ma può essere elusa soltanto da un potere «malsano». E' questa
coscienza che è nelle coscienze più alte del nostro secolo, per
esempio in Simone Weil e in Walter Benjamin, che pure si sono opposti
al nazismo fino al sacrificio. Uno sguardo interamente umano sul
mondo non può prescindere dalla coscienza tragica, da quella
coscienza che ci desitua dalle nostre ragioni abituali e che ci
obbliga al confronto con tutte le ragioni possibili.
il manifesto-schede: Le lezioni del Golfo 6, senza data ma 1990
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