Le Lezioni americane
di Calvino,
opera forse intenzionalmente testamentaria, sono nella loro brevità
una miniera di pregnanti riflessioni e di preziose intuizioni, tali
da originare una grande varietà di letture. Io ho trovato molto
interessante questa di Asor Rosa da “Repubblica” che volentieri
posto per mia e altrui utilità. (S.L.L.)
Delle Lezioni
americane di Italo Calvino (Sei proposte per il prossimo
millennio, Garzanti) ha già discorso a lungo, e con grande
penetrazione, Eugenio Scalfari su queste pagine (la Repubblica, 2
giugno 1988). Mi pare però che la straordinaria rilevanza dell'opera
autorizzi a tornarvi su, anche a breve distanza di tempo, tentando di
fornire alcuni altri elementi di riflessione. Il punto su cui io
vorrei attirare in modo particolare l'attenzione è che Calvino, in
questi suoi saggi (cinque effettivamente realizzati: Leggerezza,
Rapidità, Esattezza, Visibilità, Molteplicità;
e uno soltanto pensato: Consistenza), fa essenzialmente un
discorso sulla letteratura: sulla letteratura del passato e del
presente, ovviamente, ma per farne come un dono, un lascito, alla
letteratura del futuro: quella, appunto, del prossimo millennio. A me
pare che gli svolgimenti e gli snodi della sua argomentazione
consentano d'individuare nelle conferenze di Calvino almeno tre piani
di discorso, strettamente intrecciati fra loro, s'intende, ma dotati
anche di una loro autonoma valenza culturale, teorica ed
esistenziale. Vediamo di descriverli il più chiaramente possibile.
Il primo è quello che
riguarda la funzione della letteratura in generale e le
caratteristiche che essa deve assumere o conservare per poterla
degnamente svolgere. Calvino avverte fortissima la percezione d'un
mutamento che si sta sviluppando in questi ultimi decenni: “Il
millennio che sta per chiudersi ha visto nascere ed espandersi le
lingue moderne dell'Occidente e le letterature che di queste lingue
hanno esplorato le possibilità espressive e cognitive e
immaginative”. In questo quadro di lunga durata nitidamente si
colloca il messaggio che lo scrittore Calvino vorrebbe far giungere
ai posteri: “La mia fiducia nella letteratura consiste nel sapere
che ci sono cose che solo la letteratura può dare coi suoi mezzi
specifici”.
Ecco, questo è molto
importante, anzi decisivo: le qualità o specificità della
letteratura, di cui Calvino parla in queste sue conferenze
(Leggerezza, Rapidità, Esattezza, ecc.), sono quei tali modi
d'esprimersi attraverso la scrittura o, meglio, attraverso i segni
della scrittura, che riescono a dire e a trasmettere cose, che nessun
altro strumento di comunicazione e di espressione riuscirebbe mai a
dire e a trasmettere. Vorrei fare due osservazioni.
L'anima magica
Innanzi tutto, appare
evidente che Calvino fa appello in questo libro (un appello supremo,
è ben il caso di dirlo) ad una nozione perenne di letteratura, che
si perpetua dalle più antiche età fino ai giorni nostri, e non a
caso affonda le radici in una condizione antropologica. In qualche
modo la produzione di letteratura si collega per lui ad un qualche
tipo di esperienza magica (anche se poi interviene la mente colta
dello scrittore a razionalizzarla e a chiarirla). Infatti, nel saggio
sulla Leggerezza Calvino scrive: “Credo che sia una costante
antropologica questo nesso tra levitazione desiderata e privazione
sofferta. E' questo dispositivo antropologico che la letteratura
perpetua”.
Questo, se non erro, è
un modo moderno d'esprimere una visione classica, della Letteratura.
Ed è per me motivo di grande e appassionato interesse scoprire che
il grande scrittore novecentesco Calvino, sulla soglia dell'ultima
esperienza, rivela dietro l'aerea e mutevole grazia del suo
acrobatico gioco stilistico e del suo sperimentalismo senza fine,
questo solido, inconfutabile fondo classico, che è poi, a sua volta,
un modo (del tutto implicito, beninteso) di porre la propria
autocandidatura ad entrare nel canone dei classici.
Le specificità della
letteratura, di cui Calvino parla, non sono storicamente determinate
né determinabili. Storicamente determinate e determinabili sono,
ovviamente, le caratteristiche stilistiche e le particolarità
tematiche: ma le caratteristiche stilistiche e le particolarità
tematiche non impediscono la perenne ri-proposizione di una vocazione
più profonda, che consiste in un certo modo di rapportarsi dello
scrittore all'essere del mondo (leggerezza contro pesantezza,
rapidità contro perdita di tempo e dis-economicità, esattezza
contro imprecisione e confusione, e così via). Come tutti i
classicismi, anche questo può sfociare, da una parte, in una
retorica (per quanto alta), ma dall'altra può giustificare la
connessione (che nel classicismo è essenziale, mentre in qualsiasi
romanticismo molto meno) tra l'opera e la vita, o, per meglio dire,
tra l'operazione di scrittura (il magico del segno) e i geroglifici
profondi incorporati nell'essere (il magico dell'anima). Questa
seconda è la strada di Calvino: non a caso egli parla della
“letteratura come funzione esistenziale” e della “ricerca della
leggerezza come reazione al peso di vivere”.
La seconda osservazione è
che questo classicismo calviniano (se davvero vogliamo denominarlo
così), invece di comporsi in una visione serena ed armonica del
mondo, avverte drammaticamente il conflitto, l'impatto, con
l'esaurimento delle ragioni, non solo stilistiche e formali, ma
antropologiche ed esistenziali (appunto) di una funzione della
letteratura così intesa. Calvino, una volta che la sua
reincarnazione con questo cavaliere della tradizione si sia compiuta,
scopre tutto il disagio di una condizione, che rischia d' apparire
(nonostante tutte le apparenze dell' affermazione e del successo)
quella di un assediato e di un isolato. Quasi in ognuna delle
conferenze, il compito della letteratura è delineato in
contrapposizione ad uno sfondo, in cui il valore postulato appare
negato dall' inesorabile sviluppo dei dati oggettivi (sicché, al
tempo stesso, qualsiasi constatazione dell' avanzata del dato morto,
oggettivo, corrisponde da parte di Calvino ad un rilancio, ad una
rivendicazione della funzione della letteratura in chiave
etico-critica e ricostruttiva).
Il caos del mondo
Calvino parla di “una
crosta uniforme e omogenea, di parole, di una peste del linguaggio,
di un deposito di spazzatura” d'immagini: con niente di meno si
misura oggi l'idea di letteratura, che egli espone in questi saggi. E
non è cosa, questa, che possa limitarsi ad una degenerazione
puramente interna, solo letteraria.
Al contrario, è qui, su
questo terreno franoso e instabile, che ricompare ancora una volta la
connessione, tragica connessione, a guardar bene, tra mondo dei segni
e mondo reale, ed è qui che ancora una volta la letteratura
ricompare a far da ultimo argine alla dissoluzione in atto. Infatti:
“Ma forse l'inconsistenza non è nelle immagini o nel linguaggio
soltanto: è nel mondo. La peste colpisce anche la vita delle persone
e la storia delle nazioni, rende tutte le storie informi, casuali,
confuse, senza principio né fine. Il mio disagio è per la perdita
di forma che constato nella vita, e a cui cerco d'opporre l'unica
difesa che riesco a concepire: un'idea della letteratura”. Anche
questa valorizzazione della letteratura come unico rimedio e riparo
al caos del mondo è inequivocabilmente classica.
Proprio di qui si passa
al secondo piano del discorso: quello che riguarda la poetica
personale dello scrittore nel quadro generale della sua idea di
letteratura. Si potrebbe dire, in sostanza, che fare letteratura ha
significato per Calvino un inesausto, e faticoso (ahi, quanto
faticoso) fronteggiamento del caos del mondo con gli strumenti
ordinatori e riparatori fornitigli dai segni e un tentativo di
ridurre l'inesauribile polimorfismo dell'essere all'equilibrato ed
elegante giro di una frase. Impresa angosciante e di per sé senza
fine, come senza fine è qualsiasi reductio alla forma
dell'informe; e impresa, per giunta, che Calvino affronta dilaniato
fin dall' inizio da un'incertezza profonda, da una tormentata
irresolutezza.
Già in altre occasioni
ho parlato, a proposito di Calvino, di poetica oscillatoria, e non
tornerò qui a lungo sull'argomento. Ma non posso fare a meno di
segnalare che le Lezioni americane sono tutte fondate sulla
definitiva e chiarissima esplicitazione di questo motivo: “In
realtà sempre la mia scrittura si è trovata di fronte due strade
divergenti che corrispondono a due diversi tipi di conoscenza: una
che si muove nello spazio mentale di una razionalità scorporata...;
l' altra che si muove in uno spazio gremito d'oggetti e cerca di
creare un equivalente verbale di quello spazio, riempiendo la pagina
di parole... Sono due diverse pulsioni verso l'esattezza che non
arriveranno mai alla soddisfazione assoluta... Tra queste due strade
io oscillo continuamente e quando sento d'aver esplorato al massimo
le possibilità dell'una mi butto sull'altra e viceversa...”.
Ora, la tesi che io mi
sento di sostenere è che questo arduo tentativo di combinare in una
figura geometrica nitida e perfettamente leggibile l'oscillazione del
pendolo con l'inseguimento perpetuo delle cose a mezzo di parole non
riguarda solo la concezione che Calvino manifesta della letteratura e
della propria personale poetica ma esprime la sua personale angoscia
di essere (e questo è il terzo piano di discorso presente
nell'opera). Angoscia di essere? Sì, angoscia di essere.
L'oscillazione della poetica e l'ossessione dell'inseguimento sono
soltanto il riflesso, in superficie, dell'intima oscillazione tra la
fascinazione dell'oscuro, del magmatico e del profondo, e il richiamo
razionale al controllo, alla distinzione, all'obbiettività: al di là
di questa oscillazione, o ancora più in profondità, c'è
l'istintivo appello alla funzione salvifica della parola (la difesa
della letteratura), che si muove perpetuamente verso un lontano luogo
oscuro il luogo dell' assenza o del desiderio senza sperare di
poterlo raggiungere mai. C'è un percorso, dunque, che Calvino compie
dentro di sé: dalla contemplazione, il più possibile precisa ed
obbiettiva, del polimorfismo del mondo alla moltiplicazione dell'io,
alla infinita serie delle combinatorie astratte e geometriche. Ma
oltre la moltiplicazione dell'io e proprio quando la moltiplicazione
dell'io ha raggiunto il suo culmine, il suo punto estremo risorge il
fascino della pietrificazione, della naturalizzazione dell'io: il
farsi cosa dell'umano: “Ma forse la risposta che mi sta più a
cuore dare è un'altra: magari fosse possibile un'opera concepita al
di fuori del self, un'opera che ci permettesse di uscire dalla
prospettiva limitata di un io individuale, non solo per entrare in
altri io simili al nostro, ma per far parlare ciò che non ha parola,
l'uccello che si posa sulla grondaia, l'albero in primavera e
l'albero in autunno, la pietra, il cemento, la plastica...”.
Sono con il finale
richiamo a Ovidio e Lucrezio le parole che si son trovate,
casualmente, a chiudere questo libro. Ma non a caso, mi pare, questi
motivi sono gli stessi che ritornano continuamente in Palomar
(si pensi, ad esempio, a Il mondo guarda il mondo). Oltre la
soglia della propria maturità, Calvino scopre o per meglio dire
avvista il punto in cui l'uso della scrittura coincide con la sua
dissoluzione e il massimo della significazione coincide con il
massimo dell'assenza: l'identificazione, ora, dell'io nell'albero,
nella pietra, nel cemento, nella plastica, ossia l'identificazione
dell'io con il non-io, dell'esserci con il non-esserci.
Nulla di buono
La riflessione sulla
letteratura, e sul proprio personale modo di concepire la
letteratura, si trasforma (quasi senza volerlo) in una riflessione
sulla morte: sull'esserci che continuamente si tramuta e
continuamente sbocca nel non-esserci. Leggerezza, Rapidità,
Esattezza, Visibilità, Molteplicità e... Consistenza sono dunque le
forme di una geografia della difesa, dell'esserci qui ed ora in
atteggiamento vigile e preordinato. Ma la loro trama si stacca
dall'opacità biologica solo perché colui che la intesse sa di non
essere niente di più di uno spericolato funambolo che collega fili
su di un vuoto sterminato: un fragile ponte di fortuna gettato sul
vuoto. E la ricerca della leggerezza è, sì, reazione al peso del
vivere, ma anche, e forse più profondamente, reazione al peso del
morire, reazione al peso del continuo morire, di cui tutti noi siamo
fatti.
Il disagio intimo di
Calvino precipita dunque sul disagio della civiltà, che egli così
acutamente percepisce, e finisce per confondersi con esso. Il
prossimo millennio non lascia presagire nulla di buono, e quello
passato emana un sentore di morte. Fra questi due estremi la
letteratura si presenta per Calvino come l'Angelo di Klee (o di
Benjamin), che guarda indietro, perché sa di non poter guardare
avanti: ma va, animata da un sogno millenario, va, almeno fino a
quando la tempra di scrittori come Calvino non sarà estinta.
“la Repubblica”, 2
agosto 1988
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