6.11.14

Sulle “Lezioni americane” di Italo Calvino (Alberto Asor Rosa)

Le Lezioni americane di Calvino, opera forse intenzionalmente testamentaria, sono nella loro brevità una miniera di pregnanti riflessioni e di preziose intuizioni, tali da originare una grande varietà di letture. Io ho trovato molto interessante questa di Asor Rosa da “Repubblica” che volentieri posto per mia e altrui utilità. (S.L.L.)
Delle Lezioni americane di Italo Calvino (Sei proposte per il prossimo millennio, Garzanti) ha già discorso a lungo, e con grande penetrazione, Eugenio Scalfari su queste pagine (la Repubblica, 2 giugno 1988). Mi pare però che la straordinaria rilevanza dell'opera autorizzi a tornarvi su, anche a breve distanza di tempo, tentando di fornire alcuni altri elementi di riflessione. Il punto su cui io vorrei attirare in modo particolare l'attenzione è che Calvino, in questi suoi saggi (cinque effettivamente realizzati: Leggerezza, Rapidità, Esattezza, Visibilità, Molteplicità; e uno soltanto pensato: Consistenza), fa essenzialmente un discorso sulla letteratura: sulla letteratura del passato e del presente, ovviamente, ma per farne come un dono, un lascito, alla letteratura del futuro: quella, appunto, del prossimo millennio. A me pare che gli svolgimenti e gli snodi della sua argomentazione consentano d'individuare nelle conferenze di Calvino almeno tre piani di discorso, strettamente intrecciati fra loro, s'intende, ma dotati anche di una loro autonoma valenza culturale, teorica ed esistenziale. Vediamo di descriverli il più chiaramente possibile.
Il primo è quello che riguarda la funzione della letteratura in generale e le caratteristiche che essa deve assumere o conservare per poterla degnamente svolgere. Calvino avverte fortissima la percezione d'un mutamento che si sta sviluppando in questi ultimi decenni: “Il millennio che sta per chiudersi ha visto nascere ed espandersi le lingue moderne dell'Occidente e le letterature che di queste lingue hanno esplorato le possibilità espressive e cognitive e immaginative”. In questo quadro di lunga durata nitidamente si colloca il messaggio che lo scrittore Calvino vorrebbe far giungere ai posteri: “La mia fiducia nella letteratura consiste nel sapere che ci sono cose che solo la letteratura può dare coi suoi mezzi specifici”.
Ecco, questo è molto importante, anzi decisivo: le qualità o specificità della letteratura, di cui Calvino parla in queste sue conferenze (Leggerezza, Rapidità, Esattezza, ecc.), sono quei tali modi d'esprimersi attraverso la scrittura o, meglio, attraverso i segni della scrittura, che riescono a dire e a trasmettere cose, che nessun altro strumento di comunicazione e di espressione riuscirebbe mai a dire e a trasmettere. Vorrei fare due osservazioni.

L'anima magica
Innanzi tutto, appare evidente che Calvino fa appello in questo libro (un appello supremo, è ben il caso di dirlo) ad una nozione perenne di letteratura, che si perpetua dalle più antiche età fino ai giorni nostri, e non a caso affonda le radici in una condizione antropologica. In qualche modo la produzione di letteratura si collega per lui ad un qualche tipo di esperienza magica (anche se poi interviene la mente colta dello scrittore a razionalizzarla e a chiarirla). Infatti, nel saggio sulla Leggerezza Calvino scrive: “Credo che sia una costante antropologica questo nesso tra levitazione desiderata e privazione sofferta. E' questo dispositivo antropologico che la letteratura perpetua”.
Questo, se non erro, è un modo moderno d'esprimere una visione classica, della Letteratura. Ed è per me motivo di grande e appassionato interesse scoprire che il grande scrittore novecentesco Calvino, sulla soglia dell'ultima esperienza, rivela dietro l'aerea e mutevole grazia del suo acrobatico gioco stilistico e del suo sperimentalismo senza fine, questo solido, inconfutabile fondo classico, che è poi, a sua volta, un modo (del tutto implicito, beninteso) di porre la propria autocandidatura ad entrare nel canone dei classici.
Le specificità della letteratura, di cui Calvino parla, non sono storicamente determinate né determinabili. Storicamente determinate e determinabili sono, ovviamente, le caratteristiche stilistiche e le particolarità tematiche: ma le caratteristiche stilistiche e le particolarità tematiche non impediscono la perenne ri-proposizione di una vocazione più profonda, che consiste in un certo modo di rapportarsi dello scrittore all'essere del mondo (leggerezza contro pesantezza, rapidità contro perdita di tempo e dis-economicità, esattezza contro imprecisione e confusione, e così via). Come tutti i classicismi, anche questo può sfociare, da una parte, in una retorica (per quanto alta), ma dall'altra può giustificare la connessione (che nel classicismo è essenziale, mentre in qualsiasi romanticismo molto meno) tra l'opera e la vita, o, per meglio dire, tra l'operazione di scrittura (il magico del segno) e i geroglifici profondi incorporati nell'essere (il magico dell'anima). Questa seconda è la strada di Calvino: non a caso egli parla della “letteratura come funzione esistenziale” e della “ricerca della leggerezza come reazione al peso di vivere”.
La seconda osservazione è che questo classicismo calviniano (se davvero vogliamo denominarlo così), invece di comporsi in una visione serena ed armonica del mondo, avverte drammaticamente il conflitto, l'impatto, con l'esaurimento delle ragioni, non solo stilistiche e formali, ma antropologiche ed esistenziali (appunto) di una funzione della letteratura così intesa. Calvino, una volta che la sua reincarnazione con questo cavaliere della tradizione si sia compiuta, scopre tutto il disagio di una condizione, che rischia d' apparire (nonostante tutte le apparenze dell' affermazione e del successo) quella di un assediato e di un isolato. Quasi in ognuna delle conferenze, il compito della letteratura è delineato in contrapposizione ad uno sfondo, in cui il valore postulato appare negato dall' inesorabile sviluppo dei dati oggettivi (sicché, al tempo stesso, qualsiasi constatazione dell' avanzata del dato morto, oggettivo, corrisponde da parte di Calvino ad un rilancio, ad una rivendicazione della funzione della letteratura in chiave etico-critica e ricostruttiva).

Il caos del mondo
Calvino parla di “una crosta uniforme e omogenea, di parole, di una peste del linguaggio, di un deposito di spazzatura” d'immagini: con niente di meno si misura oggi l'idea di letteratura, che egli espone in questi saggi. E non è cosa, questa, che possa limitarsi ad una degenerazione puramente interna, solo letteraria.
Al contrario, è qui, su questo terreno franoso e instabile, che ricompare ancora una volta la connessione, tragica connessione, a guardar bene, tra mondo dei segni e mondo reale, ed è qui che ancora una volta la letteratura ricompare a far da ultimo argine alla dissoluzione in atto. Infatti: “Ma forse l'inconsistenza non è nelle immagini o nel linguaggio soltanto: è nel mondo. La peste colpisce anche la vita delle persone e la storia delle nazioni, rende tutte le storie informi, casuali, confuse, senza principio né fine. Il mio disagio è per la perdita di forma che constato nella vita, e a cui cerco d'opporre l'unica difesa che riesco a concepire: un'idea della letteratura”. Anche questa valorizzazione della letteratura come unico rimedio e riparo al caos del mondo è inequivocabilmente classica.
Proprio di qui si passa al secondo piano del discorso: quello che riguarda la poetica personale dello scrittore nel quadro generale della sua idea di letteratura. Si potrebbe dire, in sostanza, che fare letteratura ha significato per Calvino un inesausto, e faticoso (ahi, quanto faticoso) fronteggiamento del caos del mondo con gli strumenti ordinatori e riparatori fornitigli dai segni e un tentativo di ridurre l'inesauribile polimorfismo dell'essere all'equilibrato ed elegante giro di una frase. Impresa angosciante e di per sé senza fine, come senza fine è qualsiasi reductio alla forma dell'informe; e impresa, per giunta, che Calvino affronta dilaniato fin dall' inizio da un'incertezza profonda, da una tormentata irresolutezza.
Già in altre occasioni ho parlato, a proposito di Calvino, di poetica oscillatoria, e non tornerò qui a lungo sull'argomento. Ma non posso fare a meno di segnalare che le Lezioni americane sono tutte fondate sulla definitiva e chiarissima esplicitazione di questo motivo: “In realtà sempre la mia scrittura si è trovata di fronte due strade divergenti che corrispondono a due diversi tipi di conoscenza: una che si muove nello spazio mentale di una razionalità scorporata...; l' altra che si muove in uno spazio gremito d'oggetti e cerca di creare un equivalente verbale di quello spazio, riempiendo la pagina di parole... Sono due diverse pulsioni verso l'esattezza che non arriveranno mai alla soddisfazione assoluta... Tra queste due strade io oscillo continuamente e quando sento d'aver esplorato al massimo le possibilità dell'una mi butto sull'altra e viceversa...”.
Ora, la tesi che io mi sento di sostenere è che questo arduo tentativo di combinare in una figura geometrica nitida e perfettamente leggibile l'oscillazione del pendolo con l'inseguimento perpetuo delle cose a mezzo di parole non riguarda solo la concezione che Calvino manifesta della letteratura e della propria personale poetica ma esprime la sua personale angoscia di essere (e questo è il terzo piano di discorso presente nell'opera). Angoscia di essere? Sì, angoscia di essere. L'oscillazione della poetica e l'ossessione dell'inseguimento sono soltanto il riflesso, in superficie, dell'intima oscillazione tra la fascinazione dell'oscuro, del magmatico e del profondo, e il richiamo razionale al controllo, alla distinzione, all'obbiettività: al di là di questa oscillazione, o ancora più in profondità, c'è l'istintivo appello alla funzione salvifica della parola (la difesa della letteratura), che si muove perpetuamente verso un lontano luogo oscuro il luogo dell' assenza o del desiderio senza sperare di poterlo raggiungere mai. C'è un percorso, dunque, che Calvino compie dentro di sé: dalla contemplazione, il più possibile precisa ed obbiettiva, del polimorfismo del mondo alla moltiplicazione dell'io, alla infinita serie delle combinatorie astratte e geometriche. Ma oltre la moltiplicazione dell'io e proprio quando la moltiplicazione dell'io ha raggiunto il suo culmine, il suo punto estremo risorge il fascino della pietrificazione, della naturalizzazione dell'io: il farsi cosa dell'umano: “Ma forse la risposta che mi sta più a cuore dare è un'altra: magari fosse possibile un'opera concepita al di fuori del self, un'opera che ci permettesse di uscire dalla prospettiva limitata di un io individuale, non solo per entrare in altri io simili al nostro, ma per far parlare ciò che non ha parola, l'uccello che si posa sulla grondaia, l'albero in primavera e l'albero in autunno, la pietra, il cemento, la plastica...”.
Sono con il finale richiamo a Ovidio e Lucrezio le parole che si son trovate, casualmente, a chiudere questo libro. Ma non a caso, mi pare, questi motivi sono gli stessi che ritornano continuamente in Palomar (si pensi, ad esempio, a Il mondo guarda il mondo). Oltre la soglia della propria maturità, Calvino scopre o per meglio dire avvista il punto in cui l'uso della scrittura coincide con la sua dissoluzione e il massimo della significazione coincide con il massimo dell'assenza: l'identificazione, ora, dell'io nell'albero, nella pietra, nel cemento, nella plastica, ossia l'identificazione dell'io con il non-io, dell'esserci con il non-esserci.

Nulla di buono
La riflessione sulla letteratura, e sul proprio personale modo di concepire la letteratura, si trasforma (quasi senza volerlo) in una riflessione sulla morte: sull'esserci che continuamente si tramuta e continuamente sbocca nel non-esserci. Leggerezza, Rapidità, Esattezza, Visibilità, Molteplicità e... Consistenza sono dunque le forme di una geografia della difesa, dell'esserci qui ed ora in atteggiamento vigile e preordinato. Ma la loro trama si stacca dall'opacità biologica solo perché colui che la intesse sa di non essere niente di più di uno spericolato funambolo che collega fili su di un vuoto sterminato: un fragile ponte di fortuna gettato sul vuoto. E la ricerca della leggerezza è, sì, reazione al peso del vivere, ma anche, e forse più profondamente, reazione al peso del morire, reazione al peso del continuo morire, di cui tutti noi siamo fatti.
Il disagio intimo di Calvino precipita dunque sul disagio della civiltà, che egli così acutamente percepisce, e finisce per confondersi con esso. Il prossimo millennio non lascia presagire nulla di buono, e quello passato emana un sentore di morte. Fra questi due estremi la letteratura si presenta per Calvino come l'Angelo di Klee (o di Benjamin), che guarda indietro, perché sa di non poter guardare avanti: ma va, animata da un sogno millenario, va, almeno fino a quando la tempra di scrittori come Calvino non sarà estinta.


“la Repubblica”, 2 agosto 1988  

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