15.11.14

Periferie bizantine. Contadini e santi (Guglielmo Cavallo)

Città cosmopolita d'oro e di porpora, di cupole che si stagliano sull'intenso azzurro del cielo, di edifici imponenti e magnifici culminanti nel Palazzo imperiale, di un sole smagliante che rimbalzava sulle vesti e sul diadema dell'imperatore facendone un altro sole, di fastose cerimonie di corte, di ostentazione del lusso dell'aristocrazia, di atelier di arti suntuarie e di botteghe di oggetti raffinati, di incontro di diplomazie dalle molte lingue, Costantinopoli è stata identificata per secoli con Bisanzio, fino ad una equivalenza totale, confortata dalle stesse élite che ai vertici del potere civile ed ecclesiastico videro sempre nella capitale dell'Impero il polo di attrazione unico, fino a considerare «barbare» le regioni periferiche che pur dello stesso impero facevano parte.
Costantinopoli, la città che Costantino aveva voluto sul Bosforo nel secolo IV come nuova Roma, era certo la capitale in cui, fino alla sua caduta nel secolo XV, si svolgevano udienze e processioni imperiali impressionanti per messa in scena e sfarzo, il centro di una burocrazia centrale occhiuta, il crocevia di transito e di miscuglio di schiavi, eunuchi e ricchezze, il salotto di dotti e di circoli eruditi: la sede, insomma, nella quale si elaboravano i modelli politici, religiosi, culturali, artistici che sono a fondamento della civiltà bizantina. E tuttavia la coincidenza tra l'impero di Bisanzio e Costantinopoli si dimostra sempre più fuorviante. La capitale rischia di diventare l'albero alto, ramificato e fronzuto che finisce con il nascondere dietro di sé l' intera foresta delle realtà bizantine. E a queste realtà, che meglio si colgono nelle regioni eccentriche dell'Impero, dove non sono offuscate dallo splendore della capitale, si è voluta dedicare larga parte del XX Congresso internazionale di Studi bizantini, che si aprirà domani a Parigi (Collège de France, 19-25 agosto).
Una di queste realtà sono le campagne, con i loro villaggi di una trentina di nuclei famigliari, i loro casali, le loro sperdute abitazioni contadine, e con l' assillo del raccolto e la persecuzione del fisco, più leggero soltanto per chi prestava servizio militare. Nel secolo IX l' imperatore Leone VI asseriva che due erano i pilastri dello Stato: i contadini che allevavano i soldati, e i soldati che difendevano i contadini. Questa campagna era cristiana nelle sue credenze e nei suoi riti, ma le cerimonie liturgiche non erano quelle metropolitane di Santa Sofia sfavillante di ori e di luci, ma le officiature entro chiesette anguste; e le icone non erano oggetto di disquisizioni teologiche sottili degli intellettuali di Costantinopoli, ma rozze tavole dipinte con immagini come quella di San Giorgio, il santo che rendeva fertili i campi, ingrassava gli animali o li faceva miracolosamente rinascere dalle ossa spolpate.
Un'altra realtà che va scandagliata meglio è il monachesimo, che proprio fuori della capitale aveva la sua maggiore presa e i suoi insediamenti più forti e vitali. Si pensi al Monte Athos, la città monastica. Si giunge da Ouranopolis; e i monasteri sono ora a strapiombo sul mare, ora sul pelo dell' acqua, ora all' interno, collegati da acque spesso tempestose o da sentieri sassosi e ripidi. Le celle sono semplici e austere, le pareti bianche e il pavimento di pietre lastricate. Teorie di vesti nere e di barbe lunghe segnano il luogo, scandito dal suono del symandron (uno strumento di legno a percussione) che chiama agli uffici e ai canti liturgici fin dalle prime ore dell' alba. Era in questi monasteri che si ritiravano quanti volevano fuggire il mondo, o coloro che scampati alla morte in quel giardino dei supplizi che era la giustizia imperiale restavano mutilati, o ancora quanti giunti alla fine della vita vi andavano a morire in pace con il Signore. Il monachesimo ha attraversato tutta la geografia e tutta la storia di Bisanzio.
Realtà complessa sono i santi non integrati nella vita urbana: i santi stiliti che si ritirano a vivere su colonne sempre più alte, e che accecati dal sole e bagnati dalla pioggia muoiono anoressici e rinsecchiti tra folle oranti; i santi erbivori, che vagano nudi nelle campagne nutrendosi come bestie; i santi anacoreti, ricurvi in grotte tanto anguste da impedire qualsiasi altra posizione del corpo; i santi «folli in Cristo», che inscenano gesti estremi e deviati per proclamare la violenza del sacro.
Realtà, infine, è una cultura che non è solo quella classica delle élite di Costantinopoli. Da sempre Bisanzio è stata ritenuta il tramite dell' antica cultura classica, la depositaria di Omero e Pindaro, Sofocle e Aristofane, Erodoto e Tucidide, Lisia e Demostene, e di tanti altri autori antichi. Ma questa cultura era appannaggio di una casta privilegiata di letterati o eruditi e di uomini di governo, e restava tutta concentrata in ristretti circoli della capitale. La cultura più autentica di Bisanzio era quella dell'individuo mediamente istruito, com' era un Cecaumeno, un generale di provincia a riposo che in gioventù non aveva frequentato scuole di retorica e che leggeva libri di chiesa, cronache, trattati militari, e altri scritti assai lontani dalle opere classiche o da quelle contemporanee prodotte dall'aristocrazia delle lettere. E privilegiare Cecaumeno come specchio della cultura di Bisanzio significa riconoscere una volta per tutte che quest'ultima non fu né soltanto Costantinopoli né, tanto meno, l' Atene del passato.


Corriere della sera, 18 agosto 2001  

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