19.11.14

Sandro Pertini racconta: “Un bastardino di nome Titì”

In un libro dedicato a Sandro Pertini, pieno di storie interessanti e di osservazioni acute, ma probabilmente fuori tempo, opera del magistrato e scrittore De Cataldo, autore tra l'altro del Romanzo criminale, ho trovato questa paginetta del nostro presidente che mi ha appassionato e commosso. (S.L.L.)

«Ancora cucciolo, l'aveva adottato la colonia dei confinati di Lipari. Questa colonia fu poi trasferita a Ponza. Il giorno della partenza Titì scodinzolando andava da confinato a confinato a prendere carezze. Era l'addio, ma Titì non lo sapeva. Se ne persuase quando rimase solo sul molo. Tutti i confinati a poppa lo salutavano. La povera bestia cominciò a guaire. Sembrava un bambino abbandonato. A un tratto, deciso, si gettò in acqua, tentando di raggiungere il piroscafo, che levate le ancore lentamente si allontanava. Dalla tonda confinati e marinai guardavano commossi la povera bestia, che annaspando cercava disperatamente di raggiungere la nave. Stremato, stava per venir meno. Sarebbe stata la sua fine.
«Il Comandante impietosito fece fermare la nave e Titì fu raccolto a bordo festosamente. Così arrivò a Ponza. Fu il nostro amico, ma amico solo dei confinati politici. Se i militi fascisti o i poliziotti cercavano d'avvicinarlo per fargli una carezza, egli si allontanava con rabbiose ringhiate. Accadeva talvolta questo: un confinato scoperto quale confidente della polizia veniva relegato nel reparto Manciuria, così si chiamava il gruppo dei confinati non politici. Orbene, quando si prendeva questa decisione e la voce si diffondeva, anche Titì dava l'ostracismo al confinato messo da noi al bando. Consumava i pasti presso le mense collettive. Titì spesso si presentava sulla soglia di una mensa con un cane randagio affamato. Guardava noi e la povera bestia che da giorni non vedeva cibo. I confinati gli davano subito da mangiare. Titì solenne assisteva al pasto del suo amico, poi quando si persuadeva che si era saziato, a colpi di testa lo esortava a essere discreto e a lasciare la mensa.
«Un giorno si annunciò una cerimonia ufficiale. In piazza Sant'Antonio sarebbe stata inaugurato un albero a nome di Arnaldo Mussolini. Nella piccola piazza vi erano le autorità, militi, poliziotti, alcuni isolani, sotto un tunnel. In prima fila Titì, che ci guardava, ascoltando i nostri commenti, di cui è facile immaginare il contenuto. Suonati gli inni di moda allora, la banda si tace. Un signore in stiffelius, venuto da Napoli, si fa avanti e impettito, con voce alta, declama la sua orazione. A un tratto Titì si stacca da noi, corre verso l'oratore, alza la gamba e... gli annaffia lo stiffelius, fra la costernazione degli astanti. Poi di corsa ritorna, con negli occhi la fierezza per il gesto compiuto. È facile immaginare l'accoglienza che gli facemmo.
«Vi era a Ponza un messo comunale, bevitore accanito, che si sentiva anche accalappiacani. Quando non aveva soldi per bersi il suo litro di vino, prendeva Titì e lo portava in prigione. Diffusasi la notizia dell'arresto di Titì, subito si costituiva un comitato, che passando fra i confinati chiedeva un'oblazione per ottenerne la scarcerazione. Nessuno si sottraeva alla richiesta. In seguito, per evitare che fosse ancora arrestato, si prese un accordo con il messo comunale beone: "Senti, tu non devi più molestare Titì. Quando sei senza soldi e vuoi berti un litro di vino, dillo a noi e berrai a tua volontà". Titì non fu più arrestato, e il messo comunale con maggiore frequenza lo si incontrava, la sera, barcollante.
«Non volevamo che Titì dormisse fuori del camerone, neppure in estate, perché temevamo contro di lui rappresaglie da parte della milizia fascista, che l'odiava. Alla sera vi era l'appello. In mezzo a noi stava nascosto Titì. Quindi un gruppo di confinati, già chiamati, entravano compatti, e dietro di loro sgusciava nel camerone Titì, felice. Una sera Titì, giunto in ritardo, quando l'appello era già terminato, non riuscì a entrare nel camerone. Molti confinati passarono la notte insonne. Verso l'alba si udirono ripetuti colpi di moschetto. Un triste presentimento percorse il camerone. Al mattino i confinati uscirono alla ricerca di Titì. Il suo corpo, privo di vita, fu visto in balìa delle onde. È difficile dire il dolore che invase i nostri animi. Era stato ucciso il nostro amico Titì, non cane bastardo, ma creatura umana.»


In Giancarlo De Cataldo, Il combattente,Come si diventa Pertini, Rizzoli, 2014

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