Di
recente è stato messo in rete da “Il Fatto”, per una libera
circolazione il pdf del libro di Saverio Lodato e Roberto Scarpinato
Il ritorno del Principe. La criminalità dei potenti in
Italia (Chiare Lettere, 2008). L'intervista del giornalista al magistrato verte su tre nodi: lo
svuotamento della democrazia e l'affermarsi di forme oligarchiche
grazie all'illegalismo diffuso; il carattere organico della
corruzione nel funzionamento del sistema italiano; il ruolo delle
mafie nella geografia dei poteri. “Posto” qui le prime pagine
della sezione dedicata alla corruzione: vi si tratta della Banca
Romana, il primo grande scandalo dell'Italia unita, in una
prospettiva di lungo periodo. (S.L.L.)
Cominciamo dalla
corruzione.
Se
vogliamo cogliere appieno la natura non episodica ma strutturale
della corruzione nella storia italiana, dobbiamo affrancarci dalla
cultura da rassegna stampa tutta appiattita sul presente, che,
sull’onda del contingente, insegue di volta in volta con affanno
l’ultimo caso di cronaca.
Potremmo
definirla la cultura «dell’ultimo anello» che, restando
disancorato dagli anelli precedenti, non consente di riannodare i
fili del presente a quelli del passato, tessendo così un’unica
trama globale.
Da quale «anello»
vogliamo cominciare?
Direi
dallo scandalo della Banca Romana esploso nel 1892, il primo grande
scandalo finanziario dell’età monarchica dopo l’Unità d’Italia,
a seguito del quale si istituì la Banca d’Italia; una Bancopoli di
cui vi è cenno in tutti i libri di storia, e che, non a caso,
presenta alcuni tratti comuni con i più recenti casi di Bancopoli.
Dopo
l’unificazione e il trasferimento della capitale del regno a Roma,
era iniziata una selvaggia speculazione immobiliare trainata dai
palazzinari del tempo, molti dei quali, grazie a raccomandazioni di
vertici politici e istituzionali, costruivano senza rischiare
capitali propri in quanto utilizzavano quelli generosamente forniti
loro da alcune banche senza adeguate garanzie.
Verso
la fine del secolo, la bolla immobiliare iniziò a sgonfiarsi
trascinando nella crisi molte società edili e alcune delle banche
che avevano concesso loro crediti senza garanzie.
Tra
queste vi era la Banca Tiberina che rischiava di fallire
compromettendo gli interessi di taluni esponenti della famiglia reale
e che, pertanto, venne salvata grazie all’intervento della Banca
Romana retta dal governatore Bernardo Tanlongo, nominato da quella
famiglia. Ma poco tempo dopo anche la Banca Romana entrò in crisi,
sia perché dissanguata da questa operazione di salvataggio, sia
perché, come sarà accertato, era diventata la cassaforte alla quale
attingevano illecitamente e a piene mani i potenti del tempo.
Nel
corso di un’ispezione, disposta a seguito di alcune interpellanze
parlamentari, un onesto funzionario di nome Gustavo Biagini accerta
che la Banca Romana, uno dei cinque istituti autorizzati a stampare
carta moneta per conto dello Stato, aveva emesso banconote (alcuni
milioni del tempo) in eccedenza alle quote rigorosamente stabilite da
leggi e regolamenti. Biagini interroga in proposito il governatore
Tanlongo, il quale per tutta risposta gli chiede in tono amichevole
che stipendio ha, se è in grado di mantenere decorosamente la moglie
e i quattro figli. Quindi, con disinvoltura, indicando un pacco che
ha poggiato sulla scrivania, aggiunge: «Lei potrebbe da un giorno
all’altro cambiare la sua posizione». Biagini non accetta la
proposta e nell’ottobre 1889 presenta una relazione completa
sull’accaduto al ministro Antonio Monzilli. Ma la relazione resta
nei cassetti per ben tre anni e l’onesto Biagini per la «sua
preziosa opera» viene promosso e trasferito altrove. Bernardo
Tanlongo viene nominato senatore del regno e componente della Regia
commissione di vigilanza del debito pubblico.
Nel
frattempo la situazione della Banca Romana si aggrava sempre di più,
lo scandalo diventa incontenibile ed esplode sulla stampa nazionale
anche a seguito di una battaglia parlamentare per riesumare la
relazione ispettiva insabbiata. Viene quindi disposta una nuova
ispezione e viene iniziata un’indagine penale che porterà
all’arresto prima di Tanlongo nel gennaio del 1893 e poi di altri
colletti bianchi.
A
seguito delle indagini si accerta che era stata fabbricata un’enorme
quantità di moneta falsa mediante la duplicazione di serie e di
numeri di biglietti di precedenti creazioni legali: circa quaranta
milioni del tempo (l’equivalente di circa sessanta miliardi di
oggi). La cassa era stata inoltre defraudata di una somma molto
elevata, circa venti milioni. La banca era seppellita da una catasta
di cambiali «in sofferenza», per la maggior parte firmate da nomi
illustri della politica e del giornalismo. Gli illeciti erano stati
realizzati mediante una serie di falsi contabili e operazioni
bancarie simulate.
I
deputati (compresi alcuni ministri o ex ministri) compromessi verso
Tanlongo, dal quale avevano ricevuto generosi «prestiti» mai
restituiti, erano circa centocinquanta.
Il
processo, apertosi a Roma nel 1894, si concluse dopo sessantuno
udienze con l’assoluzione di tutti gli imputati: i responsabili
della banca, un deputato e due funzionari preposti alla vigilanza
dell’istituto.
Sembra la grande madre di tutte le Bancopoli. E i fatti accertati, immagino, rimasero senza colpevoli.
Naturalmente.
Lo scandalo di quell’assoluzione viene denunciato da Giolitti il
quale in una lettera rivolta al re Umberto I utilizza parole che
potrebbero essere scritte oggi, a dimostrazione della continuità
dell’impunità della criminalità del potere nel nostro Paese:
“L’assoluzione scandalosa di ladri di milioni ha fatto purtroppo
una triste reputazione al nostro Paese, e ha dimostrato alle classi
povere che le leggi penali non raggiungono in Italia i grossi
delinquenti. Ora si aggiungerà la prova che i grossi delinquenti in
Italia, oltre a essere assolti, possono con i milioni rubati far
processare coloro che li avevano denunciati e messi in carcere”.
Almeno
il presidente del Consiglio assunse quella posizione. Purtroppo
Giolitti predicava bene ma razzolava male. Anche lui si trovò
infatti coinvolto in quel ciclone. Dopo l’arresto di Tanlongo la
polizia che operava alle dirette dipendenze del ministero
dell’Interno, cioè del governo, aveva compiuto un blitz nei locali
della Banca Romana senza alcun mandato della magistratura. Dalle
deposizioni testimoniali era risultato che i funzionari di polizia,
prima di formalizzare il sequestro, avevano fatto sparire molti
documenti scottanti che coinvolgevano la responsabilità di
importanti uomini politici.
L’ispettore
Mainetti e il delegato Montalto, che avevano eseguito le operazioni,
dopo appena due giorni erano stati promossi «con menzione
onorevole».
Era
emerso inoltre che, molto stranamente, la sera stessa della denuncia
si era svolta una riunione tra il procuratore generale, il
procuratore del re e il giudice istruttore non negli uffici
giudiziari ma al ministero dell’Interno. Si aprì dunque un
procedimento nei confronti dei funzionari di pubblica sicurezza che
avevano eseguito le perquisizioni ed effettuato il sequestro,
procedimento che coinvolse come mandante della sottrazione dei
documenti l’onorevole Giolitti, presidente del Consiglio dei
ministri in carica e ministro dell’Interno all’epoca in cui si
erano verificati i fatti.
Dopo
varie traversie, anche Giolitti uscì di scena grazie a una
«provvidenziale» sentenza della Cassazione che stabilì che i reati
compiuti da ex ministri erano sottratti al giudice ordinario sia che
provenissero da un abuso di potere ministeriale, sia che avessero un
movente politico o dovessero essere considerati come «un mezzo a
fine politico».
Quale fu la reazione
della pubblica opinione?
L’assoluzione
generale per lo scandalo della Banca Romana fu così commentato dalla
«Rivista penale», una delle più autorevoli riviste giuridiche del
tempo: “Fu un verdetto che da molti si prevedeva, e in modo tale da
far sorprendere come mai non si provvedesse, per iscongiurarlo, con
la sospensione del dibattimento. Ma tutto, anzi, parve che
congiurasse per venire a questa conclusione. Dai primi passi
dell’istruttoria alla sentenza di accusa, alla fissazione della
sede del giudizio, alla scelta del pm, al modo in cui fu condotto il
dibattimento, agli episodi dolorosi e deplorevolissimi che si
tollerarono […] tutto parve rivolto al triste epilogo”.
Per
evidenziare lo scarto culturale esistente tra la classe dirigente
nazionale e quella di altri Paesi europei, vale la pena ricordare che
in quegli stessi anni in Francia si era svolto un processo per lo
scandalo finanziario del canale di Panama, che aveva pure coinvolto
degli uomini politici, imputati di avere ricevuto denaro per dare
voto favorevole alla legge che autorizzava il prestito Panama. In
quel Paese le cose erano andate molto diversamente.
In che modo?
La
Corte di Cassazione francese aveva respinto il ricorso con il quale
deputati e senatori avevano sostenuto il divieto di sindacare il loro
voto per l’immunità parlamentare che vi era connessa, ritenendo
che il divieto di sindacare il voto dei parlamentari non si estendeva
agli atti che un membro del Parlamento avesse compiuto
«criminalmente», ancorché in connessione con le opinioni e i voti
emessi in una delle due Camere. Criminalmente: un avverbio al quale
la classe politica italiana, da allora a oggi, non ha mai
riconosciuto diritto di cittadinanza nel suo vocabolario. E infatti
era bastato quell’avverbio a fare la differenza, e il processo
francese si concluse con la condanna dei principali imputati.
Una lezione di senso
dello Stato inimmaginabile ieri come oggi in un Paese come il nostro.
E
per comprendere come ci troviamo all’interno di una storia
circolare destinata a ripetersi, basti ricordare la motivazione con
la quale nel 1996 – circa un secolo dopo lo scandalo della Banca
Romana – la nostra Camera dei deputati respinse la richiesta di
autorizzazione a procedere per il reato di corruzione avanzata nei
confronti dell’onorevole Cirino Pomicino, accusato di avere
ricevuto in qualità di presidente della Commissione bilancio della
Camera quattro miliardi dalle aziende che dovevano realizzare il
métro collinare di Napoli, per far passare nella legge finanziaria
dello Stato lo stanziamento necessario.
Con quale motivazione
fu respinta la richiesta di autorizzazione a procedere?
L’autorizzazione
fu negata con la motivazione che in sostanza il comportamento
contestato rientrava tra le prerogative insindacabili del
parlamentare. Una motivazione singolare. Dopo la vicenda della Banca
Romana, stava per esplodere in campo nazionale un altro scandalo
bancario, quello della gestione illegale del Banco di Sicilia. Di
questa storia però parleremo nel capitolo dedicato alla mafia,
perché in quel caso il Principe invece del metodo di insabbiamento
soft messo in opera per chiudere lo scandalo della Banca Romana,
adottò quello hard.
Metodo «hard»?
«Insabbiare»
fisicamente, seppellire cioè sotto due metri di terra e sabbia tutti
coloro che a causa della loro incorruttibilità rompono il grande
gioco del potere, ponendo così a rischio gli equilibri del sistema.
In quel caso si procedette a «insabbiare» il direttore generale del
Banco di Sicilia, l’incorruttibile Emanuele Notarbartolo, dopo
averlo fatto assassinare da killer mafiosi il 1° febbraio 1893 a
colpi di coltello sulla carrozza di un treno. Ma tornando per ora al
metodo «soft», quella della Banca Romana fu solo la prima di una
serie interminabile di assoluzioni scandalose. Con una assoluzione
generale nei primi decenni del Novecento si concluse anche il
processo per un altro grande scandalo bancario che riguardava la
Banca Italiana di Sconto e che coinvolse, oltre che numerosi colletti
bianchi, anche quattro senatori del regno per i quali il Senato si
costituì in Alta Corte di Giustizia. Con generali assoluzioni si
conclusero, sempre all’inizio del secolo, anche numerosi processi
per frodi nelle forniture militari.
Con riferimento a una di queste assoluzioni la «Rivista penale» commentò: “Effetto non certamente favorevole per il prestigio della giustizia e dell’amministrazione. Risultato finale: che molto probabilmente i vampiri dell’una e dell’altra seguiteranno imperturbati le loro ignobili imprese. Evviva la guerra!”.
Con riferimento a una di queste assoluzioni la «Rivista penale» commentò: “Effetto non certamente favorevole per il prestigio della giustizia e dell’amministrazione. Risultato finale: che molto probabilmente i vampiri dell’una e dell’altra seguiteranno imperturbati le loro ignobili imprese. Evviva la guerra!”.
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