Gilbert Keith Chesterton |
Vi sentite «immersi fino
al collo» nel «cattivo gusto»? Non disperate. Quello splendido
scrittore che è Gilbert Keith Chesterton, l'inventore di padre
Brown, non si vergognava di farsi scoprire da Emilio Cecchi, nella
primavera del 1920, mentre «usciva da un cinema di terzo ordine dove
si produceva nientemeno che una Gerusalemme liberata». Come
farsi scoprire oggi da Sanguineti o Arbasino all'uscita da Demoni.
Se poi andiamo a leggere,
di Chesterton, un lieve libretto intitolato in italiano Il bello
del brutto, curato da Attilio Brilli per Sellerio, scopriamo con
una certa sorpresa, da perfetti ingenui, che noialtri veementi
rivalutatori delle forme un tempo considerate «basse» di
letteratura (o del gusto, o della sensibilità), e ansiosi spesso di
giustificare «teoricamente» il nostro amore per Dallas o
Sentieri, non abbiamo infine scoperto granché di nuovo. Ecco,
in Chesterton, una paradossale, eppure molto convinta difesa dei
romanzi d'appendice, degli scheletri, della pubblicità, del
nonsense, delle pastorelle di porcellana, del brutto, del culto dei
bambini, dei racconti polizieschi, e — ahimè — anche del
patriottismo. Forme, tutte, in cui, in modi diversi, il mondo
continua a mostrarsi nuovo e sorprendente, agli occhi di quello che
Chesterton chiama «l'uomo medio», per il quale «questo pianeta è
come la nuova casa nella quale ci siamo appena trasferiti, armi e
bagagli».
Un esempio? C'è una
poesia delle città moderne, scrive Chesterton, che solo la
letteratura poliziesca (e, aggiungeremmo noi, il cinema) è riuscita
a cogliere in pieno. Ogni mattone di Londra «reca un geroglifico
umano, come se fosse una pietra incisa di Babilonia; ogni tegola
d'ardesia è un documento didattico, al pari di una lavagna piena di
addizioni e sottrazioni».
Non sembra si tratti,
qui, di contrapporre ai limiti del buon gusto le famose «buone cose
di pessimo gusto» di gozzaniana memoria. Quando Chesterton fa
coincidere la sua idea di gusto con questo «gusto del nuovo» e del
«sorprendente», nelle sue parole sembra risuonare una celebre
definizione del gusto, lontanissima invece dal nuovo mondo delle
classi medie che nelle parole dello scrittore inglese sta già
prendendo piena coscienza di sé.
«Il gusto naturale -
leggiamo alla voce Gusto dell'Enciclopedia di Diderot e
D'Alembert - non è una scienza teorica; è l'applicazione pronta e
squisita di regole che neppur si conoscono. Non è necessario sapere
che la sorpresa è la causa del piacere che ci da una certa cosa, che
troviamo bella; basta che ci sorprenda, nel modo opportuno, né più
né meno».
Ma il gusto di cui
trattano gli illuministi, e che nella filosofia di Kant diventerà la
capacità di pronunciare quella tipica forma di giudizio con cui si
distingue il bello dal brutto, è piuttosto un ideale di cultura, nel
cui concetto è compreso il riferimento a un modo di conoscenza.
«Il gusto — scrive
Hans Georg Gadamer in Verità e metodo, Bompiani — è
piuttosto qualcosa come un senso. Non dispone preliminarmente di una
conoscenza su basi dimostrative. Quando, in questioni di gusto,
qualcosa è negativo, esso non sa dire perché. Ma il gusto
sperimenta questo con la più assoluta certezza».
O in altre parole,
secondo Giorgio Agamben, che ha scritto la voce Gusto
nell'Enciclopedia Einaudi: gusto è «un sapere che non può dar
ragione nel suo conoscere, ma ne gode», ed è quindi un «altro
sapere» ; ma al tempo stesso è un «piacere che conosce e giudica»,
ed è quindi un «altro piacere».
In questa interpretazione
il «gusto», per la sua natura duplice di piacere della conoscenza e
conoscenza del piacere, diventa «luogo privilegiato in cui emerge
alla luce la frattura dell'oggetto della conoscenza in verità e
bellezza», e la frattura del fine etico dell'uomo in «conoscenza e
piacere», frattura che caratterizzerebbe «in modo essenziale la
metafisica occidentale». E che potrebbe dunque sanarsi solo
nell'ideale «gustativo» di un sapere in cui verità e bellezza
comunicano, e di un piacere in cui piacere e conoscenza si uniscono.
Non è affatto certo però
— ci sembra - che questa unione inedita di verità e bellezza,
sapere e conoscenza avverrà necessariamente sotto le bandiere del
«buon gusto». Perché «buon gusto» non è più, appunto, sinonimo
di «gusto». Il «gusto sicuro» degli illuministi e di Kant trae la
sua specifica forza normativa, che prescinde dalle preferenze del
singolo e dalle inclinazioni private dell'individuo, ed è perfino
capace di opporsi alle mode, o di guidarle - da una aristocratica
libertà e superiorità, possibili solo nel cerchio magico del
consenso di una ideale comunità di spiriti liberi e superiori. E' la
comunità degli «uomini di gusto», qualcosa che è esistito nella
storia dell'occidente solo a partire da un'epoca ben precisa, e in un
limitato arco di tempo.
«Intorno alla metà del
secolo diciassettesimo — scrive ancora Agamben in suo saggio
raccolto in L'uomo senza contenuto, Rizzoli, un libro del 1970
— appare nella società europea la figura dell'uomo di gusto, cioè
dell'uomo che è fornito di una particolare facoltà, quasi di un
sesto senso come si cominciò allora a dire - che gli permette di
cogliere il point de perfection che è caratteristico di ogni
opera d'arte».
E' quell'uomo di gusto,
espressione di una ormai irrimediabile lacerazione tra l'artista e la
sua funzione sociale, tra arte e società, che proietterà ormai come
propria inseparabile ombra, suo mortale fratello-nemico, il concetto
stesso, prima ignoto, di cattivo gusto. Fino a una certa famosa
dichiarazione di guerra, o colpo di scopa, che spazzerà via insieme
i due inestricabili fratelli...
...«Mi piacevano i
dipinti idioti, soprapporte, scenari, tele di saltimbanchi, insegne,
miniature popolari; la letteratura fuori moda, latino di chiesa,
libri erotici senza ortografia, romanzi delle bisnonne, racconti di
fate, libretti per l'infanzia, vecchie opere, ritornelli insulsi,
ritmi ingenui»...
Una descrizione così
esatta del nostro gusto di spettatori, che avrà certo incontrato
l'approvazione di Chesterton, non proviene da una recensione
ritardataria a Quelli della notte di Renzo Arbore, ma dalla
Alchimia del verbo del poeta Arthur Rimbaud. Una lapide sulla
tomba dell'uomo di gusto.
Questa definizione del
cattivo gusto, scrive ancora Agamben, «è diventata talmente famosa
che stentiamo ad accorgerci che, in questo elenco, si può ritrovare
tutto l'outillage familiare della coscienza estetica
contemporanea; sul piano del gusto, quel che era eccentrico al tempo
di Rimbaud, è diventato qualcosa come 'il gusto medio'
dell'intellettuale, ed è penetrato così profondamente nel
patrimonio del 'bon ton' da costituire ormai un vero e proprio segno
distintivo».
Qui annega ogni pretesa
attuale di «buon gusto»: chi grida al «cattivo gusto», o alla
fine dei «valori» risultante da una confusione di gusto, coglie un
problema, e manca però la presa. Perché è già immerso «fino al
collo» in una volgarissima, colloidale sospensione di buono e
cattivo gusto, nata dalla immane estensione storica (sì, proprio)
dei «soggetti» i cui desideri, aspirazioni, sogni determinano il
gusto (costringendo, per esempio, i pubblicitari a una continua
rincorsa, una realtà che spesso dimentichiamo, insistendo sul
condizionamento). Più interessante è allora spiare i segnali
rivelatori, nel gusto, del formarsi di nuovi possibili leader
molecolari (rubo il termine a Gian Paolo Ceserani, Mondo medio,
Mondadori; e anche, con Eco e Placido, La riscoperta dell'America,
Laterza) della cultura di massa. Una terza, o meglio una nuova via
tra l'esaurimento dei prodotti e dei luoghi artistici di élite (la
Gioconda non è stata «pensata» per il consumo di milioni di
persone; anche se può diventare, non certo essere già, un «valore»
per miliardi di persone) e la semplice rifrittura di scampoli a basso
prezzo e bassa intensità di intelligenza, per il volgo, elargiti
naturalmente dai soliti pochi.
“la talpa giovedì –
il manifesto”, 17 ottobre 1985
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