E' un vecchio articolo, di un anno e
mezzo fa, quello che riprendo togliendo qualche riferimento all'attualità del tempo, ora difficilmente comprensibile. Mi pare tuttora utilissimo a spiegare perché i governi
dell'Occidente in generale e quello italiano sembrino pestare l'acqua
nel mortaio della crisi. (S.L.L.)
La natura della crisi
Molto si è discusso e si discute sulla
natura della crisi internazionale iniziata nel 2007-2008. Da più
parti essa è stata paragonata a quella del 1929.
La dinamica è effettivamente simile:
l’innesco finanziario negli Usa con la bolla dei subprime ha
causato una crisi di sovrapproduzione globale; al crack è seguita
una lunga recessione segnata da una disoccupazione di massa che
indebolisce lavoratori e ceti medi anche nei paesi più ricchi
dell’occidente. A ben vedere, però, questa analogia si traduce in
una tautologia: si conferma cioè il funzionamento normale del modo
di produzione capitalistico. Del resto la crisi del ‘29 aveva
convinto definitivamente Keynes di quello che Marx aveva già
scoperto, pur avendo di fronte un grado di sviluppo molto più basso:
il capitalismo è un’economia monetaria di produzione, quindi la
relazione tra economia reale e finanza non è né un accidente, né
un’aggiunta “a posteriori”, tanto meno una degenerazione, ma un
tratto fondamentale, lo strumento necessario di un’economia basata
sul profitto, cui è consustanziale un andamento ciclico.
Crisi rivelatrici
Perciò le fasi di crisi mostrano le
impalcature e le linee di evoluzione del sistema. Come lo shock
petrolifero dei primi anni ‘70 (anticipato dalla fine degli accordi
di Bretton Woods) aveva evidenziato i limiti del modello di sviluppo
“fordista-keynesiano”, preannunciando una profonda
ristrutturazione a tutti i livelli, la crisi attuale porta alla luce
quanto avvenuto nel trentennio liberista.
In questo senso alle analogie di
superficie con il 1929 si affiancano notevoli differenze. Rispetto
agli anni ‘20, alle spalle della crisi attuale vi è da un lato un
ruolo infinitamente più grande del capitale finanziario, sia in
termini geografici che istituzionali, dall’altro una gigantesca
ristrutturazione dei sistemi produttivi e dei mercati internazionali,
da cui emerge una mutazione profonda dei ruoli nella divisione
internazionale del lavoro.
Ulteriore, importantissimo, effetto
della globalizzazione è la modifica della sovranità statale e del
ruolo delle istituzioni pubbliche nel ciclo economico. Su tutto ciò
hanno un peso fondamentale la sconfitta dell’Urss e il crollo del
sistema di stati ad essa collegato.
Col prolungarsi della recessione le
ricette dell’ultimo trentennio, basate sui tagli alla spesa e ai
servizi, sulla riduzione dei diritti, sulla ridislocazione in favore
del profitto delle regole finanziarie e istituzionali, mostrano tutta
la propria natura di “falsa coscienza”, quasi di “rimozione”
freudiana della colpa; l’austerità – comunque si mostra sempre
più chiaramente come una concausa della crisi.
D’altra parte la riproposizione delle
ricette keynesiane, già messe a dura prova negli anni ‘70 (con la
crisi fiscale dello stato), risulta una strada ardua di fronte ad un
quadro sociale e istituzionale profondamente mutato.
Il caso italiano
Ciò è particolarmente evidente nel
caso italiano, che reca in forma patologica i segni caratteristici
della crisi generale. Il declino economico, con l’abbandono di
intere produzioni di base e la sofferenza del modello alternativo
della terza Italia, comincia già al volgere del secolo, in
sostanziale coincidenza con l’ingresso nell’euro. Quanto alla
crisi del sistema politico essa se non si vuole risalire, come fanno
molti storici, al tourning point del delitto Moro è evidente
almeno dal trauma di Tangentopoli del 1992. E’ comunque
universalmente riconosciuto che la cosiddetta seconda repubblica
abbia visto una progressiva paralisi delle istituzioni, impegnate in
un’interminabile quanto vana fase di “transizione”, sfociata
nell’ultimo anno e mezzo nella fine “pilotata” del governo
Berlusconi, nell’anomala investitura di Monti, infine nello “stallo
messicano” emerso dalle elezioni politiche. Che ci si trovi
impigliati in un groviglio inestricabile lo provano le improbabili
alchimie a cui è ricorso Napolitano, nonché il rapidissimo mutare
delle correnti di opinione: tutti ricordiamo il favore generalizzato
di cui godevano Monti e i tecnici appena un anno fa, tutti o quasi
abbiamo sottodimensionato la forza del Movimento 5 stelle. La crisi
di sistema scoppia nel pieno di una recessione economica prolungata i
cui effetti sociali sono già particolarmente evidenti: bastino il
dato della disoccupazione giovanile, ormai vicina al 40%, e
l’evidenza del potere incontrastato dell’economia criminale.
Senza leva né punto di appoggio
In questa situazione il fallimento
delle politiche di austerità è sotto gli occhi di tutti, mentre le
posizioni dell’economia critica diventano spesso senso comune.
Eppure, quanto spazio c’è per vie alternative? Lasciamo pure da
parte le ipotesi palingenetiche alla Guido Viale, fuori
dall’orizzonte del breve periodo, e limitiamoci alle ricette
keynesiane classiche. Un mutamento di direzione in verso deficit
spending, il sostegno alla domanda effettiva e alla piena
occupazione dovrebbe innanzitutto vincere potenti vincoli oggettivi,
sia esterni (lo stock del debito pubblico, l’impossibilità di
forzare le esportazioni col vecchio strumento della svalutazione
competitiva) che interni (l’impossibilità di spingere oltre la
leva fiscale, il discredito e il degrado dei servizi e delle imprese
pubblici).
Non è da escludere comunque che,
magari sulla base di un qualche accordo in sede Ue, si possa ovviare
a questi limiti; tuttavia la leva keynesiana resta inservibile in
assenza di un credibile punto di appoggio ovvero, fuor di metafora,
di forze sociali e soggettività politiche che la sostengano e la
orientino. Alla base delle fortune del welfare nel trentennio
postbellico vi era, oltre ad una crescita sostenuta e costante, un
solido patto sociale, mediato da strutture statali pienamente
legittimate e dotate di potenti strumenti di azione. Allo stato
attuale tutti i capisaldi di quel patto lo stato nazionale, le
classi, i partiti e i sindacati di massa appaiono travolti dalla
frana con cui Hobsbawm designa l’ultimo tratto del XX secolo, e non
è facile prevedere quali modelli sociali e istituzionali possano
prenderne il posto. Da un lato infatti le molteplici forme di
governance locali, nazionali e internazionali, pubbliche e
private, sembrano cercare forme di adattamento alla situazione,
piuttosto che guidarla; dall’altro, il declino del binomio classi
lavoratrici-partito di massa, lungi dal liberare soggettività
rivoluzionarie (le tesi dell’operaismo di ogni tempo e
declinazione), rende intermittenti e difficilmente cumulative le
esperienze dei movimenti, mentre il concetto di moltitudine resta
sfuggente...
micropolis, 26 aprile 2013
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