1.12.14

Giove con la sciarpa. Le osservazioni celesti di Italo Calvino

E' un piccolo capolavoro questo testo di Calvino, che fa dell'osservazione dei pianeti con un piccolo telescopio un'occasione di razionalizzazione del rapporto soggetto-oggetto e di scrittura esatta e fervida. Vivamente consigliato. (S.L.L.)
I pianeti hanno fatto notizia sui giornali di recente, per una ragione fasulla — l'«allineamento» rispetto al sole — che agli astronomi risulta priva di senso e a un semplice spettatore come me, che spera sempre di poter vedere qualcosa che non ha mai visto, non dà nulla di quanto poteva sperare.
Comunque sia, a sentir parlare di pianeti, ho pensato che da un i pezzo non m'era capitato di guardare il ciclo, e mi sono affrettato a farlo, dopo aver consultato la rivista “Astronomia”, benemerito bimestrale edito a Como, che da per ogni mese le mappe celesti e gli orari di visibilità dei pianeti. Risulta che, allineamento o meno, il 1982 per guardare i pianeti è proprio un'ottima annata, e aprile uno dei mesi migliori, perché i tre pianeti esterni visibili a occhio nudo (anche da un miope e astigmatico come me), Marte, Giove e Saturno, si possono vedere durante tutta la notte per tutto il mese.

La sfida di Arturo
In queste notti di luna piena, col cielo che non diventa mai nero, Marte, pur essendo vicino al gran-de specchio lunare inondato di luce, si fa avanti imperioso col suo fulgore ostinato, col suo giallo così centrato e denso, diverso da tutti «gli altri gialli del firmamento, al punto che si finisce per convenire di chiamarlo rosso, e nei momenti ispirati per vederlo rosso davvero.
Scendendo con lo sguardo, seguitando verso levante un arco immaginario che dovrebbe congiungere Regolo a Spica (ma Spica quasi non si vede), s'incontra ben distinto Saturno, dalla luce bianca e freddina, e più in giù ancora ecco Giove, che raggiunge il suo massimo splendore in questi giorni, d'un giallo vigoroso che dà sul verde. Le stelle intorno sono tutte impallidite tranne Arturo che brilla con aria di sfida un po' più in alto verso oriente.
Al telescopio (il piccolo telescopio da 15 cm. di Monte Mario, che la cortesia del professor Buonvino ha messo a disposizione del mio sguardo) Marte è un pianeta più perplesso di quanto non sembri a occhio nudo: pare abbia tante cose da comunicare di cui riesco a mettere a fuoco solo una piccola parte, come in un discorso farfugliato e tossicchiante. Un alone scarlatto sporge intorno all'orlo; vado regolando la vite cercando di rincalzarlo, per far risaltare la crestina di ghiaccio del polo inferiore; macchie affiorano e spariscono sulla superficie come nuvole o squarci tra le nuvole; una si stabilizza in forma e posizione d'Australia e mi convinco che più distinta la vedo più sono a fuoco, ma nello stesso tempo m'accorgo che sto perdendo altre ombre di cose che mi sembrava di vedere o che mi sentivo tenuto a vedere.
Insomma se Marte è quel pianeta sul quale da Schiapparelli in poi se ne sono dette tante, causando alternative d'illusioni e delusioni, mi pare che ciò coincida con la difficoltà di stabilire un rapporto con lui, come con una persona dal carattere difficile. (A meno che la difficoltà di carattere non sia tutta mia: invano cerco di sfuggire alla soggettività rifugiandomi tra i corpi celesti).
Tutto il contrario è il rapporto che stabilisco con Saturno, il pianeta che più dà emozione a chi lo guarda attraverso un telescopio: eccolo nitidissimo, bianchissimo, esatti i contorni della sfera e dell'anello; una leggera rigatura di paralleli zebra la sfera; una circonferenza più scura separa il bordo dell'anello; questo telescopio non capta quasi altri dettagli e accentua l'astrazione geometrica dell'oggetto; il senso d'una lontananza estrema anziché attenuarsi risalta più che a occhio nudo.
Che in ciclo stia ruotando un oggetto così diverso da tutti gli altri, una forma che raggiunge il massimo di stranezza col massimo di semplicità e di regolarità e d'armonia, è un fatto che mi rallegra la vista e il pensiero. Se avessero potuto vederlo come ora lo vedo io, gli antichi avrebbero creduto d'aver spinto il loro sguardo nel ciclo delle idee di Piatone, o nello spazio immateriale dei postulati d'Euclide; invece quest'immagine, per chissà quale disguido, arriva a me che temo sia troppo bella per essere vera, troppo accetta al mio universo immaginario per appartenere al mondo reale. Ma forse è proprio questa diffidenza verso i nostri sensi che ci impedisce di sentirci a nostro agio nell'universo. Forse la regola che devo pormi è questa: attenermi a ciò che vedo.
Ora mi sembra che l'anello oscilli leggermente, o il pianeta dentro l'anello, e l'uno e l'altro ruotino su se stessi; in realtà è la mia testa che oscilla, obbligato come sono a torcere il collo per applicare l'occhio all'oculare del telescopio; ma mi guardo bene dallo smentire a me stesso quest'illusione che coincide con la mia aspettativa così come con la verità naturale.

Anelli intrecciati
Saturno è veramente così. Dopo il Voyager 2 ho seguito tutto ciò che s'è scritto degli anelli: che sono fatti di particelle microscopiche; che sono fatti di scogli di ghiaccio separati da abissi; che le divisioni tra gli anelli sono solchi in cui ruotano i satelliti spazzando la materia e addensandola ai lati, come cani da pastore che corrono intorno al gregge per tenerlo compatto; ho seguito la scoperta d'anelli intrecciati che poi si sono risolti in cerchi semplici molto più sottili; e la scoperta di striature opache disposte come raggi della ruota, poi identificate in nubi gelide. Ma le nuove notizie non smentiscono questa figura essenziale, non diversa da quella che per primo vide Giandomenico Cassini nel 1676 (scoprendo la divisione tra gli anelli che porta il suo nome).
Oggetto sempre nuovo, Saturno si presenta ogni volta rinnovando la meraviglia della prima scoperta, e il rammarico che Galileo col suo sfocato cannocchiale non sia arrivato a farsene che un'idea confusa, di corpo triplice o di sfera con due anse, e quando già era vicino a capire com'era fatto la vista gli venne meno, e tutto sprofondò nel buio.
Fissare troppo a lungo un corpo luminoso stanca la vista; chiudo gli occhi; passo a Giove.
Nella sua mole maestosa ma non grave, Giove ostenta due strisce equatoriali come una sciarpa guarnita di ricami intrecciati, d'un verde cilestrino. Effetti di tempeste atmosferiche immani si traducono in un disegno ordinato e calmo, d'elaborata compostezza. Ma il vero sfarzo di questo pianeta lussuoso sono i suoi sfavillanti satelliti, ora in vista tutti e quattro lungo una linea obliqua, come uno scettro splendente di gioielli.
Scoperti da Galileo e da lui chiamati «medicea sidera», «astri dei Medici», ribattezzati poco dopo con nomi ovidiani — Io, Europa, Ganimede, Calisto — da un astronomo olandese, i pianetini di Giove sembrano irradiare un ultimo bagliore di Rinascimento neoplatonico, come ignari che l'ordine impassibile delle sfere celesti si è dissolto, proprio per opera del loro scopritore.
Un sogno di classicità avvolge Giove; fissandolo col telescopio resto in attesa d'una trasfigurazione olimpica. Ma non riesco a mantenere nitida l'immagine: devo chiudere per un momento le palpebre, lasciare che la mia pupilla abbagliata dal suo fulgore ritrovi la percezione precisa dei contorni, dei colori, delle macchie, ma anche far sì che la mia immaginazione rinunci a sfoggiare i drappeggi d'un sapere libresco e ritrovi la prima similitudine che m'era venuta in mente e che avevo scacciata perché incongrua: il pianeta che ondeggia coi satelliti in fila come bollicine d'aria che s'alzano dalle branchie d'un tondo pesce degli abissi, luminescente e striato...

“la Repubblica”, ritaglio senza data, ma aprile 1982

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