E' un piccolo capolavoro questo testo di Calvino, che fa dell'osservazione dei pianeti con un piccolo telescopio un'occasione di razionalizzazione del rapporto soggetto-oggetto e di scrittura esatta e fervida. Vivamente consigliato. (S.L.L.)
I pianeti hanno fatto
notizia sui giornali di recente, per una ragione fasulla —
l'«allineamento» rispetto al sole — che agli astronomi risulta
priva di senso e a un semplice spettatore come me, che spera sempre
di poter vedere qualcosa che non ha mai visto, non dà nulla di
quanto poteva sperare.
Comunque sia, a sentir
parlare di pianeti, ho pensato che da un i pezzo non m'era capitato
di guardare il ciclo, e mi sono affrettato a farlo, dopo aver
consultato la rivista “Astronomia”, benemerito bimestrale edito a
Como, che da per ogni mese le mappe celesti e gli orari di visibilità
dei pianeti. Risulta che, allineamento o meno, il 1982 per guardare i
pianeti è proprio un'ottima annata, e aprile uno dei mesi migliori,
perché i tre pianeti esterni visibili a occhio nudo (anche da un
miope e astigmatico come me), Marte, Giove e Saturno, si possono
vedere durante tutta la notte per tutto il mese.
La sfida di Arturo
In queste notti di luna
piena, col cielo che non diventa mai nero, Marte, pur essendo vicino
al gran-de specchio lunare inondato di luce, si fa avanti imperioso
col suo fulgore ostinato, col suo giallo così centrato e denso,
diverso da tutti «gli altri gialli del firmamento, al punto che si
finisce per convenire di chiamarlo rosso, e nei momenti ispirati per
vederlo rosso davvero.
Scendendo con lo sguardo,
seguitando verso levante un arco immaginario che dovrebbe congiungere
Regolo a Spica (ma Spica quasi non si vede), s'incontra ben distinto
Saturno, dalla luce bianca e freddina, e più in giù ancora ecco
Giove, che raggiunge il suo massimo splendore in questi giorni, d'un
giallo vigoroso che dà sul verde. Le stelle intorno sono tutte
impallidite tranne Arturo che brilla con aria di sfida un po' più in
alto verso oriente.
Al telescopio (il piccolo
telescopio da 15 cm. di Monte Mario, che la cortesia del professor
Buonvino ha messo a disposizione del mio sguardo) Marte è un pianeta
più perplesso di quanto non sembri a occhio nudo: pare abbia tante
cose da comunicare di cui riesco a mettere a fuoco solo una piccola
parte, come in un discorso farfugliato e tossicchiante. Un alone
scarlatto sporge intorno all'orlo; vado regolando la vite cercando di
rincalzarlo, per far risaltare la crestina di ghiaccio del polo
inferiore; macchie affiorano e spariscono sulla superficie come
nuvole o squarci tra le nuvole; una si stabilizza in forma e
posizione d'Australia e mi convinco che più distinta la vedo più
sono a fuoco, ma nello stesso tempo m'accorgo che sto perdendo altre
ombre di cose che mi sembrava di vedere o che mi sentivo tenuto a
vedere.
Insomma se Marte è quel
pianeta sul quale da Schiapparelli in poi se ne sono dette tante,
causando alternative d'illusioni e delusioni, mi pare che ciò
coincida con la difficoltà di stabilire un rapporto con lui, come
con una persona dal carattere difficile. (A meno che la difficoltà
di carattere non sia tutta mia: invano cerco di sfuggire alla
soggettività rifugiandomi tra i corpi celesti).
Tutto il contrario è il
rapporto che stabilisco con Saturno, il pianeta che più dà emozione
a chi lo guarda attraverso un telescopio: eccolo nitidissimo,
bianchissimo, esatti i contorni della sfera e dell'anello; una
leggera rigatura di paralleli zebra la sfera; una circonferenza più
scura separa il bordo dell'anello; questo telescopio non capta quasi
altri dettagli e accentua l'astrazione geometrica dell'oggetto; il
senso d'una lontananza estrema anziché attenuarsi risalta più che a
occhio nudo.
Che in ciclo stia
ruotando un oggetto così diverso da tutti gli altri, una forma che
raggiunge il massimo di stranezza col massimo di semplicità e di
regolarità e d'armonia, è un fatto che mi rallegra la vista e il
pensiero. Se avessero potuto vederlo come ora lo vedo io, gli antichi
avrebbero creduto d'aver spinto il loro sguardo nel ciclo delle idee
di Piatone, o nello spazio immateriale dei postulati d'Euclide;
invece quest'immagine, per chissà quale disguido, arriva a me che
temo sia troppo bella per essere vera, troppo accetta al mio universo
immaginario per appartenere al mondo reale. Ma forse è proprio
questa diffidenza verso i nostri sensi che ci impedisce di sentirci a
nostro agio nell'universo. Forse la regola che devo pormi è questa:
attenermi a ciò che vedo.
Ora mi sembra che
l'anello oscilli leggermente, o il pianeta dentro l'anello, e l'uno e
l'altro ruotino su se stessi; in realtà è la mia testa che oscilla,
obbligato come sono a torcere il collo per applicare l'occhio
all'oculare del telescopio; ma mi guardo bene dallo smentire a me
stesso quest'illusione che coincide con la mia aspettativa così come
con la verità naturale.
Anelli intrecciati
Saturno è veramente
così. Dopo il Voyager 2 ho seguito tutto ciò che s'è scritto degli
anelli: che sono fatti di particelle microscopiche; che sono fatti di
scogli di ghiaccio separati da abissi; che le divisioni tra gli
anelli sono solchi in cui ruotano i satelliti spazzando la materia e
addensandola ai lati, come cani da pastore che corrono intorno al
gregge per tenerlo compatto; ho seguito la scoperta d'anelli
intrecciati che poi si sono risolti in cerchi semplici molto più
sottili; e la scoperta di striature opache disposte come raggi della
ruota, poi identificate in nubi gelide. Ma le nuove notizie non
smentiscono questa figura essenziale, non diversa da quella che per
primo vide Giandomenico Cassini nel 1676 (scoprendo la divisione tra
gli anelli che porta il suo nome).
Oggetto sempre nuovo,
Saturno si presenta ogni volta rinnovando la meraviglia della prima
scoperta, e il rammarico che Galileo col suo sfocato cannocchiale non
sia arrivato a farsene che un'idea confusa, di corpo triplice o di
sfera con due anse, e quando già era vicino a capire com'era fatto
la vista gli venne meno, e tutto sprofondò nel buio.
Fissare troppo a lungo un
corpo luminoso stanca la vista; chiudo gli occhi; passo a Giove.
Nella sua mole maestosa
ma non grave, Giove ostenta due strisce equatoriali come una sciarpa
guarnita di ricami intrecciati, d'un verde cilestrino. Effetti di
tempeste atmosferiche immani si traducono in un disegno ordinato e
calmo, d'elaborata compostezza. Ma il vero sfarzo di questo pianeta
lussuoso sono i suoi sfavillanti satelliti, ora in vista tutti e
quattro lungo una linea obliqua, come uno scettro splendente di
gioielli.
Scoperti da Galileo e da
lui chiamati «medicea sidera», «astri dei Medici»,
ribattezzati poco dopo con nomi ovidiani — Io, Europa, Ganimede,
Calisto — da un astronomo olandese, i pianetini di Giove sembrano
irradiare un ultimo bagliore di Rinascimento neoplatonico, come
ignari che l'ordine impassibile delle sfere celesti si è dissolto,
proprio per opera del loro scopritore.
Un sogno di classicità
avvolge Giove; fissandolo col telescopio resto in attesa d'una
trasfigurazione olimpica. Ma non riesco a mantenere nitida
l'immagine: devo chiudere per un momento le palpebre, lasciare che la
mia pupilla abbagliata dal suo fulgore ritrovi la percezione precisa
dei contorni, dei colori, delle macchie, ma anche far sì che la mia
immaginazione rinunci a sfoggiare i drappeggi d'un sapere libresco e
ritrovi la prima similitudine che m'era venuta in mente e che avevo
scacciata perché incongrua: il pianeta che ondeggia coi satelliti in
fila come bollicine d'aria che s'alzano dalle branchie d'un tondo
pesce degli abissi, luminescente e striato...
“la Repubblica”,
ritaglio senza data, ma aprile 1982
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