Lo chiamavano Ramses II, qualcuno anche
Mefistofele, ma per l'anagrafe era Pierfranco. L'ho conosciuto nel
Sessantotto, sì, proprio l'anno fatidico, in facoltà. Riservato
come un monaco di clausura e timido fino alla paura, portava occhiali
da miope, scuri, quasi a nascondersi. Voce nasale e tono basso.
Ma non passava inosservato. Curava
meticolosamente un curioso ornamento del volto, un lungo pizzetto che
s'arrotolava su se stesso in termine, grazie all'azione di un
bigodino. E questo ricordava le immagini dei Faraoni e le barbe
caprine, tipiche dei diavoli di prima classe. I palermitani
identitari aggiungevano perciò un altro soprannome, “Vaibbuzza”
(barbetta), con quella “iota” sottopronunciata che nella loro
parlata ha spesso il posto della “erre impura” dei toscani.
Sembrava ben preparato, per l'età, e
di molte cose curioso, si mostrava riflessivo e ragionatore. Era
iscritto a Filosofia, del resto, anche se subiva – come tanti –
l'attrazione fatale dell'Istituto di Psicologia e di Gastone
Canziani. Psicologia e psicanalisi, del resto, erano ancora elemento
di novità e di rottura nella cultura umanistica italiana, dominata
dal crocianesimo che le considerava pseudoscienze.
Culturalmente e politicamente Ramses
era un concentrato di contraddizioni. Uno dei suoi condiscepoli di
Psicologia l'attribuiva a un ingorgo psichico; non ho mai saputo se
questo “ingorgo” rientrasse nel linguaggio tecnico della
disciplina o fosse una metafora prodotta dal nostro collega. Si
definiva “cattolico”, ma “del dissenso”; diceva di essere
“marxista con i non marxisti e non marxista con i marxisti”; era
iscritto al “Fronte Nazionale Siciliano”, un gruppo politico che
diceva nato da una scissione a sinistra del MIS (il Movimento per
l'Indipendenza della Sicilia di Finocchiaro Aprile che nel dopoguerra
aveva avuto un gran seguito). Di questo gruppo “separatista di
sinistra” lui dichiarava di essere la sinistra estrema, classista e autogestionaria.
Una volta, alla fine di una assemblea,
ci si divertiva a scrivere slogan sul lavagnone. Corradino Mineo
recuperò una frase dall'addio a Lugano di Gori “La pace tra gli
oppressi la guerra agli oppressori”; Ramses, vincendo per una volta
la timidezza, scrisse molto grande “la Sicilia sarà il nostro
Vietnam”.
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