25.1.15

Anna Maria Ortese. Lettere e letture (Gian Maria Annovi)

Anna Maria Ortese
«Spiegarti questo orrore segreto di partecipare alla cultura italiana di buon livello – è impossibile. Sai, sarebbe come rientrare malvestiti e invecchiati in una casa di potenti – dove tutti sono sempre vestiti in modo impeccabile, e soprattutto sono rimasti gli stessi».
Il senso di disagio rispetto all’ambiente letterario italiano che Anna Maria Ortese esprimeva in una delle lettere all’amico Dario Bellezza, da poco raccolte in un volume curato da Adelia Battista e intitolato Bellezza, addio (Archinto, pp. 103, euro 15), è pari solo a quello per i decenni in cui il nome di questa straordinaria scrittrice, dopo un esordio fortunato, è stato di rado pronunciato.
Di fianco alla sua opera, in un giusto contrappasso, molti dei romanzi del Novecento mostrano oggi i propri limiti quando non appaiono consunti dal tempo trascorso, proprio come abiti fuori moda. Questo, ovviamente, solo agli occhi di chi crede alla Letteratura, ossia per pochissimi, perché – come Ortese notava in un lontano scritto sul carteggio di Cechov e Gorki, ora ripubblicato da Monica Farnetti insieme ad altri suoi splendidi scritti letterari, «non c’è forse, dopo l’Italia, un altro Paese al mondo dove ciascun abitante abbia come massima ambizione lo scrivere, e ce n’è pochi altri dove quel che ciascuno scrive (…) scivoli, per così dire, sull’attenzione dell’altro, come la pioggia su un vetro».
Se qualcosa ci mostra il carteggio tra Ortese e Bellezza, testimonianza di un’amicizia ventennale, è un grande e rarissimo esercizio di attenzione da parte di quest’ultimo nei confronti dell’opera dell’amica. Della scrittrice del Mare non bagna Napoli Bellezza condivide la visione profondamente deformata e dolorosa del reale, la compartecipazione alla sofferenza degli oppressi, ma soprattutto il sentimento di mostruosità della condizione dello scrittore in un mondo che «va diventando – o ritornando naturale e muto, salvo il gran rumore del niente». Anche Bellezza si sentiva «una bestia che parla», proprio come la verdastra protagonista del romanzo L’Iguana (1965), l’esempio più brillante dell’inclassificabile sperimentalismo ortesiano e in assoluto uno dei capolavori della letteratura italiana del secolo scorso, che il poeta – morto di Aids nel 1996 – volle sepolto con sé.
Il ritratto di Anna Maria Ortese che emerge dal carteggio è quello di uno scrittore in lotta con la parola («in certi giorni, la parola salta, scompare proprio fisicamente»), alle prese con difficoltà esistenziali ed economiche che solo il sussidio Bacchelli, ottenuto proprio su interessamento di Bellezza e di altri intellettuali riuscirà in parte ad alleviare prima del successo inaspettatto de Il cardillo addolorato (1993), che farà della scrittrice ormai ottantenne un caso letterario internazionale. In un universo abitato da apparizioni e visioni, il mondo di una «zingara assorta in sogno», come ebbe a dire Italo Calvino, scrivere per Ortese «è essere reali» e leggere diventa un modo per intensificare questo senso di realtà altrimenti sempre sfuggente. Lo mostrano proprio gli scritti giornalistici di Da Moby Dick all’Orsa Bianca (Adelphi, pp. 187, euro 13) dedicati ad altri grandi scrittori e pubblicati tra il 1939 e il 1994 su giornali e riviste: «leggere una pagina di Cecov (sic), è come mettere l’occhio su un vetro nitidissimo e guardare scorrere la vita».
Per questa lettrice, che nella sua postfazione Monica Farnetti rovesciando il titolo di una celebre raccolta di saggi di Virginia Woolf, definisce una uncommon reader, la letteratura è un modo di vedere la vita da un’angolazione totalmente altra, e allo stesso tempo «un’esigenza di verità, di resistenza al male, dovunque esso sia», come scrive a proposito del Diario di Anna Frank.
Attraverso una scrittura sorprendente, che nulla ha a che vedere con quella della critica letteraria cui siamo oggi abituati, ma che si fa a sua volta vibrante accadimento di letteratura, Ortese ci parla di quelli che considera fratelli e sorelle maggiori: tra questi Elsa Morante, che come lei ha creduto nella «inesistenza», Leopardi «che intese e sofferse tutte le nostre disperazioni», ma soprattutto scrittori stranieri come Thomas Mann ed Ernest Hemingway, «un pezzo di mare e di vento, un pezzo di cielo, e una fitta di sole», cui è dedicato un commuovente e insieme vitalissimo ricordo in occasione della sua morte.
Da lettrice davvero poco comune, se non unica, Ortese non ci invita tanto al rispetto per la grande letteratura, ma ci mostra come attraverso di essa ci si possa educare alla libertà del pensiero.


“il manifesto”, 11 ottobre 2011

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