28.1.15

Architettura. Toccate e fuga di Ludovico Quaroni (Manuel Orazi)

San Giuliano di Mestre. In alto i grandi edifici circolari del CEP, progettati da Ludovico Quaroni
Alla fine del suo saggio Gli architetti e il fascismo (Einaudi 1989), Giorgio Ciucci indicava chiaramente quelli che, nella cultura architettonica italiana del Dopoguerra, sarebbero stati i pilastri, coloro cioè a cui sarebbe toccato il compito di ricostruire materialmente e moralmente un paese e una disciplina dopo le tragiche morti di Giuseppe Pagano, Edoardo Persico e Giuseppe Terragni.
I quattro pilastri – tutte figure paterne, tranne Ridolfi – erano, in ordine di anzianità, Giuseppe Samonà direttore dello Iuav di Venezia, unica isola felice della modernità italiana; Mario Ridolfi con la ciclopica impresa del Manuale dell’architetto (portata avanti insieme e grazie a Bruno Zevi); Ernesto Nathan Rogers e il Movimento di Studi per l’Architettura (Msa) che riuniva a Milano architetti e intellettuali come Enzo Paci intorno alla rivista «Casabella-Continuità»; e infine, a Roma, Ludovico Quaroni con la sua «ricerca sul quartiere». Ovviamente i protagonisti del dopoguerra sono stati molti di più, alcuni dei quali sottovalutati perché conservatori, in politica e no (Saverio Muratori, Luigi Moretti, Gio Ponti) – ma quella di Quaroni è stata una ricerca in più direzioni, sicuramente la più inquieta.

La stagione del neorealismo
Nato a Roma cento anni or sono, Ludovico Quaroni si laurea nel 1934 e l’anno successivo apre lo studio professionale insieme a Muratori e Francesco Fariello, con i quali vincerà il concorso per la piazza imperiale all’E42, oggi Eur – dove la pulizia del disegno viene inficiata dall’uso, per le colonne, non del marmo, ma di una scadente pietra scura imposta da un gerarca, proprietario delle cave. Sin dall’inizio della carriera, dunque, Quaroni (allora ventitreenne) è votato al lavoro di gruppo, ma anche al compromesso: la sua ricerca di una sintesi fra razionalismo e classicismo è coeva al suo impegno di assistente universitario di Piacentini, Del Debbio, Plinio Marconi, vale a dire alcuni fra i più strenui avversari dell’architettura moderna italiana.
La seconda guerra mondiale mette fine a questa stagione formativa e vede Quaroni catapultato prima in India e poi, già dalle prime fasi del conflitto, prigioniero dagli inglesi in Etiopia, dove rimarrà cinque lunghi anni a meditare sulla fine del regime e di un’intera epoca. Tornato a Roma nel 1946, aderisce all’Apao, l’associazione per l’architettura organica diretta da Zevi e per circa un decennio si lega a doppio filo con Mario Ridolfi. Verrebbe anzi da dire che quasi si nasconda dietro di lui, sia nel concorso per la nuova stazione Termini, sia soprattutto nel quartiere InaCasa al Tiburtino, costruito fra il 1950 e il ’54 da un team allargato di cui fanno parte anche giovanissimi progettisti come il nipote comunista di Piacentini, Carlo Aymonino.
Il Tiburtino segna la stagione del Neorealismo architettonico che in opposizione al monumentalismo fascista cerca di tradurre in città le forme e i modelli della vita rurale, per avviare così i nuovi immigrati dalle campagne alla vita urbana secondo modalità ibride ben viste sia dalla Dc fanfaniana sia dal Pci di Guttuso e Alicata. Ancora una volta però si tratta di una ricerca di sintesi fra due entità irriducibili, città e campagna, e sarà lo stesso Quaroni il primo a fare autocritica già pochi anni dopo definendo il suo quartiere un paese dei barocchi: «non è il risultato d’una cultura solidificata, d’una tradizione viva: è il risultato d’uno stato d’animo».

Autoanalisi e autocritica
Nel villaggio La Martella invece, nei dintorni di Matera, ancora frutto di un gruppo di progettazione allargato, nel 1951 Quaroni cerca di portare un po’ di urbanità nel nuovo quartiere destinato a ospitare gli sfollati dei Sassi, che prima convivevano in condizione di miseria assoluta e di promiscuità con gli animali; si tratta certamente di una delle pagine più commoventi e generose della ricostruzione scritta peraltro insieme con Adriano Olivetti. È infatti l’industriale e filantropo piemontese ad animare queste e altre esperienze riformatrici in alcune fra le zone più arretrate del meridione. Non a caso a Quaroni, vincitore del premio Olivetti nel 1956, viene dedicata una monografia pubblicata dalle Edizioni di Comunità nel 1964 da uno dei suoi numerosissimi allievi, Manfredo Tafuri.
Come Quaroni, anche Tafuri – sebbene su un altro piano, quello storiografico – sarà maestro del dubbio e del ripensamento, dell’autoanalisi e dell’autocritica. Quegli «stati d’animo» così caratteristici della cosiddetta scuola romana sono alla base di svolte continue, di slanci ideali in seguito rinnegati e infine rimossi: ouverture, toccate, fughe e contrappunti per usare i termini dell’arte forse più cara a Quaroni, peraltro raffinato collezionista di strumenti musicali e profondo amante delle variazioni Goldberg di Bach. Secondo Franco Purini, anch’egli suo allievo, la coltivazione del dubbio ha avuto senz’altro una funzione positiva per coloro i quali sono stati poi capaci di superarla imboccando una strada propria, mentre è stata negativa per la maggioranza assoluta, per i meno sicuri di sé che hanno trasformato il dubbio in interdizione verso qualsiasi strada possibile. (Il che, aggiungiamo noi, è piuttosto grave per chi – come Quaroni – è stato non solo maestro, ma relatore di tesi di laurea per una intera generazione di architetti romani, che a loro volta sono diventati docenti occupando le facoltà di mezza Italia o creandone altre ex novo).

Ai due lati della laguna
Secondo Purini, comunque, Quaroni resta una figura fondamentale per la ricerca problematica della via italiana all’architettura moderna, anche se non lo è stato dal punto di vista formale. Una certa insicurezza lo ha portato sempre a circondarsi di collaboratori e associati, spesso di vaglia, sebbene eterogenei, e gli esiti compositivi non potevano che essere differenti: neorealisti al Tiburtino e a Matera, votati verso la megastruttura nella stagione successiva del progetto per l’Asse attrezzato di Roma (1967) o per il nuovo centro governativo di Tunisi (1969).
Giustamente il Maxxi (che ha come senior curator un altro suo allievo, Pippo Ciorra) dedica una piccola mostra al progetto di Quaroni più felice e noto, quello per i grandi edifici circolari Cep alle barene di San Giuliano di Mestre del 1959 – esempio di una architettura della grande dimensione aperta verso la laguna in un abbraccio che era al tempo stesso anche l’allegoria della sintesi fra architettura e urbanistica, quella sintesi auspicata dal suo alleato Giuseppe Samonà, che dall’altro lato della laguna aveva appena dato alle stampe L’urbanistica e l’avvenire delle città (Laterza 1959).

Un’impresa misconosciuta
E un’allegoria è anche il titolo del libro pubblicato nella collana Polis diretta da Aldo Rossi per Marsilio, La torre di Babele, del 1967 – cosa ci faceva Quaroni nella collana di un architetto opposto per temperamento e da cui era stato duramente contestato al convegno olivettiano sull’urbanistica di Arezzo del ‘63? Nel 1939 Quaroni aveva svolto una ricerca dal titolo L’architettura delle città in cui distingueva una coppia dialettica focus/tessuto urbano che ricorda molto quella degli elementi primari/area che è al centro dell’Architettura della città di Rossi del 1966. Nel testo del ’67 Quaroni dà una sua interpretazione positiva del valore conoscitivo della forma, ma le affinità si fermano qui e nella stessa prefazione al libro Rossi liquida Quaroni ingabbiandolo all’interno della sua teoria dell’architettura.
Eppure il riavvicinamento con Rossi sarà solo il preludio a un’ultima grande impresa, la più misconosciuta, ma anche una delle migliori fra tutte le azioni quaroniane: la direzione, alla metà degli anni ’70, della splendida collana «Planning & Design» per la casa editrice Gabriele Mazzotta di Milano che, nata pochi anni prima, aveva già un ricco catalogo d’arte. La madre tedesca aveva reso naturale la propensione di Quaroni verso movimenti e autori tradizionalmente poco studiati in Italia. A lui dobbiamo infatti la prima traduzione di testi fondamentali dell’architettura del ‘900 come Da Ledoux a Le Corbusier: origine e sviluppo dell’architettura autonoma di Emil Kaufmann, Lo studio delle piante e la progettazione degli spazi negli alloggi minimi di Alexander Klein, l’antologia della rivista espressionista Frühlicht o ancora La corona della città di Bruno Taut a proposito del quale malignamente – ma giustamente – Quaroni consigliava a Rossi e Scolari, che lo avevano appena arruolato fra i padri del Neorazionalismo della Tendenza, di ricordare le origini espressioniste, dunque irrazionali, dello stesso razionalismo.

Compositore di intelligenze
A questi titoli già di per sé considerevoli si alternavano ristampe di classici antichi (i trattati settecenteschi di Francesco Milizia e Andrea Memmo) e moderni (Il modulor di Le Corbusier) oltre a una serie di saggi di giovani storici, architetti, urbanisti e sociologi (Vieri Quilici, Giorgio Muratore, Giandomenico Amendola) su temi che spaziavano dalla città rinascimentale alla Russia costruttivista fino a pioneristici studi sulle città sudamericane di Manuel Castells oggi così in voga, tenendo sempre insieme architettura e urbanistica. E forse la dimensione editoriale è quella che più corrisponde a Quaroni: quella di un compositore di intelligenze, complesso e contraddittorio come una collana editoriale, frutto di un lavoro collettivo (autori, curatori, traduttori) e di molti compromessi. Un lavoro che in ultima analisi assomiglia maledettamente al destino dell'architettura.


“il manifesto”, 30 novembre 2011

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