15.1.15

Pasolini e i suoi delfini (di Alberto Asor Rosa)

Un Asor Rosa lucidissimo a una cerimonia della Fgci per la beatificazione di Pasolini, alla metà degli anni Ottanta. Egli capiva come pochi che cosa stava accadendo, anche se non s'accorgeva come il processo regressivo in atto negli anni di Craxi (e di Reagan e della Thatcher) fosse appena agli inizi. Ora che il cerchio della modernizzazione conservatrice sembra chiudersi, con il movimento operaio sconfitto, con potentati e oligarchie sempre più potenti ed oligarchici, con la macchina della disuguaglianza che funziona a pieno regime, Pasolini può essere fatto santo e il suo sogno di restaurazione dell'umile Italia popolana e povera può assolvere pienamente alla funzione consolatoria, che ha quasi sempre l'ideologia.
Anch'io credo, con l'Asor Rosa di quei tempi, che a un alto grado di elaborazione poetica, anche quando alimentata dall'ideologia più nostalgica e consolatoria, corrisponda - strutturato dall'immaginazione artistica - un nocciolo positivo di conoscenza che può essere estratto e persino usato. Così nel Pasolini che denunciava la fine delle lucciole e che meglio di altri mostrava, da poeta, quanta barbarie vi fosse nella rivoluzione consumistico-democratica che aveva cambiato l'Italia tra gli anni Sessanta e i primi Settanta. Resta vero quello che mio padre, uomo di destra ma con gli occhi aperti, mi disse una volta: “Oggi un operaio se la passa meglio del re di una volta: mangia meglio, si veste in modo più appropriato, sente meno freddo e meno caldo, campa di più, viaggia di più, vede e conosce molte più cose. E fa il figlio dottore o architetto”. Lui pretendeva che fosse persino più libero di un re per la mancanza di preoccupazioni, segno che la condizione operaia l'avvertiva da padrone (piccolo, ma padrone); ma nel complesso non si sbagliava. Già oggi le cose non vanno più in quel modo; e andranno sempre peggio. E non ci aiuteranno molto a cambiarle in meglio i pasolinisti della decrescita. (S.L.L.)

Un dibattito intorno all'attualità del "messaggio" pasoliniano, organizzato dalla Fgci nazionale e tenutosi giorni or sono a Roma, con la partecipazione di Pietro Ingrao, Enzo Siciliano, Beppe Vacca e mia, ha suscitato echi e reazioni; ed Enzo Forcella, su queste stesse colonne, vi ha dedicato cortesi e penetranti osservazioni.
Credo che il contributo migliore al chiarimento di talune questioni consista da parte mia nel fornire la stesura dell'intervento in quella sede da me pronunciato. Eccolo.
Vorrei precisare, innanzi tutto, che siamo stati chiamati a discutere non del Pasolini scrittore, ma del Pasolini polemista e ideologo, o, per meglio dire, della possibilità di un "uso" politico e civile oggi del Pasolini uomo di cultura e personaggio pubblico. Nessuno meglio di me vede gli intrecci tra questi due aspetti della sua personalità. Tuttavia, una distinzione evidentemente è possibile, visto che questa stessa distinzione viene messa dai giovani comunisti al centro del dibattito. Si vuol sapere da noi, insomma, se l'analisi che Pasolini ha fatto di un certo spaccato storico della società italiana resiste al tempo, anzi, risulta per più versi precorritrice, e si pone come un punto di riferimento utile e legittimo per gli italiani d' oggi: soprattutto per i giovani italiani d'oggi. La mia risposta è questa (sarebbe stata diversa, se ci fosse stato chiesto di parlare di Pasolini scrittore e poeta). Ho sempre dubitato, se non dell'efficacia polemica, del rigore analitico di certe definizioni di Pier Paolo Pasolini.
Cominciamo dall'inizio. Il tema del dibattito propostoci ingloba di peso una di queste definizioni, forse la più famosa. Dice infatti: "Fuori dal Palazzo: intellettuali e potere". Questa formula si presta a infiniti equivoci: dice troppo; esprime una aspirazione, ma generica, di liberazione; e al tempo stesso la confonde banalmente con i bisogni di una pratica politica spicciola ed onnivora, di cui anche i giovani comunisti sono - e non possono non essere - partecipi. Fuori dal Palazzo: ma cosa significa questa formula, se la misuriamo con le incombenze delle professioni e del vivere civile, alle quali, se mi guardo intorno, nessuno di noi veramente si sottrae? Io sono da sempre dentro quel Palazzo del Potere che è la Scuola (e, a dir la verità, è una delle cose di cui mi vergogno meno). Altri, qui fra noi, sono in quel Palazzo della Politica che è Botteghe Oscure. Altri - a fare del bene o del male, ma, certo, sempre con enorme strazio e difficoltà - dentro quel Palazzo per antonomasia che è il Palazzo di Giustizia. Altri ancora dentro quel Palazzo dei Palazzi che è il Parlamento italiano. Altri ancora dentro i Palazzi dello Spettacolo e della Carta Stampata, altrettanto potenti e labirintici di tutti gli altri già rammentati. Che vuol dire, dunque: Fuori dal Palazzo? Vuol dire: "Fuori dal Palazzo!". Oppure: "Fuori dal Palazzo?". E' un' intimazione, un' implorazione o una domanda? C' è qualcuno che ci chiede seriamente di uscirne? Oppure ci si chiede conto semplicemente di come ci stiamo, di cosa ci facciamo?
La risposta - non è difficile capirlo - muta nei due casi profondamente. Nel secondo, infatti, il discorso si sposterà sulle forme e sulle pratiche del potere: sull'architettura del Palazzo, più che sulla sua negazione. Nel primo caso, invece, - e io voglio dire con chiarezza che l'ipotesi che ne risulta mi sembra altrettanto legittima e forse più comprensibile oggi dell' altra - la negazione del Palazzo metterà decisamente in secondo piano i problemi della sua architettura. Ma allora è la cornice politica dentro cui questo dibattito si svolge e tale domanda viene posta, che non tiene più; che, anzi, diffonde su tutto il nostro discorso un'ombra equivoca e strumentale.
"Intellettuali e potere" - la seconda parte del nostro tema - assume anch'essa una valenza duplice e contraddittoria, a seconda che la frase: "Fuori dal Palazzo", si pronunzi: "Fuori dal Palazzo!", o: "Fuori dal Palazzo?". Allora, diciamo che è un'inutile ipocrisia non voler ammettere che il nesso intellettuali/potere in tanto si pone, in quanto l'intellettuale ha accettato di stare dentro un qualche Palazzo. Se ne sta fuori - e l'ipotesi mi sta bene, anzi benissimo, a patto che all'intellettuale non si chieda poi tutto quello che in genere tutti, anche i giovani comunisti, gli chiedono - l'intellettuale non ha potere alcuno; e il nesso sarebbe posto in maniera più corretta se si scrivesse, non "intellettuali e potere", ma: "o intellettuale o potere".
O intellettuale o potere: questo sì, è il nesso veramente tragico, la contraddizione non inventata ma reale, con cui occorrerebbe misurarsi con atteggiamento più lucidamente stoico e disincantato di quanto solitamente non accada. Che dico: occorrerebbe. Con cui, in verità, ci si misura ogni qual volta - e accade tutti i giorni - siamo spinti dalla nostra perdurante (per quanto tante volte frustrata e disillusa) passione politica e civile a trascinare il nostro progetto intellettuale, il nostro essere intellettuale, nelle aule sempre più squallide dei meccanismi istituzionali e dell'informazione. E' una contraddizione reale, vissuta, sofferta. Una contraddizione che oscilla fra una solitudine sempre più assoluta e totale (nei confronti anche dei più vecchi compagni e amici) e la miseria pressoché obbligata (e difficilmente esorcizzabile) della frequentazione, del contatto e dell'"impegno". Ed è per giunta una contraddizione che tende a gonfiarsi col tempo. E se è reale, e crescente, come capire perché lo sia, - e perché ci porti così lontano dal polemismo del Pasolini corsaro - senza dare un giudizio sulla situazione italiana, sul che cosa è realmente accaduto e sul che cosa è per accadere?
A mio giudizio è accaduto questo. Tra l' inizio degli anni Sessanta e la metà degli anni Settanta c'è stata una grande avanzata della società e della cultura italiana: non una grande, ma una grandissima rivoluzione sociale, culturale e morale. Più libertà di pensiero (molta, molta di più); una grande crescita dei soggetti individuali e collettivi; una memorabile affermazione della razionalità operaia; una catena di rotture traumatiche nel costume tradizionale; il superamento tendenziale della mai abbastanza deprecata peculiarità italiana; e - consensentitemi di dirlo con estrema franchezza, e anche provocatoriamente -, intrecciata indissolubilmente con tutto il resto, che senza quest'ultimo fattore non avrebbe potuto neanche essere, una potente affermazione della civiltà dei consumi.
Non esito a dirlo: sono un intellettuale comunista che si schiera a favore dell'omologazione e della denazionalizzazione, se con tali termini s'intende quell'insieme di processi così ben descritti dal vecchio Marx nella quarta Sezione del Capitale e in molti punti dei Grundrisse, quando individuava nell'accumulazione capitalistica quel formidabile (e feroce) fattore di "eguagliamento" della società, delle abitudini e delle esistenze umane, senza il quale non si sarebbe neanche potuto pensare di iniziare un processo politico di trasformazione. Insomma, tutto quello che Pasolini in quegli anni trovava negativo e condannabile, io l'ho trovato positivo, auspicabile e straordinariamente esaltante.
Come potrei, ora, riconoscermi nella postuma rivendicazione delle sue condanne? Ciò che allora serviva era ben altro che una condanna del nuovo emergente e delle lacerazioni inevitabili da questo inferte al tessuto della tradizione (di qualsiasi tradizione). Soltanto le "anime belle" del progressismo d'ogni tempo e paese si sarebbero potute immaginare un percorso di questa portata come dolce, lineare e consolatorio. In ogni grande salto di civiltà c'è un elemento di barbarie. E un elemento di barbarie c' è stato senza dubbio in questa Italia, che io mi sforzo, evidentemente senza successo, di rievocare. Ma questo elemento di barbarie va allevato ed educato nel quadro della civiltà che muta: non distrutto.
E' avvenuto il contrario: il sistema politico italiano nel suo complesso - senza eccezioni, lo vorrei precisare - ha respinto indietro, insieme con l'elemento di barbarie, anche l'Italia anticonservatrice e profondamente antidemocristiana, che rompeva con la società arcaico-contadina e anche - se vogliamo restare al tema - con la felice appartatezza del Friuli e dell'Appennino pasoliniani. Non ho bisogno di dilungarmi troppo sugli esiti di questo processo, che sono sotto gli occhi di tutti. E' come se un'onda, alzatasi fino a lambire minacciosamente gli scalini del potere, si fosse ritirata e placata. Il potere si è ripreso a poco a poco - ma da un certo momento in poi sempre più velocemente - tutto ciò che era stato costretto a mollare: a dimostrazione ulteriore che l'accumulazione non è mai lineare, che possono esserci rotture e salti all'indietro, se non c'è l'intervento delle forze soggettive e coscienti. E, come sempre accade quando fanno difetto le analisi razionali e quando c'è un tracollo di quell'elementare presupposto ad ogni azione che è la piena coscienza di sé, assistiamo in questi ultimi anni ad una ripresa orgiastica di ideologia; quell'ideologia che proprio noi credevamo di aver colpito al cuore per sempre proprio nel corso degli anni Sessanta. Del resto, questo non dipende dalla responsabilità di nessuno. Quando si verificano certe condizioni, c'è come una sorta di automatismo in questa coazione a ripetere, in questa esposizione fieristica del dejà vu: nel vuoto del sapere e dell' essere è dilagata, come sempre, la falsa coscienza. Si costruiscono in fretta veri e propri "sistemi di salvataggio", delle zattere della Medusa, dove, senza accorgercene, si mangia tutti lo stesso cibo, cioè la propria carne, perché non ce n' è un altro. Oppure si trasferiscono di peso i vecchi concetti, la vecchia strumentazione ideologica sui nuovi miti, perchè di un Mito, in una cultura mitologica, comunque non si può fare a meno: il pasolinismo come ruota di scorta del vecchio progressismo antifascista.
Questo discorso non ha una conclusione, né poteva averla, dato il suo taglio. Per me, per quanto mi riguarda, non vale la pena che di tentare di riallacciare il filo spezzato. Ma mi guardo bene dallo scendere sul terreno delle indicazioni, dei suggerimenti, dei consigli. Potrei dire soltanto che mi ha incuriosito, attraverso questo ciclo di celebrazioni pasoliniane, assistere in vitro proprio ad uno di quei processi di omologazione culturale che, per altri versi, vengono criticati e condannati da quelli stessi i quali li realizzano. Anche Pasolini, adesso, ha una sua collocazione "positiva" nella coscienza di molti. Lo scandalo, fattosi lezione, tende a diventare senso comune; e questo lo si avverte persino nel clima di questa serata. E' del tutto normale, lo dico senza ironia. La dimostrazione d'interesse e di partecipazione che questi giovani comunisti hanno suscitato intorno all'attualità di Pasolini, rivela essa stessa che - effettivamente - Pasolini è, almeno per loro, attuale. Non resta che prenderne atto. Per me, in un certo senso, anche questa non è che una riprova dell'assunto iniziale. Anche qui fra noi, anche fra questi giovani, o intellettuale o potere. Un'altra conferma che vale la pena di ascoltare (il che non significa, certo, seguire, né imitare) soltanto gli intellettuali inattuali.


“la Repubblica”, 15 ottobre 1985  

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