15.1.15

Il mestiere di critico. Mario Baratto legge il Decameron (Alberto Asor Rosa)

La "brigata" dei narratori. Un'antica
miniatura per il Decameron di Boccaccio
Ho riletto recentemente Realtà e stile nel "Decameron" di Mario Baratto nella ristampa fattane dagli Editori Riuniti ad un decennio circa di distanza dalla prima edizione (riproposta, del resto, pressoché integralmente): e mi sono sorpreso a interrogarmi sulle qualità di durata e d'intatta freschezza di un testo, il cui autore confessa, nell'Avvertenza alla suddetta ristampa, di aver sempre diffidato "non certo del metodo, ma di ogni furore teorico". Mi sono dato questa risposta: che nell'avventura critica italiana contemporanea, densa di dibattiti, acquisizioni e "infeudamenti" metodici e teorici di ogni genere, un posto di assoluto rilievo dovrà essere riservato a quelle personalità, non molto frequenti, che hanno concepito il "mestiere del critico" principalmente come esercizio d'interpretazione dei testi e come puntigliosa fedeltà allo spirito dei classici, piuttosto che come dimostrazione di tesi preconcette e difesa di posizioni ideologiche e politico-culturali.
Non che - s'intende - in Baratto manchi una sicura preparazione metodologica e un' ampia esperienza culturale: allievo di Luigi Russo, erede della parte migliore della tradizione storicistica italiana (quella che, per l'appunto, sapeva anch'essa mettersi al servizio di una effettiva cultura storica, invece di usarla ai fini di una qualsiasi "battaglia delle idee"), Baratto aveva poi conosciuto, durante una lunga esperienza di studio e d'insegnamento in Francia, le aperture problematiche di una critica sempre più insofferente delle formule generiche e un po' stanche, a cui il nostro accademismo verso gli anni '60 veniva volgendosi. Ma, forse perché delle problematiche formalistiche e strutturalistiche aveva una conoscenza più diretta e immediata, e quindi anche più disincantata, non ne aveva assorbito meccanicamente le suggestioni metodiche, ma piuttosto l'incitamento a scendere più in profondità nelle pieghe del testo, lasciando però intatto il presupposto di ogni visione storica del fatto letterario, e cioè il "farsi persona" dell'opera, quale prodotto specifico e irripetibile di una determinata individualità creatrice.
Si presti attenzione alla struttura di questo libro sul Decameron di Giovanni Boccaccio. Il suo punto di partenza, il suo assunto metodico - che si potrebbe definire in qualche modo classico, fra De Sanctis e Auerbach - è l'unità strutturale del testo, fondata a sua volta sulla connessione tra storicità della posizione boccacciana e le capacità d'invenzione e rielaborazione, la moralità e le concezioni stilistiche e retoriche dello scrittore trecentesco. Ma poi l'analisi, invece di restar chiusa nelle assunzioni di carattere generale, si dispiega come un'elencazione progressiva di assaggi (La novella esemplare, Il contrasto, La commedia, Il gusto evocativo, ecc.), ciascuno dei quali taglia trasversalmente quell'unità presupposta e a poco a poco la restituisce per mezzo di una esemplare concretezza e vitalità di osservazioni stilistiche, tematiche, culturali, psicologiche e, perchè no?, di gusto (di buon gusto, vorrei precisare).
Non c' è traccia, se non mediata, di annose querelles storiografiche (Boccaccio medievale / Boccaccio umanista; Boccaccio realista / Boccaccio retore; ecc.): se è possibile usare questa formula, direi che l' apparato metodologico-critico risulta perfettamente assimilato in un tentativo di ricostruzione fedele dell'autore del Decameron, che passa attraverso il tratteggio progressivo di tutti gli aspetti fondamentali della sua concreta fisionomia scrittoria. Questo tipo di "genio" critico è esattamente lo stesso che, in anni ancora più lontani, aveva fatto di Baratto lo scopritore (o il riscopritore fecondo) di alcuni dei nostri talenti teatrali più autentici, come Ruzante, Aretino e Goldoni. Il filone della "commedia", non a caso approfondito anche nel Decameron, che nell'interpretazione di Baratto si presenta quasi come il lontano archetipo teatrale delle più recenti invenzioni cinquecentesche e settecentesche, costituisce infatti una specie di omaggio a quei valori di autenticità, di freschezza, di anticonformismo e di modernità, di cui la nostra storia letteraria è così povera, e che il critico veneziano coglie invece istintivamente come per una consonanza profonda di atteggiamenti e di mentalità.
Tutti quelli che conoscono Mario Baratto sanno, inoltre, che egli è un raro esempio di coincidenza tra l'essere critico e l'essere uomo, militante, amico, conversatore e dispensatore di cultura. Le comunità intellettuali sono fatte anche di queste cose, difficilmente descrivibili e ancor più difficilmente trasmissibili; la cultura, quando è autentica, passa attraverso tutti i pori della comunicazione, e la parola scritta, purtroppo, ne costituisce solo una parte, anche quando è prestigiosa e coerente, come in questo caso. Mario Baratto è morto il 10 maggio scorso, al suo posto di lavoro e di responsabilità, è proprio il caso di dirlo. Ma noi preferiamo continuare ad usare per lui il tempo della presenza, quello che non passa: la letteratura è un bene indefinibile, lo sappiamo, ma Baratto è fra quelli che hanno insegnato ad averne una concezione vivente. Al di là dei singoli debiti personali, che sono tanti, va ricordato per questo.


“la Repubblica”, 15 giugno 1984  

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