17.2.15

Inquisizione: i processi alla scienza. Bruno, Galilei, Campanella (Romano Canosa)

Giordano Bruno
Romano Canosa è figura significativa della storia italiana del Novecento. 
Abruzzese, entrò in magistratura nel 1961, a 26 anni. Fu uno dei cosiddetti “pretori d'assalto”, quel gruppo di giovani magistrati che già negli anni Sessanta cominciavano a pretendere una corrispondenza tra le leggi e la loro applicazione da una parte e i principi costituzionali dall'altra, portando più di una volta nei banche degli accusati rappresentanti di poteri forti, economico, burocratico e persino politico. Fu a lungo magistrato del lavoro e si deve a lui la sentenza sul reintegro dei trentamila licenziati dell'Alfa Romeo. Fu tra i fondatori e dirigenti di Magistratura Democratica, ma si allontanò dalla corrente per quelle che gli sembravano gravi incoerenze. Fu infine collaboratore assiduo del quotidiano comunista “il manifesto”. 
Parallela all'attività del magistrato civicamente impegnato fu quella di studioso. Prima storico del diritto e della giustizia (autore di una storia della magistratura in età repubblicana e della prima organica storia dell'Inquisizione cattolica in Italia) poi ampliò il campo degli interessi fino a diventare storico tout court. Scrisse tra l'altro una biografia del “fascistissimo” Farinacci. Morì nel 2010. 
L'articolo che qui riprendo senza note riguarda il “processo scientifico”, in particolare i processi di condanna da parte dell'Inquisizione di Giordano Bruno, Galileo Galilei, Tommaso Campanella. Lo pubblico in occasione dell'anniversario dell'assassinio sul rogo di Giordano Bruno, ricordando oltre alla sua grande figura, anche quella degli altri due martiri della ragione. (S.L.L.) 
Galileo Galilei
Il processo politico costituisce una specie del genere «processo penale». E innegabile che i criteri per determinare quale comportamento umano costituisca «delitto», e quale no, sono sempre fìssati dal potere politico. Altrettanto innegabile è che questo potere si ispira all'obiettivo primario della sua conservazione, quando decide quali comportamenti debbano essere «puniti».
In questo senso non è azzardato definire ogni delitto in ultima analisi come un «delitto politico». Ma - normalmente - la espressione delitto politico viene utilizzata in maniera più ristretta: designa infatti un settore più limitato di condotte criminali e cioè quelle che ledono «direttamente» il sistema politico esistente (nei suoi schemi di conservazione-riproduzione, nei suoi individui rappresentativi, nella sua base di classe ecc.), mentre delitti «comuni» sono considerati quelli che questo sistema ledono soltanto «indirettamente» (in quanto violano le regole che il sistema, che pure le ha poste, e ne impone il rispetto, non considera di rilievo primario per la sua sopravvivenza).
Il processo politico regola la punizione dei comportamenti del primo tipo; il processo «comune» quella dei secondi. Va subito notato che i comportamenti che possono mettere a repentaglio eli interessi di fondo di un sistema politico non sono quasi mai determinabili a priori. Un sistema di potere a base religiosa può, ad esempio, ritenersi minacciato nei suoi interessi vitali quando le credenze sulle quali si basa sono messe in discussione.
La affermazione e diffusione di principi teorici diversi da quelli dominanti in materia cosmologica o cosmogenica (più importanti, per le grandi religioni istituzionali, di quelli etici) diventano allora delitto politico. E il processo eventualmente utilizzato dagli apparati di dominio per risolvere la contraddizione diventa un processo politico a pieno titolo.
Il Seicento è l'epoca classica del «processo politico-scientifico». Questo processo, caratterizzato all'inizio dalla presenza di elementi ulteriori rispetto alle opinioni scientifiche degli imputati, raggiunge lo stato di processo scientifico «puro» con Galileo.
Il primo grande processo di questo tipo è quello contro Giordano Bruno. Il Bruno, condannato dalla Inquisizione per una serie di comportamenti ritenuti non ortodossi (negare la transustanziazione, mettere in dubbio la verginità di Maria, aver soggiornato in paesi eretici, avere scritto contro il Papa, sostenere l'esistenza di mondi innumerevoli e eterni, sostenere la metempsicosi, ritenere la magia buona e lecita, identificare lo Spirito Santo con l'anima del mondo, affermare che Mosè ebbe a simulare i suoi miracoli e a inventare la legge, affermare che la Scrittura è un sogno, sostenere che persino i demoni alla fine si salveranno, credere nella esistenza dei preadamiti, ecc.) venne, dopo sette anni ininterrotti di carcerazione, dichiarato “eretico impenitente pertinace e ostinato” e consegnato al governatore di Roma (8 febbraio 1600). Una settimana dopo fu bruciato in Campo di Fiori.
Ritorneremo alla fine sul suo comportamento processuale. Abbiamo elencato sommariamente le imputazioni per le quali Bruno venne inquisito e condannato. Se alcune di esse attengono a questioni puramente religiose e altre a comportamenti materiali (una delle imputazioni originarie, risalente al periodo veneziano, era che egli era caduto spesso nel «peccato della carne») ne esiste un nucleo residuo innegabilmente costituito da teorie scientifico-filosofiche. Le dottrine dell'universo infinito e eterno, della magia naturale, del moto della terra ecc., anche se formulate con toni «fantastici» e assai poco «quantitativi», esprimono una visione «naturale» del mondo incompatibile con la religione cattolica, quale era allora formulata.
Tommaso Campanella
Un altro processo nel quale imputazioni «scientifiche» e filosofiche compaiono accanto a imputazioni religiose o, addirittura, puramente politiche è quello che coinvolse Tommaso Campanella. Non è qui il caso di soffermarsi sulla vita del monaco calabrese e sulle sue traversie. Ci limiteremo soltanto alla indicazione delle accuse rivoltegli. Gli si imputava, tra l'altro, di sostenere che non c'è Dio, ma soltanto la natura che noi chiamiamo Dio, che tutti i sacramenti della Chiesa sono diritti dei principi o esigenze degli Stati e che non c'è altro, che i sacramenti non sono stati istituiti da Dio, ma dalle opinioni degli uomini, che il sacramento della Eucaristia è una bagatella e non il corpo ed il sangue di Cristo, che non esistono Demoni e neppure l'inferno e il paradiso, che la vergine Maria non era vergine, che l'atto venereo è lecito, che l'eclissi alla morte del Cristo non era stata miracolosa e universale, ma naturale e particolare, che l'autorità del Papa era usurpata e tirannica: di avere lo stesso Campanella, con altri coimputati, tentato una rivoluzione nelle province della Calabria e del regno di Napoli, di avere inviato una ambasceria ai turchi che aveva loro promesso aiuto in questa impresa, ecc.; di avere credutoche l'anima razionale è mortale ecc..
Anche sul comportamento processuale di Campanella ritorneremo alla fine.
Un processo «scientifico» puro viene celebrato invece contro Galileo. Nel 1616 Galileo, che si trova a Roma, viene convocato dal cardinale Bellarmino e invitato a non esprimersi troppo apertamente a favore del sistema copernicano.
Il contenuto del «colloquio» è così descritto dallo stesso Bellarmino in una dichiarazione rilasciata a Galileo il 26 maggio dello stesso anno: «Noi Roberto Cardinale Bellarmino, havendo inteso che il Signor Galileo Galilei sia calunniato o imputato di bavere abiurato in mano nostra, et anco di essere stato per ciò penitenziato di penitenzie salutari; et essendo ricercati della verità, diciamo che il suddetto Signor Galileo non ha abiurato in mano nostra, né di altri qua in Roma, né meno in altro luogo che noi sappiamo, alcuna sua opinione o dottrina, né manco ha ricevuto penitenze salutari né d'altra sorte, ma solo gli è stata denuntiata la dichiarazione fatta da N.ro Sig.re et pubblicata dalla Sacra Congregatione dell'Indice, nella quale si contiene che la dottrina attribuita al Copernico, che la terra si muova intorno al sole et che il sole stia al centro del mondo senza muoversi da oriente ad occidente, sia contraria alle Sacre Scritture et però non si possa né difendere né tenere. Et in fede di ciò habbiamo scrina e sottoscritta la presente di nostra propria mano questo di 26 di maggio 1616».
Sembrava che tutto fosse finito e invece era solo l'inizio. Nel 1633, dopo che erano passati molti anni, con la pubblicazione da parte di Galileo dei Dialoghi sopra i due massimi sistemi del mondo, il tolemaico e il copernicano, il caso venne riaperto. L'elemento utilizzato dagli inquisitori per riavviare l'inchiesta fu un verbale del colloquio del 1616 tra Galileo e Bellarmino, tratto dagli archivi, nel quale si affermava che a Galileo era stata fatta una ingiunzione ufficiale e che egli si era impegnato a non trattare, insegnare o difendere in nessun modo la dottrina copernicana. Il verbale era in contrasto con la lettera del Bellarmino che prevedeva soltanto, come si è visto, il divieto di seguire o difendere le dottrine copernicane e non anche quello di utilizzarle «ex suppositione», vale a dire come ipotesi.
Il Bellarmino era nel frattempo morto e era quindi impossibile accertare quale era stato esattamente l'«invito» da lui trasmesso a Galileo. Il 16 giugno 1633 la congregazione del Sant'Ufficio decise che Galileo fosse interrogato «super intentione, etiam comminata ei tortura». Qualora avesse insistito nelle sue idee, previa abiura «de vehementi» in piena congregazione, avrebbe dovuto essere condannato al carcere a arbitrio della Sacra Congregazione. Gli avrebbe dovuto essere anche ingiunto di non occuparsi più né con scritti, né con parole della mobilità della terra e della stabilità del sole, sotto pena di essere dichiarato «relapsus».
Il 21 successivo egli fu di nuovo interrogato nell'aula delle Congregazioni del Sant'Ufficio. Rispose all'inizio di non aver cosa alcuna da dire, aggiunse poi: «Già da molto tempo cioè avanti la determinazione della Sacra Congregazione dell'Indice e prima che mi fusse fatto quel precetto, io stavo indifferente et havevo le due opinioni cioè di Tolomeo e di Copernico per disputabili perché o l'una o l'altra poteva essere vera in natura, ma dopo la determinatione sopraddetta, assicurato dalla prudenza de Superiori, cessò in me ogni ambiguità e tenni, sì come tengo ancora, per verissima et indubitata l'opinione di Tolomeo cioè la stabilità della Terra e la mobilità del sole».
Interrogato sul contenuto dei Dialoghi rispose: «Circa l'havere scritto il Dialogo già pubblicato non mi son mosso perché io tenga vera l'opinione copernicana, ma solamente stimando di fare benefitio commune ho esplicato le raggioni naturali ed astronomiche che per l'una e per l'altra parte si possono produrre, ingegnandomi di far manifesto, come né queste, né quelle, né per questa opinione, né per quella riavessero forza di concludere demostrativamente, e che perciò per procedere con sicurezza si dovesse ricorrere alla determinatione di più sublimi dottrine, sì come in molti luoghi di esso Dialogo manifestamente si vede. Concludo dunque dentro di me medesimo né tenere, né havere mai tenuto dopo la determinazione delli Superiori la dannata opinione». Le sue parole finali furono: «Io non tengo né ho tenuto questa opinione del Copernico, dopo che mi fu intimato con precetto che io dovessi lasciarla, del resto son qua nelle loro mani, faccino quello gli piace!».
Il giorno dopo, 22 giugno, fu pronunciata contro di lui la sentenza nella quale lo si dichiarava «vehementemente sospetto di eresia, cioè di haver tenuto e creduto dottrina falsa e contraria alle Sacre e divine Scritture, ch'il sole sia centro della terra e che non si muova da oriente ad occidente, e che la terra si muova e non sia centro del mondo, e che si possa tener e difendere per probabile una opinione dopo esser stata dichiarata e diffinita per contraria alla Sacra Scrittura».
Seguivano l'abiura, la proibizione del libro e la condanna al carcere formale ad arbitrio della Congregazione. Il processo era finito; e la condanna era andata all'essenziale (l'aver sostenuto le dottrine copernicane), superando senza apparenti difficoltà la circostanza che oggetto formale del processo era soltanto l'aver violato quanto ingiuntogli dal Bellarmino nel 1616.
Un altro processo nel quale teorie filosofico-scientifiche e opinioni in tema di religione sono commiste è quello degli «ateisti» napoletani della fine del Seicento. Nel marzo del 1688 si era presentato al vescovo di Teano, ministro delegato della Inquisizione a Napoli, tale Manuzzi per denunziare la esistenza a Napoli di un gruppo di persone (i principali accusati erano Basilio Ciancili e Giacinto de Cristoforo) che avevano creduto nella filosofia degli atomi e avevano perso la vera fede (le teorie lucreziane, ravvivate dagli studi di Gassendi e Cartesio, avevano un certo seguito all'epoca a Napoli).
Alcuni dei denunciati vennero incarcerati dai cursori del Sant'Ufficio. Le accuse comprendevano: l'aver sostenuto che Cristo non era figlio di Dio, ma soltanto un uomo di grande giudizio, che prima di Adamo erano esistiti altri uomini nel mondo e che quelli erano composti di atomi, come gli altri animali, che il papa non aveva alcuna potestà né temporale, né spirituale, che non vi erano paradiso, inferno e purgatorio, che non si devono adorare né venerare i santi e le loro immagini, che le cose del mondo si reggono sulla base della natura e non di Dio, che l'anima razionale era mortale, che non erano peccato né la fornicazione, né l'incesto ecc..
Il processo si concludeva, dopo alcuni anni, senza troppi danni per gli accusati, anche se alcuni di essi avevano nel frattempo subito lunghe carcerazioni. Uno degli ultimi processi di questo tipo, svoltosi a Napoli, fu quello contro Giovanni de Magistris, scrivano presso il Banco dell'Annunziata, e Carlo Rosito, farmacista. Accusati di aver sostenuto che l'uomo è formato di atomi, che il mondo non è stato creato a tempo da Dio, ma prodotto a caso dagli atomi, che il cielo è uno solo e che l'Empireo non esiste, che l'anima è mortale, che non esistono Dio e la Trinità, che il Papa aveva usurpato la sua autorità e, infine, che la liquefazione del sangue di S. Gennaro era falsa, furono condannati a dieci anni di carcere e all'abiura, quali eretici confessi e pentiti.
All'interno del processo «scientìfico» troviamo tutte le categorie del processo politico. Ha scritto Vergès: «La distinzione fondamentale che determina lo stile del processo penale è l'atteggiamento dell'accusato di fronte all'ordine pubblico. Se lo accetta, il processo è possibile e costituisce un dialogo tra l'accusato che spiega il proprio comportamento e il giudice i cui valori vengono rispettati. Se invece lo rifiuta, l'apparato giudiziario si disintegra: siamo allora al processo di rottura [...] Processo di rottura, processo di connivenza non rappresentano che schemi: la rottura non è mai totale, raramente perfetta la connivenza, la rassegnazione mai esente da rivolta».
Se esaminiamo le carte dei processi che abbiamo visto in precedenza, notiamo che i comportamenti degli imputati percorrono tutta la scala dei possibili passaggi, dal processo di connivenza a quello di rottura, spesso alternando atteggiamenti dell'uno tipo a quelli dell'altro, fino al tentativo di sottrarsi allo schema stesso del processo attraverso la simulazione della follia (Campanella). Non solo: spesso quello che era stato un processo di connivenza per tutta la fase istruttoria (a volte durata molti anni) diventa atteggiamento di rottura e rivendicazione orgogliosa del proprio pensiero al momento della conclusione del processo.
Si pensi a Bruno. Era stato «connivente» per i lunghissimi anni passati in carcerazione preventiva, confermando le parti meno pericolose del suo pensiero e negando le altre. Alla fine, tuttavia, aveva deciso che la arrendevolezza fino a allora mostrata andava abbandonata. Tra il settembre ed il dicembre 1599 egli aveva maturato questa decisione. Ai tentativi fatti dalla Sacra Congregazione di ottenere l'abiura egli rispondeva che non aveva mai sostenuto proposizioni ereticali, che le accuse in tal senso erano il frutto di un fraintendimento del suo pensiero e che non era affatto disposto a inchinarsi alle opinioni dei teologi, ma soltanto ai canoni e alle sacre scritture.
Condannato, ascoltò la sentenza in ginocchio, ma alla fine della lettura, si levò in piedi e disse: «Forse con maggiore timore pronunciate contro di me la sentenza di quanto ne provi io nel riceverla».
Se da Bruno passiamo a Galileo, notiamo un atteggiamento di «connivenza» tenuto sino alla fine, anche se la frase pronunciata nella seduta del 21 giugno 1633 «Del resto son qua nelle loro mani; faccino quello che gli piace» mostra che anche per lui il calice stava traboccando e che egli non era in grado di concedere alla accusa più di quanto aveva concesso fino ad allora (probabilmente questa ne prese atto e decise di arrivare a una rapida emanazione della sentenza).
Quanto a Campanella, la via da lui prescelta fu la simulazione della follia, via difesa con coerenza e coraggio anche sotto la tortura (Campanella fu sottoposto alla tortura della corda e a quella della «veglia»).
Resta da dire qualcosa sugli obiettivi di questi processi. Il fine perseguito attraverso l'apertura del processo politico non è quasi mai la ricerca della «verità», ma l'affermazione di una autorità nuova (si pensi a Saint-Just e alla sua frase: «Chi dà una qualche importanza al giusto castigo di un re non fonderà mai una repubblica») e la riaffermazione della vecchia, che sia riuscita a respingere con successo gli attacchi di chi aspirava a spodestarla.
Questa situazione si riproduce anche nel processo «filosofico-scientifico». Come ha notato De Santillana, alla fine anche Galileo aveva compreso che ai suoi inquisitori non importava affatto la verità, ma solo la riaffermazione dell'autorità. A questo fine non è necessario che i fatti imputati siano rigorosamente accertati nella loro consistenza materiale.
Il processo politico è di per se stesso la espressione di un disegno che è stato elaborato prima e fuori di esso e sul quale poca o nessuna influenza possono esercitare i concreti accadimenti che si svolgono durante il suo svolgimento.
Al termine del «gioco» processuale, l'autorità deve uscirne comunque rafforzata. Normalmente attraverso la condanna dell'imputato, qualche volta attraverso l'assoluzione, in ogni caso con sovrana indifferenza per la consistenza materiale dei fatti «dedotti in giudizio».

“se Scienza Esperienza”, Anno I, n.5, Luglio-agosto 1983

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