8.2.15

Persia 522 a.C. Colpo grosso di Dario il Grande (Maurizio Assalto)

L'immagine di Dario I trionfante nel rilevo rupestre di Bisutun
Il Gran Re si sentì gelare. Dopo tre anni lontano da casa, dacché era partito alla conquista del millenario Egitto, dovette pensare di essere di nuovo finito dentro un brutto sogno, come quella notte in cui gli era parso che un messaggero gli riferisse di suo fratello Smerdi assiso sul trono regale, con la testa che toccava il cielo. E ora ecco: davanti a suoi occhi un araldo venuto dalla capitale proclamava all'esercito che il sovrano dei Persiani non era più lui, Cambise II figlio di Ciro, che sul trono adesso sedeva Smerdi, a sua volta figlio di Ciro, e che a questo soltanto bisognava obbedire.
Non che i colpi di Stato fossero infrequenti, all'epoca, e nemmeno i colpi bassi fra parenti, come aveva dimostrato il loro padre comune quando marciò contro il proprio nonno materno Astiage, Gran Re dei Medi, e unificò i due regni fondando l'impero persiano. Il problema era un altro: era che Smerdi, secondo quanto risultava a Cambise, a quel tempo doveva essere morto e sepolto. Lui stesso ne aveva ordinata l'uccisione al suo uomo più fidato, Pressaspe, dopo quel sogno preoccupante. E dunque che cosa voleva quel messaggero, da dove spuntava, chi l'aveva mandato? A meno che Pressaspe...
Questa storia granguignolesca e un po' bislacca di doppi e tripli giochi, di congiure e controcongiure, e di congiura nella congiura, è stata tramandata nei dettagli da Erodoto, e per brevi accenni da diverse fonti greche, ma ci è nota anche attraverso un documento persiano decifrato nell'Ottocento, l'iscrizione di Bisutun. Fatta incidere dal Gran Re Dario, successore di Cambise, nella roccia dei monti Zagros, sulla via carovaniera che collegava Babilonia a Ectabatana, l'epigrafe riporta in prima persona il racconto del nuovo sovrano che celebra le proprie imprese: un testo che, essendo stato redatto pochi anni dopo i fatti, deve considerai più attendibile di quello di Erodoto. A meno che...

Un giallo di 2500 anni fa
Tra le due versioni, in molte parti coincidenti, bisogna sapersi districare. Bisogna confrontare, estendere il campo visuale, ricostruire i retroscena sottotaciuti, non lasciar passare i punti oscuri, non risparmiarsi nella ricerca del cui prodest, se vogliamo capirci di più in questo giallo di 2500 anni fa che si può ripercorrere come una cronaca d'oggi.
Quando ascoltò le parole dell'araldo mandato dal fratello che credeva ucciso, Cambise (in antico persiano Kambujiya, «nobile signore») mandò a chiamare il suo braccio destro: «Così hai eseguito il compito che t'affidai?». «O Signore, io stesso ho sepolto Smerdi con le mie mani. Se i morti resuscitano, aspettati pure che ti si ribelli anche il medo Astiage», si difese quello. E a proprio discarico portò la testimonianza dell' araldo, che ammise di non avere ricevuto gli ordini direttamente da Smerdi, ma da colui che Cambise aveva lasciato come amministratore della reggia: ossia il leader della potente casta sacerdotale dei Magi, depositari del nuovo verbo zoroastriano. A poco a poco, nella mente sconvolta di Cambise la verità cominciava a farsi strada.
Fin qui il racconto di Erodoto, che indulge non poco all'aneddotica risolvendo i fatti nella contrapposizione delle personalità. La realtà dovette essere un po' più complicata: a partire dal dissidio tra i due figli di Ciro II, che prese le mosse probabilmente dai problemi di successione aperti dall'improvvisa morte del padre, nel 530 a.C., e si alimentò nello scontro interno dell'aristocrazia persiana in merito alle onerose campagne militari. Cambise si era messo in testa di completare l'opera del grande genitore, vincitore dei Medi, dei Lidi e dei Babilonesi, e aveva osato l'inosabile: annettersi il paese dei faraoni. Era partito nel 525, dopo essersi assicurato il sostegno logistico di Arabi e Fenici, e con un vero e proprio Blitzkrieg aveva espugnato Menfi e deposto Psammetico III. Ma i guai dovevano ancora venire.

Despota vanesio e brutale
In Egitto il Gran Re si diede a ogni sorta di eccessi, umiliando il sovrano sconfitto, massacrando giovani inermi, profanando tombe e oltraggiando cadaveri, irridendo la religione e i costumi locali. Erodoto costruisce l'immagine di un despota vanesio, impulsivo e brutale (fra le sue vittime anche la sorella-moglie Meroe, uccisa in un accesso d'ira), in opposizione a quella idealizzata di Ciro il Grande, secondo la tradizionale catena che dalla hybris, il comportamento che viola la giusta misura, inevitabilmente conduce all'ate, l'accecamento che è anche, nel contempo, la rovina di chi ne è colpito: e pone così i presupposti di quella coazione a ripetere che rappresenta la peculiare maledizione della dinastia achemenide, e che segnerà la parabola di Serse, figlio dì Darlo, nella versione eschilea dei Persiani (che è però antecedente).
Sia attendibile o meno questo ritratto di maniera - e pare proprio che il povero Cambise sia stato vittima di una colossale campagna denigratoria postuma -, resta il fatto che dopo i successi iniziali il Gran Re si trovò alle prese con una serie di difficoltà impreviste: fallita sul nascere la spedizione contro Cartagine, sepolta da una tempesta di sabbia l'armata in marcia verso il tempio di Amon, nell'oasi di Siwa, decimato l'esercito che lui stesso guidava attraverso il deserto alla conquista dell'Etiopia, con i soldati ridotti alla disperazione dalla fame e costretti a mangiarsi l'un l'altro. In patria serpeggiava il malcontento. Ed è in questa situazione che si colloca il colpo di mano di Smerdi (in persiano Bardiya), chiunque egli fosse. Erodoto ci dice che si chiamava Smerdi anche lui ed era il fratello del mago ammistratore del palazzo reale, dal quale era stato scelto per via della sua rassomiglianza con il mprincipe ucciso, la cui fine era rimasta segreta. L'iscrizione di Bisutun precisa il suo vero nome, Gaumata. In ogni caso l'interregno di un personaggio che si faceva chiamare Bardiya è storicamente certo, confermato da alcune coeve tavolette cuneiformi babilonesi datate, appunto, secondo il presunto fratello di Cambise.
Raggiunto in Siria, già sulla via del ritorno, dalle notizie che venivano dalla capitale Pasargan (Erodoto parla invece di Susa), il Gran Re si accingeva a rientrare di gran carriera quando un banale incidente, o forse un complotto ordito nella sua cerchia, lo tolse di mezzo. Era il 522, aveva regnato sette anni e cinque mesi. Nei sette mesi successivi, Smerdi-Gaumata governò senza problemi l'immenso impero persiano, accattivandosi il favore dei sudditi con una serie di provvedimenti popolari come resezione triennale dalle tasse e dal servizio militare. Finché, nell'ottavo mese, la verità venne a galla.

Il fine giustifica i mezzi
Sette fra i più eminenti aristocratici persiani si accordarono allora per rovesciare il falso Smerdi. Sui loro nomi le fonti concordano: oltre a Otane, colui che aveva smascherato l'inganno, c'erano Intafrene, Gobria, Megabizo, Telarne, Aspatine (al posto di questo, l'iscrizione di Bisutun riporta Ardomanes); ultimo Dario (Darayawus; «colui che confida nel dio») figlio di Istaspe, appartenente a un ramo cadetto degli achemenidi. E fu proprio Dario a stringere i tempi, nel timore che uno di loro finisse col tradire: «O agiamo oggi stesso, o sappiate che nessuno mi preverrà nel farsi mio accusatore, ma sarò io stesso a denunciare la faccenda al Mago». I congiurati penetrarono senza difficoltà, dato il loro rango, nel palazzo reale, uccisero i due fratelli e la giornata si concluse con un bagno di sangue, con la gente che dava la caccia a tutti i magi sorpresi per le strade con un impeto nazionalistico che Erodoto spiega con le origini mede degli impostori.
Restava da scegliere il nuovo sovrano, dal momento che Cambise non aveva lasciato eredi. I sette decisero di affidarsi alla sorte: il trono sarebbe toccato a chi, fra loro, fosse in sella al cavallo che all'alba dell'indomani avrebbe nitrito per primo. Ebbe la meglio il figlio di Istaspe, con la complicità truffaldina dello scudiere Ebare che passò la mano sui genitali di una cavalla in calore e al momento opportuno la accostò alle narici del destriero di Dario. Il fine giustifica i mezzi, e il fine era il dominio sul più grande e potente impero mai apparso nella storia.
Appena insediato, il Gran Re dovette affrontare le ribellioni delle popolazioni periferiche che approfittavano dell'instabilità politica centrale. Falsi discendenti spuntavano un po' ovunque, accampando diritti al trono per sé e rivendicando l'indipendenza per i loro popoli. Dario ci mise qualche anno a risolvere la grana, prima di lanciarsi in una politica di conquiste che si sarebbe arrestata soltanto nel 490, alle porte di Atene, con la disfatta di Maratona. Intanto si occupava di riorganizzare l'impero, trasferiva la capitale a Susa e fondava Persepoli, sposava la figlia di Ciro (e sorella-vedova di Cambise) Atossa, aderiva a una forma «demagizzata» della religione di Ahura Mazda, proclamata da Zoroastro.

La storia riscritta
Fine degli intrighi, dunque, e tutto chiaro? Forse no. Mettendo a confronto le testimonianze antiche con i risultati delle ricerche storiche e archeologiche successive, e riflettendo sulle contraddizioni e le inverosimiglianze di tutta la vicenda, si è fatto strada negli studiosi un sospetto che via via è diventato (quasi) una certezza.
Facciamoci caso. Chi aveva interesse a ridimensionare il movimento dei Magi, interpreti di una versione «pura» del mazdeismo, con ambizioni di riforma religiosa e sociale e pericolose tendenze all'ingerenza negli affari dello Stato? E chi aveva tutto da guadagnare dall'eliminazione dei discendenti legittimi di Achemene, che precludevano ogni speranza a chi venisse da un ramo collaterale? Dario, sempre Dario: abile nell'inserirsi negli eventi, e nel piegarli a proprio vantaggio.
E l'ultimo colpo di scena: il falso Smerdi non sarebbe in realtà falso, ma sarebbe l'autentico fratello di Cambise che a un certo punto si ribellò appoggiandosi al magismo. Approfittando della situazione Dario, il vero usurpatore, avrebbe ottenuto due risultati in un colpo solo. E intorno al 519, ormai saldo al potere, avrebbe riscritto a modo suo la storia, sulla collina di Bisutun, accanto al bassorilevo che lo rappresenta nell'atto di schiacciare la testa all'agonizzante Bardiya-Gaumata: «Mentre Cambise era in Egitto lo Stato divenne eretico, la falsità era in tutto il paese [...]. Non c'era nessuno così ardito da resistere a Gaumata, finché venni io [...]. La corona che era uscita dalla nostre stirpe io la recuperai [...]. Io proibii i riti che Gaumata aveva introdotto, io ristabilii nello Stato i sacri canti...».


“La Stampa”, 24 settembre 2006

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