8.2.15

Rosso pompeiano (Noemi Ghetti)

Al Museo Archeologico di Napoli la grandiosa collezione dei dipinti sepolti dall’eruzione del Vesuvio del 79 d.C.
Museo Archeologico di Napoli - Amore e Psiche
Grande impressione suscitò il diffondersi, alla metà del Settecento, della notizia dei primi occasionali ritrovamenti delle città sepolte dall’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. Gli scavi presto si intensificarono, e le città della piana partenopea divennero la meta più ambita del grand tour, esperienza di formazione considerata indispensabile dagli artisti e letterati che accorrevano in Italia da tutta Europa. Quando nel 1780, sei anni prima di Goethe, il giovane Canova visitò Pompei ed Ercolano, la casa dei Vettii, degli Amorini e la villa dei Misteri erano già state ritrovate, e si potevano ammirare nei siti originali. Molti altri dipinti, ritagliati senza tanti riguardi dalle pareti interamente decorate e incorniciati, erano entrati a far parte della quadreria regale borbonica, costituendo il primo nucleo della ricchissima raccolta del Museo Archeologico di Napoli.
La riapertura, dopo un decennio di chiusura, delle quaranta sale della collezione di pittura pompeiana, completamente ristrutturate, e la mostra dei dipinti restaurati e riportati alla freschezza che avevano quando furono riportati alla luce, offre l’occasione di rivivere le emozioni dei viaggiatori che a partire dal Settecento vennero a Napoli, alla ricerca delle sorgenti mediterranee della cultura europea.
Nel museo borbonico privato di Portici, Canova ebbe la rara opportunità di vedere anche la collezione Farnese, la più grande raccolta di sculture dell’antichità, che dal prossimo settembre sarà anch’essa, dopo un lungo intervallo, nuovamente esposta al Museo Archeologico di Napoli. Ma della scultura classica fin dal Cinquecento si sapeva abbastanza: la vera rivelazione fu la pittura. Il giovane scultore fu grandemente colpito dalla bellezza di quegli affreschi dai colori intatti, di grande espressività, profondità e luminosità, che rivelavano un volto tutto nuovo del mondo antico, molto lontano dall’ideale mascolino di "nobile semplicità e quieta grandezza" teorizzato dal neoclassicismo del Winckelmann. Una visione sublimata e ormai stereotipata dell’arte greco-romana, che risultava completamente smentita dalla fantasiosa grazia, dalla sensuale morbidezza e dal movimento delle immagini femminili ricorrenti con grande frequenza negli affreschi pompeiani. Nelle lussuose dimore di vacanza campane l’aristocrazia romana, lontana dai severi obblighi ufficiali della vita politica e militare della capitale, si lasciava andare alla propria sete di modi di vita più raffinati, che nella Campania felix, la terra feconda che si affaccia sul golfo della sirena Partenope, culla di arte, filosofia e cultura greca, erano di casa da secoli. Mai come in questo caso suonano vere le parole di Orazio: «La Grecia conquistata conquistò il rozzo vincitore».
Ricollocate nel suggestivo contesto di camere e triclini ricostruito per l’occasione, possiamo finalmente vedere nuovamente le scene di amori e di metamorfosi che sedussero i viaggiatori settecenteschi. Ecco gli amori di Piramo e Tisbe, di Nettuno ed Anfitrite, di Zeus ed Io trasformata in giovenca; ecco Polifemo, il feroce gigante monocolo, innamorato di Galatea, il forzuto Eracle intenerito per Onfale, Perseo che libera Andromeda dal mostro, e Narciso che volta le spalle ad Eco specchiandosi nella fonte; ecco il pius Aeneas, il progenitore di Roma devoto agli dei, che tiene tra le braccia Didone. E poi, amorini cacciatori, giocatrici di astragali e ninfe danzanti col corpo di botticelliana grazia appena velato, che Canova negli anni seguenti ricreò a memoria - il regale divieto ai visitatori di trarne schizzi era assoluto - «per solo studio e diletto», in monocromi e in tempere dai colori vivacissimi.
Nel fondo rosso delle pareti, colore dominante divenuto l’emblema della sontuosa pittura pompeiana, l’artista vide lo stupefacente ciclo pittorico della villa dei Misteri, con l’itinerario iniziatico della giovane sposa che scopre l’immagine maschile, il fallo dionisiaco sul vaglio di vimini, velato da un drappo color del vino. Non gli sfuggirono certamente le scene che in altre dimore rappresentavano momenti della favola di Amore e Psiche. La perturbante favola della fanciulla salvata da Amore, oscurata dalla cultura patriarcale e razionale del logos, circolava silenziosamente nel Mediterraneo trasportata dalle immagini della pittura, un secolo prima di essere tradotta in latino, da un’originale greco perduto, dall’africano Apuleio.
Giunto a Pompei, lo scultore poco più che ventenne incontrò non la Gradiva, la misteriosa giovane donna romana col capo velato che oltre un secolo dopo avrebbe attraversato con passo leggero la träumerei di Jensen, ma Psiche, la fanciulla nuda di sconvolgente bellezza vissuta in un tempo lontano, in un paese lontano di cui non si ricordava più il nome. Se ne innamorò, traendo da quell’incontro lo spunto per i suoi due capolavori più celebri.


Quotidiano “Terra” 12 maggio 2009

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