31.3.15

Dio e la roba. Mercanti fiorentini fra Medioevo e Rinascimento (Maria Corti)


Bonaccorso Pitti
Leggendo Mercanti scrittori, Ricordi nella Firenze tra Medioevo e Rinascimento, a cura di Vittore Branca (Rusconi, pagg. 603, lire 42.000) si ha come prima suggestione quella di confrontare queste più che suggestive memorie del passato con quelle, esistenti o immaginabili, di grandi industriali, managers, finanzieri d'oggi: metti un Agnelli, un Rusca, uno Jacocca. Agli uni e agli altri va dato come sfondo un periodo di crisi di ideali e poteri politici, di trasformazione radicale dell'economia e del rapporto fra privato e pubblico. Nello stesso tempo essi hanno in comune, a distanza di secoli, l'incontenibile desiderio di possedere, il prodigioso interesse verso la roba, come si diceva nel Trecento, e le regole per farla fruttare: il fiorino, moneta mediterranea ed europea, giocava il ruolo del dollaro e un giorno avrebbe dovuto fare i conti col ducato, moneta veneziana; magari come il dollaro con il marco. Ancora in comune può esserci una più o meno esplicita intenzione celebrativa della propria casata, fondatrice, attraverso vari membri e generazioni, di un impero economico.
Eppure c' è qualcosa di radicalmente diverso, che fa leggere col più grande interesse le pagine dei borghesi mercatanti medievali e rinascimentali anche ai non addetti ai lavori: è il sottile dissidio affiorante fra l'etica e pratica mercantile da un lato e l'etica religiosa dall' altro. Al proposito, nella sua vasta e acuta introduzione Branca, il maggiore esperto italiano in materia di mercanti scrittori, protagonisti e destinatari del Decameron, parla di una divaricazione, o meglio un bilicamento che si ripete assiduamente tra la fine del Tre e i primi del Quattrocento in vari di questi scrittori mercanti, come nel Dati, in Lapo Mazzei e nel Datini, il più poderoso e avventurato mercatante del tempo (Al nome di Dio e del guadagno era la sua impresa). Alcuni, come il mirabile Giovanni di Pagolo Morelli, con intelligenza del vivere sostituiscono al dissidio un equilibrio, anche se raggiunto con fatica; altri non ce la fanno e magari interrompono le memorie.
Tre testi sono editi da Branca per intero: il Libro di buoni costumi di Paolo da Certaldo (seconda metà del Trecento), i Ricordi di Giovanni di Pagolo Morelli (1371-1444), i Ricordi di Bonaccorso Pitti (1354-1432). Segue una antologia delle memorie di Domenico Lenzi, Donato Velluti, Goro Dati, Francesco Datini, Lapo Niccolini, Bernardo Machiavelli.
I tre testi integralmente riprodotti sono dovuti a tre personalità fra loro molto diverse, e diversamente atteggiate di fronte alla vita e alla scrittura. Né si trascuri il fatto che la stessa situazione politico-economica si evolve a Firenze con gli anni: ascesa ed espansione europea delle compagnie nel primo Trecento, successiva sostituzione dei banchi e delle holdings dalle operazioni meno avventurose, ma più calcolate ai fini di un nuovo capitalismo teso al governo della cosa pubblica. Paolo da Certaldo, imbevuto di moralismo didattico e gnomico, uomo senza dissipazioni, esperto di ragion di mercatura e ragion di famiglia, offre una serie di precetti spesso grevi, dove vita pubblica e privata sono regolate da rigide codificazioni. Inarrivabili alcuni giudizi: “Guàrdati non t'innamori di femina niuna se non è tua moglie; e pensa che tutte sono femine, e tutte sono fatte a uno modo: e però non porre più amore a l'una ch' a l'altra, ché troppo è grande pericolo”. Altro livello umano e artistico raggiungono i Ricordi di Giovanni di Pagolo Morelli: nella grande carrellata di uomini e cose, di fatti politici alternati a vicende familiari ed economiche si incontrano sia le disavventure sufficienti ad evitare la piatta uniformità del benessere, sia quel granello di originalità che mantiene le memorie in stato di grazia. Fra le disavventure la morte di familiari, la cui descrizione può assumere la pacata naturalezza di un evento quotidiano: “Sabato notte, a ore sette e mezzo, vegniente la domenica, a dì diciessette di settembre 1401, mi nacque una fanciulla della Caterina mia donna. Fecila battezzare a dì detto in Santo Giovanni: posile nome Telda e Margherita... Passò di questa vita a migliore a dì cinque d'ottobre anno Domini 1401, a ore sette: fecila riporre dove il suo fratellino, in Santa Trinità, nella sepoltura delli Spini. Idio la benedica”.
Ma la morte può restituirci il genio tremante e atterrito di un padre, quando a morire è il figlio adulto Alberto. Qui si leggono alcune fra le pagine più intense dei Ricordi, un monologo dove si sommano il cupo rimorso paterno di aver fatto lavorare a bottega il figlio tanto da sottrargli la gioia della giovinezza, e un conseguente senso di inutilità degli affari, della roba, della vita tutta: “Tu non volesti mai dalgli un'ora di riposo; tu non gli mostrasti mai un buon viso; tu nollo baciasti mai una volta che buon gli paresse... E in questi iscuri pensieri attristandomi, guardando verso monte Morello mi stava. E stando così, si diviò il mio pensiero ad Idio: e considerando la vita de' servi di Dio, mi venia mezzo pensiero d'ire la sera a starmi con que' romiti che abitano nel monte”.
Notevole la descrizione della peste del 1348, quando in una ora si vedea ridere e motteggiare il brigante (=membro di una brigata) e nell'ora medesima il vedevi morire; e suggestivi i consigli sull'affiancare la lettura di Virgilio, Seneca, Boezio alla mercatura, in quanto dai classici ti seguirà gran virtù nel tuo intelletto. E qui merita riflettere su quel connubio cultura-attività pratica, non sempre visibile negli operatori economici odierni. Altra natura, altro tipo di carica memorativa nei Ricordi di Bonaccorso Pitti, e ormai quasi altro genere letterario: una raccolta di dati memoriali che da libro di famiglia sta sfociando in autobiografia. “Nel 1375 essendo io giovane e sanza alcuno avviamento e desiderando d'andare per lo mondo a cercare la ventura, m'accompagnai con Matteo de lo Scielto Tinghi, il quale era mercatante e grande giucatore”, due passioni a cui Bonaccorso dovrà ingegnosi piaceri del vivere, inseriti fra le vicende di membro di una così illustre casata: eccolo vagare per l'Europa, da Zagabria a Buda (allora separata da Pest), a Londra, ad Avignone, spesso dedito al gioco d'azzardo o alle donne. Nel 1377, innamoratosi di una dama sposata, che per metterlo scherzosamente alla prova gli intima di andare a Roma, monta a cavallo e via, in azzardoso viaggio, sino a Roma e ritorno.
Bonaccorso, come bene illustra Branca, fu anche abile uomo politico e ambasciatore, esperto di poesia dantesca e amico di Coluccio Salutati, a cui procurava libri. Probabilmente iniziò la stesura delle memorie per offrire una sorta di manifesto familiare. Scrive Branca: Impostati su questa chiara intenzione apologetico-esaltatoria della propria casata, su questa spiegata candidatura dei Pitti all' oligarchia delle grandi famiglie, i ricordi di Bonaccorso spaziano, al di là delle linee canoniche di questi libri, alle volte con felice estro narrativo su realtà varie e in prospettive diverse. Un mercante aristocratico, fiero, un po' snob. Leggendo la ricca serie di libri di ricordi del Tre e Quattrocento si ha modo di constatare che essi sono nati, col loro scintillio di spirito, all' interno di una civiltà che faceva dono ai suoi praticanti di una conoscenza congenita del ben vivere e di un agio del ben costruire. E' il genio stesso di una civiltà che permea questi libri; e l'amarezza o la serenità dei loro autori non nasce da singoli eventi, ma dal fatto solo di essere mercatanti all' interno di questa civiltà.


“la Repubblica”, 16 gennaio 1987  

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