11.3.15

Edoardo Sanguineti: Luca Ronconi e quell'Orlando rivoluzionario

Fu lo spettacolo che rivoluzionò il vocabolario della scena italiana, portando il linguaggio del sogno e della fantasia sui palcoscenici paludati del solito teatro di giro: era l'Orlando Furioso diretto da Luca Ronconi con un coraggioso e nuovissimo adattamento da Ariosto curato da Edoardo Sanguineti. Lo spettacolo debuttò in Umbria, nel Chiostro di San Nicolò a Spoleto, per il Festival dei Due Mondi: era il 4 luglio del 1969. Avrebbe girato per tutta Europa e se ne sarebbe discusso per molti anni. Per ricordare Ronconi, umbro d'elezione, morto il mese scorso, riprendo la prima parte di un'intervista rilasciata da Sanguineti a Simona Maggiorelli nel 2007. (S.L.L.)

Sanguineti, quali furono la novità e la forza di quell'Orlando furioso che poi fu replicato in tutta Europa?
«Rappresentò innanzitutto un grosso cambiamento nel modo di concepire lo spazio teatrale. In quegli anni c'erano stati parecchi tentativi di rinnovamento del teatro italiano, ma nessuno era andato a buon fine. L'Orlando furioso abolì la tradizionale separazione fra attori e pubblico, trasformando lo spettacolo in una grande festa collettiva, facendo delle piazze in cui andava in scena, luoghi di comunità festiva, con un rimescolamento unico dei ruoli».

C'era anche un originale mix di straniamento e di ironia?
«Sì, fino a quel momento ironia e straniamento brechtiano erano sempre stati considerati due termini antitetici. Per la prima volta nell'Orlando furioso si riusciva a ottenere un teatro che attraverso il distacco, faceva pensare, e al tempo stesso, con questi modi da festa popolare, da liturgia pagana, invitava al massimo dell'immedesimazione. Una partecipazione totale che allora passava solo per i drammi di Artaud, per il suo teatro della crudeltà».

Una traduzione in festa popolare veicolata anche dalla musicalità e dall'ironia delle ottave ariostesche?
«La scelta dell'Ariosto non era casuale: le sue ottave si legano alla tradizione dei cantari popolari, una forma poetica di piazza di cui in Toscana restano ancora degli esempi e la cui invenzione si deve, con ogni probabilità, al Boccaccio. Il perfido Ariosto ne fece un uso dissacrante, per raccontare che certa cultura cavalleresca, certo linguaggio di corte era ormai superato, ed era diventato la radice della follia di Orlando. Ariosto canta la fine di un'epoca cavalieresca. E' un po' il Cervantes italiano».

Oggi vede nella scena italiana segni rivoluzionari e dirompenti?
«Ci sono stati tanti spettacoli che ho amato molto ma mi sembra di poter dire che non ci siano stati più progetti davvero nuovi. Del resto anche l'Orlando furioso non fu testa di serie di esperimenti, non ebbe epigoni».


Da “La Nazione", 7 maggio 2006

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