5.3.15

In viaggio con Terracini (Alberto Menichelli)

Nel sito di Alberto Soave ho trovato il racconto qui postato, che Soave considera esempio tangibile della “diversità comunista”. 
Il libro da cui è tratto, In auto con Berlinguer. Quindici anni con il segretario del Pci, è di Alberto Menichelli, che fu per lungo tempo autista e accompagnatore di Enrico Berlinguer, ma l’episodio non riguarda il segretario del Pci, ma Umberto Terracini (Genova 1895 – Roma 1983), uno dei fondatori del partito, imprigionato insieme a Gramsci e, dopo undici anni di carcere, confinato a Ponza e Santo Stefano; poi, dopo la Liberazione, presidente dell’Assemblea Costituente, parlamentare e dirigente comunista di primo piano. (S.L.L.)

Molto presto assunsi un altro ruolo. Subentrai, infatti, all’autista di Umberto Terracini, Mario Gramaccini, che era stato vittima di un incidente d’auto al ritorno da Genzano. Durante gli accertamenti riguardo la dinamica dello scontro nel quale aveva perso la vita una persona, gli ritirarono la patente, mettendolo in difficoltà al lavoro. Noi della vigilanza non eravamo dei veri autisti, ma fummo comunque tenuti in considerazione nella valutazione del possibile sostituto. Alla fine venni scelto io, che accettai con un pizzico di incoscienza. A pensarci bene, al tempo, ma anche ora, a sentir nominare Terracini mi venivano i brividi, provavo un senso di soggezione di fronte a un uomo di quel calibro, che era stato relatore e firmatario della Costituzione, eroe della Resistenza e dell’antifascismo oltre che dirigente del Pci. Mi spettava, dunque, un compito molto importante che mi rendeva responsabile di fronte a Terracini e all’intero partito.
Il primo impatto con lui fu positivo. Non era solo un gran politico ma anche un grande signore, distinto ed elegante, che sapeva mettere a proprio agio chi gli stava davanti. La nostra prima uscita fu a Firenze nel 1966. La città era stata colpita da un’alluvione e l’Italia intera si era mobilitata per salvare le opere d’arte. Partimmo da Roma e arrivammo in tarda mattinata, dove ad attenderci al casello autostradale c’era il segretario regionale della Toscana che lo mise al corrente della drammaticità della situazione. A causa delle pessime condizioni in cui verteva la città pernottammo a Fiesole, dove i compagni toscani ci avevano riservato una stanza.
Il problema fu il letto: era matrimoniale. Io mi sentivo imbarazzatissimo e allo stesso tempo terrorizzato dall’idea di condividerlo con Terracini: temevo di disturbarlo durante la notte, e di non farlo riposare perché, devo ammetterlo, russo.
Quella sera arrivammo tardi in albergo per via dei numerosi incontri in Prefettura e in altri luoghi, fu una giornata davvero pesante, eravamo stanchi e affaticati. Nonostante ciò non credevo di potermi addormentare, o almeno di poterlo fare così velocemente. Nel giro di qualche minuto invece, dopo aver indossato il pigiama ed essermi raggomitolato sull’orlo del letto, caddi in un sonno profondo.
La mattina seguente, prima ancora di aprire gli occhi, sentii un profumo di caffè. Mi svegliai con un colpettino sulla spalla che mi fece sobbalzare, mi alzai di scatto e mi trovai davanti Terracini che mi disse: “Buongiorno Alberto, ti ho portato il caffè”. Rimasi senza parole, avevo davanti un eroe dell’antifascismo che mi portava il caffè a letto. Quando raccontai questo episodio a mio padre per poco piangeva dall’emozione perché lo ammirava e stimava moltissimo.

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