5.3.15

“Degnatevi!”. La mula di don Abbondio e l'ideologia italiana (Sergio Luzzatto)

L'articolo, che prende le mosse dall'attualità, utilizza il Manzoni per un sondaggio sulla “ideologia italiana”passata e presente. Il risultato è sconfortante. (S.L.L.)
Indignatevi!: nel corso del 2011 l'appello di un grande vecchio d'oltralpe, Stéphane Hessel, non è rimasto confinato alla Francia, ha raggiunto l'Italia e il mondo come un caso editoriale. Editoriale? Ben più di questo, se è vero che cammin facendo l'imperativo di Hessel ha generato un soggetto collettivo, ha battezzato un movimento esteso ormai a gran parte dell'Occidente. Tradotta in spagnolo o in ebraico, in greco o in americano, «indignazione» si è rivelata la parola decisiva - la più risonante, la più importante, la più mobilitante - nella creazione di un esperanto della protesta planetaria: si voglia poi qualificare quest'ultima come una protesta essenzialmente civile o intrinsecamente politica, prettamente ideale o fondamentalmente sociale, genericamente democratica o esplicitamente anticapitalistica.
Viviamo oggi circondati dalla retorica dell'indignazione. Ma viviamo anche circondati dal monito che l'indignazione non è tutto. Un altro grande vecchio, italiano questo (Pietro Ingrao, n.d.r.), ce lo ha ricordato dalla copertina di un suo libretto: Indignarsi non basta. Quand'anche la parola «indignazione» sia valsa a raccogliere nelle piazze del pianeta un movimento che si definisce, tra cartelli scritti a mano e slogan lanciati a voce, come quello del «99%» - il 99% dei non privilegiati, un nuovo Terzo Stato riunito non già nella Versailles del 1789 ma nell'Occidente del 2011 contro i privilegi di una nuova aristocrazia e di un nuovo clero - risulta chiaro come l'indignazione da sola non possa bastare. Tanto è vero che contro la retorica dell'indignazione ha preso piede una retorica opposta, che non è riuscita a riempire le piazze di Madrid né di Atene, di Roma né di New York, ma che è riuscita a occupare larghi spazi politici e mediatici: è la retorica dell'insufficienza dell'indignazione.
Impossibile provare qui a sciogliere questo nodo, il nodo gordiano della necessità come dell'insufficienza dell'indignazione. Più praticabile un obiettivo altrimenti modesto, e più consono a chi di mestiere fa lo storico: cercare nel passato - qui, nel passato italiano - tracce pregresse del significato e del valore della parola, «indignazione», così improvvisamente (e sorprendentemente) assurta agli onori delle nostre cronache. E motivata la scelta di cercare tali tracce non in un libro qualsiasi di un autore qualsiasi, ma nel libro più letto dell'autore che autorevoli critici considerano lo scrittore più rappresentativo, o comunque un interprete fra i più sensibili, di qualcosa come il nostro carattere nazionale: nei Promessi sposi di Alessandro Manzoni.
È una ricerchina semplice semplice, per compiere la quale non occorre neppure rileggersi tutto il romanzo, non occorre sciropparsene i trentotto capitoli da cima a fondo. Compiici i database e i motori di ricerca, una ricerca del genere ha bisogno appena di pochi clic sul mouse del computer. Eppure l'esercizio può trascendere la soglia del divertissement. Nella misura in cui Manzoni, il grande scrittore, è stato anche un antropologo dilettante, che ha voluto rappresentare nei personaggi principali del suo romanzo altrettanti tipi umani (più esattamente: altrettanti tipi italiani); e nella misura in cui il grande scrittore antropologo dilettante è stato anche un ideologo, che ha voluto produrre un'interpretazione politica dell'italianità, allora i pochi clic sopra un'edizione digitale dei Promessi sposi promettono di riuscire discretamente istruttivi.
Mi sono dunque preso la briga di cercare nel romanzo italiano per antonomasia la parola chiave del nostro tempo, «indignazione». Anzi, più precisamente: «indegnazione». Perché in questo modo, con la «e», Manzoni scrive la parola nei Promessi sposi. Scelta in se stessa notevole, perché lo scrittore la fa entrare così in risonanza con un'altra parola che, letteralmente, vale da suo contrario: «degnazione». Beninteso, può anche darsi che Manzoni non ci abbia pensato affatto. Può darsi che scrivendo «indegnazione» (mentre «la gente colta - spiegava un suo contemporaneo, Niccolo Tommaseo, nel Dizionario della lingua italiana - dice il più sovente "indignazione"») Manzoni non abbia inteso far entrare in risonanza un bel nulla, tanto più che nel romanzo entrambe i lemmi sono presenti con il contagocce. Sia come sia, al computer le ricerche di parole in automatico possono schiudere orizzonti non intravisti in precedenza. Nel caso in questione, partire alla caccia dell'«ind(e)gnazione» nei Promessi sposi mi ha portato dritto dritto sulle tracce della «degnazione», che - a conti fatti - si rivela essere nella semantica manzoniana una parola tutt'altro che banale.
Il gioco della degnazione e dell'indegnazione è forse un gioco a somma zero, dove il guadagno dell'uno corrisponde aritmeticamente alla perdita dell'altro. Di sicuro, al nostro orecchio di moderni la parola «degnazione» suona relativamente rara, sicché vale la pena di evocarne qui il significato. Nel suo famoso Dizionario Tommaseo la definiva come segue: «Modo di riverenza più o meno sincera, e particolarmente [verso] gl'inferiori». Cioè (leggendo Tommaseo fra le righe): la «degnazione» come via di mezzo fra un omaggio sottolineato e una malcelata compiacenza. Al giorno d'oggi, piuttosto che il sostantivo noi usiamo il verbo: «degnare» qualcuno di uno sguardo, «degnarsi» di fare qualcosa. Si tratti di sostantivi o di verbi, per capire l'Italia di Manzoni - e soprattutto per capire l'Italia di oggi - guardare al mondo della degnazione è altrettanto necessario che guardare al mondo dell'indegnazione.
Nei Promessi sposi la parola «indegnazione» compare sei volte, e rimanda spesso (tre volte sulle sei) a quella che un lettore particolarmente acuto del romanzo, Ezio Raimondi, ha definito «la morale di fra Cristoforo». Nel capitolo IV, è l'«indegnazione santa» che Manzoni attribuisce al padre cappuccino quando questi apprende del sopruso di don Rodrigo ai danni della giovane Lucia. Nel capitolo VI, è l'indegnazione «trattenuta a stento» e poi «traboccante» dello stesso fra Cristoforo al cospetto di don Rodrigo, dopo che quest'ultimo ha osato invitare il frate a porre Lucia sotto la sua protezione. Nel capitolo IX, è l'indegnazione riflessa che Manzoni attribuisce al padre guardiano del convento di Monza mentre legge il biglietto di fra Cristoforo che lo prega di ospitare Lucia. Nel capitolo XXI, è l'«indegnazione disperata» di Lucia stessa davanti all'Innominato, prima della conversione di quest'ultimo. Nel capitolo XXV, è l'indegnazione dell'opinione pubblica del territorio di Lecco verso le malefatte di don Rodrigo, un'in degnazione resa timida dal calcolo e muta dalla paura. Nel capitolo XXIX è l'indegnazione dell'Innominato, dopo la conversione, verso le sue proprie colpe di ex uomo malvagio.
Anche la parola «degnazione» compare sei volte nei Promessi sposi (quasi a confermarci nell'idea che questo sia un gioco a somma zero), e appartiene essenzialmente a quello che Ezio Raimondi ha chiamato «il codice di don Abbondio». In effetti, se pure Manzoni impiega il lemma tre volte nella sua qualità di narratore - nel capitolo IV, per definire l'atteggiamento del fratello di colui che Lodovico (il futuro fra Cristoforo) aveva ucciso in una disputa; nel capitolo VII, per qualificare la «degnazione contegnosa» degli altri signorotti di Lecco verso la figura di don Rodrigo; nel capitolo XVIII, per definire i riguardi del conte duca verso il conte zio - quando sceglie di attribuire la parola «degnazione» al discorso diretto di un personaggio, Manzoni la mette in bocca unicamente al suo curato, a don Abbondio. E gliela mette in bocca in tre luoghi strategici del romanzo.
Nel capitolo XXIV, è la degnazione che don Abbondio riconosce all'Innominato dopo che questi si è provvidenzialmente convertito, ha deciso di proteggere Lucia, e aiuta il curato a salire sulla mula: «"Oh che degnazione!" disse questo; e montò molto più lesto che non avesse fatto la prima volta». Nel capitolo XXXVIII, è la degnazione che don Abbondio imputa a don Rodrigo, dopo la morte di questi a causa della peste: «Non lo vedremo più andare in giro con quegli sgherri dietro, con quell'albagìa, con quell'aria, con quel palo in corpo, con quel guardar la gente, che pareva che si stesse tutti al mondo per sua degnazione». E nel medesimo capitolo - l'ultimo del romanzo - è la degnazione che don Abbondio riconosce sia all'inarrivabile cardinal Federigo sia al «signor marchese» (l'erede del potere di don Rodrigo), per averlo mandato a salutare: «Oh che degnazione di tutt'e due!».
Non stupisce riscontrare nei Promessi sposi una contrapposizione così netta tra il mondo dell'indegnazione e il mondo della degnazione: riesce normale, dal momento che la degnazione rappresenta - almeno lessicalmente - il contrario dell'indegnazione. Piuttosto, colpiscono da un lato la tonalità stilistica, dall'altro la cifra ideologica che Manzoni riserva alle due parole. Quanto alla tonalità, è significativo il fatto che la parola «indegnazione» risulti, in tutte e sei le sue occorrenze, una parola del narratore; che non appartenga cioè al discorso diretto di nessuno dei personaggi, ma sia sempre parola di Manzoni come voce fuori campo. Sotto tali condizioni, peraltro, l'indegnazione viene immancabilmente riferita a figure positive del romanzo: il più delle volte, al personaggio ultrapositivo di fra' Cristoforo. La parola «degnazione» risulta invece, nella metà dei casi, un "virgolettato". E in ciascuno di tali casi è parola diretta di don Abbondio, il quale (ha notato ancora Raimondi) rappresenta il personaggio in assoluto più "dialettale" dei Promessi sposi, cioè quello da cui il narratore tiene a prendere un massimo di distanza critica.
Siccome il cuore di Manzoni batte evidentemente per la figura di padre Cristoforo, non certo per quella di don Abbondio, dovremmo forse concludere che il cuore di Manzoni batte per l'indignazione e non per la degnazione? Nulla di meno sicuro. Perché un conto è la tonalità stilistica dei Promessi sposi, altro conto è la cifra ideologica. Senza dire che l'intreccio del romanzo, il plot, conterà pur qualcosa... Conterà pur qualcosa il fatto che alla fin fine padre Cristoforo muore, mentre don Abbondio sopravvive. Come a suggerire - anche questo è «sugo di tutta la storia» - che nella vita (o almeno nella vita di quaggiù, nella vita terrena se non nella vita eterna) l'indegnazione non premia, la degnazione sì. E lo scrittore antropologo ideologo Alessandro Manzoni non ci trova, in ultima istanza, niente da ridire. Che il gioco sia a somma zero, e che l'indegnazione perda, sembra rientrare agevolmente nella sua concezione provvidenzialistica del mondo e della storia. Cattolicamente provvidenzialisti-ca, e politicamente conservatrice.
Così, se il mio piccolo esercizio di lettura ha un senso, se la centralità ottocentesca di Manzoni dice qualcosa dell'Italia di allora e annuncia qualcosa dell'Italia di oggi, il gioco dell'indegnazione e della degnazione nei Promessi sposi ci interpella: parla anche a noi, e di noi. Appunto perché il criterio di giudizio di Manzoni è ancora il nostro, o comunque è quello di tanti italiani intorno a noi. L'onore delle armi a fra Cristoforo, l'onore della vittoria a don Abbondio. A fra Cristoforo la parola accorata, a don Abbondio la parola finale.
Forse, l'Italia è il paese in cui la morale di fra Cristoforo deve ancora e sempre cedere il passo al codice di don Abbondio: un codice - un criterio - che giudica in negativo la degnazione del potente verso gli inferiori soltanto a corpo morto (soltanto quando don Rodrigo è stato «scopato» via dalla peste), mentre la giudica in positivo finché il potente è vivo: sia questo l'Innominato o l'arcivescovo o il signor marchese. L'Italia è il paese in cui una minoranza più o meno virtuosa risponde all'appello Indignatevi!, ma dove una maggioranza più o meno silenziosa continua a chiedere ai potenti - siano questi politici della Repubblica o presuli del Vaticano - niente più che una parola di circostanza, o un gesto di etichetta. Chiede insomma ai potenti un omaggio di maniera, che nasconde (o piuttosto non nasconde) l'asimmetria della forza.
Degnatevi! L'Italia è il paese di chi, come don Abbondio, pretende dai potenti giusto di essere mandato a salutare, oppure - al massimo - di essere aiutato a salire sulla mula.


«MicroMega», dicembre 2011 ora in Storia comune. Nuovi interventi, manifestolibri, 2014

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