26.3.15

Nientemeno che un romanzo. La Via Ripetta di Clara Sereni (S.L.L.)

Ci sono libri che sfidano il lettore, proponendogli diversi possibili livelli di lettura. Non è frutto del caso: l'autore consapevole del mestiere usa mezzi atti a concedere al lettore questa libertà interpretativa e cooperativa, oppure, per condurlo obbligatamente dove lui vuole, sceglie una strada opposta. Questo Via Ripetta 155 di Clara Sereni, la scrittrice perugina d'elezione che è stata vicesindaco nel capoluogo umbro, uscito a gennaio per Giunti, rientra nella categoria delle “opere aperte”, per cui può accadere che si cominci a leggere un libro e si finisca con il leggerne un altro.
La fascetta parla di un romanzo “tra autobiografia e diario di una generazione”, sottolineando la relazione, non necessariamente armoniosa tra individuale e collettivo, tra “personale e politico”, come si diceva una volta. E tuttavia nel libro non c'è propriamente autobiografia, visto che è assente la monumentalità che caratterizza il genere, il progetto cioè di sottrarre il vissuto al casuale e all'effimero, ricomponendolo e fermandolo in un disegno dai contorni definiti. E non c'è diario: manca il lirismo che fa quasi sempre capolino in una scrittura che si finge quotidiana. Tra il “continuo” della biografia e il “discreto” del diario Sereni opta per la “tranche de vie” dell'antico naturalismo, con la mediazione del racconto cinematografico novecentesco.
Il ritaglio di vita esposto al lettore riguarda gli anni 1968-1977; l'ambiente è la gioventù intellettuale del lungo Sessantotto italiano, denso di eventi e progetti, di assalti e contraccolpi. Il testo, in prima persona, riguarda esperienze vissute, fa nomi e cognomi, rievoca momenti e situazioni reali, e tuttavia non è solo o soprattutto libro di memorie, è nientemeno che un romanzo. Romanzo-romanzo intendo, capace di sussumere contenuti e linguaggi da altre forme di comunicazione sottomettendoli alle esigenze del genere.
Che razza di romanzo è Via Ripetta? Vediamo la trama. Per affermare un suo sogno d'arte e d'amore, la giovanissima protagonista, figlia di una borghesia ebraica che vanta antico progressismo (il padre è senatore nel partito d'opposizione) ma è ora chiusa in ristretti orizzonti, va a vivere per suo conto in una vecchia abitazione in pessimo stato di conservazione, nel cuore della grande città. Mentre coltiva come progetto di vita la passione della scrittura, per guadagnarsi il pane quotidiano canta nelle feste popolari, non senza coinvolgimento ma senza grande talento. Per arrotondare funge anche da segretaria per una associazione di cineasti e, all'occasione, da efficiente dattilografa bilingue. E intanto (beata gioventù!) trova il tempo per la politica, manifestazioni, assemblee, contestazioni: una vita quotidiana un po' intasata e con tanta promiscuità, anche sessuale. La casa, con l'andirivieni e con la fame che la caratterizza, segnala un desiderio di comunità che difficilmente può giungere ad effetto e per di più la protagonista cerca l'amore, con tutte le difficoltà del caso. Via Ripetta è dunque un “romanzo di formazione”, ed è “centrista” come il Wilhelm Meister goethiano: il desiderio non viene né condannato né represso, ma dovrà prima o poi conciliarsi con il principio di realtà. La ragazza, alla fine, troverà un modus vivendi con il padre e la famiglia di origine, al punto di diventarne punto di riferimento e di equilibrio dopo la morte di costui. Così, dopo un sogno d'amore impossibile, vivrà una storia finalmente matura e costruirà una coppia senza matrimonio. Il romanzo si chiude con il trasloco dalla mini-comune di via Ripetta verso l'appartamento ereditato in un palazzo nuovo. Il lieto fine non manca anche nel caso in cui si metta in primo piano l'uccisione simbolica di quel padre che giudica un romanzo la psicanalisi, e poi quella del maturo regista di cui la giovane s'è infatuata e che ne costituisce il doppio. Alla fine di un percorso doloroso il rapporto con il passato apparirà meno traumatico e la nevrosi più controllabile.
Come “romanzo politico-sociale”, il libro racconta una delusione, se non un fallimento. L'assalto al cielo della generazione del Sessantotto si conclude con una ritirata: l'idea della fratellanza universale, cui il turbinoso agitarsi dei frequentatori di via Ripetta sembra tendere, non si realizza, lo Stato non si abbatte e non si cambia ma continua ad esprimere la sua forza ottusa, il ricatto del terrorismo funziona e il “gruppo” scoppia come una coppia: la tensione esplode nella divisione del modesto raccolto di un ciliegio, che diventa una guerra.
Leggendo il finale di Via Ripetta mi sono venuti in mente Germinal di Zola e Il clandestino di Tobino; raccontano, anch'essi, qualcosa che somiglia a una sconfitta. Nel libro di Tobino, sulla Resistenza, l'epigrafe in poesia recita: “Fu un amore, amici, /che doveva finire; / credemmo che gli uomini fossero santi, / i cattivi uccisi da noi.... / Con pena, con lunga ritrosia, / ci ricredemmo. / Rimane in noi il giglio di quell'amore”. In Germinal lo sciopero dei minatori fallisce, ma il giovane agitatore lascia la città mineraria convinto che la terra è “incinta” della forza operaia, la quale ben presto “esploderà alla luce”. Il giglio di Tobino è consolatorio, la “luce” di Zola messianica. Sereni è più prosaica: “Tutto era pronto per un nuovo passo in avanti. Con tutte le speranze e utopie ancora – colpevolmente – intatte”. Finale “riformista”, ma irriducibile: la lotta continua con altri mezzi.
Io ho preferito leggere Via Ripetta 155 come romanzo, privilegiando la costruzione rispetto alla testimonianza, ma anche chi segue il percorso inverso troverà soddisfazione: ci sono pagine che ben figurerebbero tra i documenti storici.
Resta una domanda: come fa Sereni a tenere dentro un libro tanta roba senza schiacciare il lettore? Donde viene la “leggerezza” di cui ragionano i critici? Ci vorrebbe un intero saggio per rispondere. Qui mi limiterò ai titoli dei capitoli: “candore” nell'approccio alla realtà, “ironia” nella rappresentazione. E un altro capitolo dedicherei all'arte della digressione: il dramma in poche righe della tossicodipendente Anna, il bozzetto caricaturale (Zavattini a Venezia), la commedia borghese (il pranzo di non-fidanzamento), la pantomima dei cinesi al festival di Cavriago e la tragedia del terrorismo che si fa farsa, proprio a via Ripetta. E c'è poi il nitore della scrittura, precisa, senza svolazzi e trucchi. I primi nomi che mi vengono in mente sono Calvino e Sciascia, subito dopo (dio mi perdoni!) Manzoni. Dipendesse da me metterei Sereni nel canone dei classici. Da viva. 

micropolis, febbraio 2015  

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