15.3.15

Restaurazione, Romanticismo, Nazione. Gli intellettuali e le riviste (“il manifesto”)

Nel 2011, per i 150 anni del Regno d'Italia, “il manifesto” pubblicò tre inserti sotto il titolo comune La conquista. 1815 – 1870: l'unità italiana nell'era della borghesia. Ognuno degli inserti, curati da Gabriele Polo, si apriva con il saggio di uno storico, cui seguivano schede e documenti grafici e iconografici a cura della redazione. Questa scheda sulle riviste e gli intellettuali nel tempo della Restaurazione può tornare utile ai ragazzi che vanno al liceo e non soltanto a loro. (S.L.L.)
Il Congresso di Vienna in una incisione/caricatura di H.Delius (1815). In prima fila sovrani, ufficiali, usurai.
Al centro del confronto tra i governi della Restaurazione e l’opinione pubblica c’erano i giornali e le riviste (di carattere politico o letterario) che nascevano numerosi nei primi decenni del XIX secolo. Il problema della libertà di stampa divenne una delle questioni centrali nel dibattito politico degli anni della Restaurazione. I regimi assolutisti vedevano nella circolazione di giornali e riviste un pericolo mortale per il proprio potere e la sua stabilità, fino a considerarla fonte di possibili movimenti insurrezionali: quei fogli diffondevano e amplificavano idee considerate pericolose e la loro stessa esistenza, se incontrollata, costituiva di per sé un reato di «lesa maestà» per una concezione della politica e della vita pubblica accentratrice e assolutista, violando il monopolio dell’informazione e della formazione culturale e politica. Mentre i liberali consideravano la libera circolazione delle idee una delle principali risorse per il miglioramento della società e dello stesso sistema politico, i governi della Restaurazione, e le loro polizie, accentuavano il ruolo della censura (spesso preventiva) e si sforzavano di limitare al massimo la circolazione di giornali e riviste che erano soprattutto di ispirazione liberale e democratica. Quando non venivano chiuse (come - tra gli altri - accadde, dopo appena un anno di esistenza, nel 1819, al milanese Conciliatore e, nel 1833, alla rivista fiorentina Antologia) o quando non erano costrette a far vagliare preventivamente i propri articoli agli uffici di censura per ottenerne il nulla osta per la pubblicazione, le riviste erano sottoposte a una tassazione preventiva (un bollo da pagare per ogni copia distribuita) che ne limitava fortemente la libera circolazione.
Anche i libri non godevano di maggior libertà e lunghe erano le liste dei volumi all’indice di cui era proibita la vendita e la lettura. La pressione cui veniva sottoposta l’editoria (una prerogativa non solo dei regimi più oscurantisti, ma molto diffusa anche nella liberale Inghilterra, soprattutto nei confronti della stampa radicale e operaia) finì per costituire ben presto uno dei principali terreni di battaglia politica per le opposizioni ai governi della Restaurazione: la completa abolizione di ogni forma di censura fu, nei primi decenni dell’Ottocento, una delle principali richieste dei movimenti liberali e costituzionalisti.
Protagonista della diffusione di conoscenze e idee che dava vita a riviste, libri e giornali, era una nuova figura d’intellettuale, profondamente diversa dal passato. La nascita di un vasto pubblico a cui si poteva rivolgere aveva «emancipato» l’intellettuale dalla dipendenza dal potere, dandogli la possibilità di rivolgersi direttamente all’opinione pubblica di cui diventava, allo stesso tempo, strumento e punto di riferimento. Il pubblico si rivolgeva all’intellettuale per avere maggiori informazioni, ampliare le proprie conoscenze tecniche e scientifiche, divertirsi e svagarsi (fu a partire da allora che il teatro e il romanzo conobbero una diffusione di massa).
Contemporaneamente, gli intellettuali esercitavano un’opera d’indirizzo e di sviluppo delle idee su sempre più larghi strati della popolazione. Non più «consigliere del principe» (e suo «dipendente») l’intellettuale dell’Ottocento si avviava ad assumere un ruolo pubblico importantissimo e una rilevante funzione politica che si sarebbe poi sviluppata pienamente nei partiti di massa. Espressione della società del suo tempo (e, quindi, restìo a ogni tipo di censura), l’intellettuale svolgeva sempre più una funzione critica sulla realtà, ne denunciava deformazioni ed errori. Era quasi inevitabile che, nell’epoca della Restaurazione, la gran parte degli intellettuali svolgesse un rilevante lavoro d’opposizione, finendo spesso col rappresentarne la componente più radicale e visibile. Il romanticismo fu la corrente culturale in cui si raccolsero e svilupparono il proprio lavoro queste nuove figure d’intellettuali, che erano soprattutto degli artisti: essi consideravano l’arte l’espressione dei sentimenti più veri della società, la forma che, in contrapposizione alla tecnica, riesce a dar conto nella maniera più chiara delle passioni e dei pensieri di tutti. Diversificati per tradizione culturale e anche per idee politiche, gli intellettuali romantici erano unificati da una comune concezione del rapporto tra arte e popolo: ciò che, per i romantici, accomunava un popolo era l’identità culturale, in primo luogo quella linguistica, e la sua tradizione. In tal senso l’artista romantico era spesso un letterato (da Manzoni a Berchet in Italia, da Hugo a de Stael in Francia, da Scott e Byron a Shel1ey in Inghilterra, da Fichte a Heine e Holderlin in Germania), ma, soprattutto, attraverso il suo lavoro difendeva i valori nazionali in funzione d’educazione del popolo, rinnovando la memoria del suo passato. L’incitazione a liberarsi di ogni schiavitù, diventava compendio naturale della sua opera. Il romanticismo, e l’idealismo in filosofia, diedero l’impronta culturale ai primi decenni dell’Ottocento: in quanto ideologie di gruppo, consideravano l’uomo non come individuo razionale isolato ma come membro di un gruppo etnico tradizionale, cioè - in questa
concezione - di una nazione, con una sua eredità storica e intellettuale. Il fatto che per l’idealismo (si pensi ad uno dei suoi massimi esponenti, Hegel) l’essenza reale dell’individuo non si eserciti nel suo isolamento ma nell’accettazione del suo ruolo in un universo morale identificato con lo Stato (anche con lo stato assoluto), determinava una posizione politicamente conservatrice, ma non contraddiceva alla centralità della tradizione nazionale. Così, in un primo tempo, molti artisti romantici reagirono negativamente alla rivoluzione politica e a quella industriale (sempre in nome della tradizione) e assunsero posizioni reazionarie; ma altri, in seguito, si trovarono in aperta rotta di collisione con la Restaurazione dove questa annullava l’identità nazionale e si schierarono su posizioni liberali. La ricerca della lingua originaria di un popolo, del suo carattere nazionale, dell’intimo della sua personalità in grado di stimolare nuove forme artistiche (in primo luogo poetiche), spinsero i romantici a opporsi prima al dispotismo illuminato, poi al governo giacobino e poi napoleonico, infine a Metternich e al suo sistema degli stati europei; senza mai diventare un movimento politico, gli intellettuali romantici finirono sempre per svolgere un importante ruolo sulla scena pubblica e, in alcuni paesi come l’Italia, per costituire un punto di riferimento per l’opposizione alla Restaurazione e per costruire le basi per la cultura risorgimentale attraverso cui verrà poi riletta la storia d’Italia di quel periodo, a volte anche con eccessiva enfasi e retorica. È da questa lettura romantica della tradizione che nell’Ottocento si sviluppa un’idea che con l’ordinamento politico uscito dal Congresso di Vienna era apertamente contraddittoria: l’idea di nazione.
Sviluppatasi durante la Rivoluzione francese, l’idea di nazione rimane a tutt’oggi una delle più indefinite e ambigue nel vocabolario politico. Possiamo dire che all’epoca della Restaurazione essa era comunemente definita come una «comunità di persone unite dalla storia e dalla lingua»; coerentemente con lo spirito romantico, la nazione era così il frutto della tradizione. Quest’ideologia nazionale si poneva, in alcune aree geografiche come l’Italia, la Polonia, la Germania, in aperto contrasto con l’opera dei restauratori. Se le entità statali dovevano essere coerenti con quelle nazionali, se erano la storia e la lingua a dover definire i confini di una nazione, allora il legittimismo della restaurazione non aveva più alcun senso d’esistere.
L’idea di nazione affermava che era l’unità linguistica e storica a dover definire i confini di uno stato, mentre a Vienna era stato sancito che fosse la soggezione a uno stesso sovrano ad unire popoli diversi e stabilire i confini politici. Così, pur essendo un concetto ambiguo e caro ad alcuni pensatori conservatori, l’idea di nazione finì per essere combattuta dai regimi assolutistici, diventando patrimonio dei movimenti liberali, il cui nazionalismo era unito dalla comune avversione per gli assetti del Congresso di Vienna, ma conteneva in sé un elemento reciprocamente conflittuale che avrebbe generato un nazionalismo ben diverso che, nella seconda metà del secolo, avrebbe dato il proprio contributo alle guerre tra le nazioni europee. Una volta consumato il proprio ruolo «liberatore», una volta ricomposta quell’unità territoriale indispensabile alla nascita di una nazione e di un capitalismo moderni, l’idea di nazione sarebbe diventata patrimonio delle forze più reazionarie rischiando, come avvertiva già Mazzini, di trasformare l’Europa in un campo di guerra tra «nazionalismi gretti, gelosi e ostili».

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