5.4.15

Biografie. L'Edgar Allan Poe di Stephen Marlowe (Gianni Turchetta)

Il 3 ottobre 1849 Edgar Allan Poe, poco più che quarantenne, viene trovato svenuto in una strada di Baltimora. Etilista all'ultimo stadio, povero in canna, sarebbe morto pochi giorni dopo in un anonimo ospedale. Certo gli ultimi due secoli sono gremiti di vite spericolate e disperate, nonché leggendarie, di scrittori, filosofi e teatranti, ma solo in pochi casi la biografia può davvero stare alla pari con il mito: Poe rientra fra questi. Si capisce perciò come Stephen Marlowe, prolifico autore di romanzi «misti di storia e invenzione» (come Il Viceré del nuovo mondo, dedicato a Cristoforo Colombo), abbia fatto di Edgar Allan Poe della vita di Poe il punto di partenza per un romanzo, Il faro alla fine del mondo (Tropea, 1998). Il successo editoriale del grande e sfortunato scrittore di Boston non conosce del resto pausa, cometestimonia anche una nuova selezione dei Racconti, curata da Maria Rosa Mancuso.
Il libro di Marlowe è suggestivo e intelligente, ma un po' compiaciuto nel perseguire con metodica follia gli assunti di partenza, con sprezzo flagrante del pericolo di manierismo. Chiave di volta è la scelta di affidare il racconto alla voce dello stesso Poe. In questo modo Marlowe persegue contemporaneamente due scopi in linea di principio opposti: da un lato il narratore autobiografico (costruito a partire da un'attenta ricostruzione storica) attesta la realtà dei fatti raccontati; al tempo stesso però, in quanto ubriacone prossimo al collasso, ne esibisce fin dal primo momento l'inattendibilità. Il gioco però è ancora più sottile. Molti racconti di Poe sono fatti in prima persona da narratori pazzi, maniaci, ubriachi, allucinati: Marlowe ne imita la struttura dilatandola in un impianto romanzesco pseudo-autobiografico di straordinaria complicazione. Il Faro alla fine del mondo è poi anche un vero collage di citazioni: c'è un «Preferirei-di-no» che ripete il leitmotiv del Bartleby di Melville; l'uso reiterato della formula Lo strano caso dei fratelli Poe evoca Lo strano caso del dottar Jekyll e di Mr. Hyde; il tema del doppio si sovrappone a quello dei due fratelli opposti e complementari, come in un altro capolavoro di Stevenson, Il signore di Ballantrae. Conrad fa capolino da molte parti, per esempio nell'ossessiva ricerca di Henry Poe, fratello di Edgar, sempre evocato e sempre assente come il Kurtz di Cuore di tenebra: e l'elenco potrebbe continuare. Frequentissimi sono poi gli spunti esplicitamente meta-narrativi. Ma la partita più importante Marlowe la gioca moltiplicando le identità del narratore e i livelli di realtà. Poe infatti è ubriaco, e non sappiamo se quello che racconra sia vero; inoltre egli s'identifica con altri personaggi, ognuno dei quali da luogo a una narrazione, che un po' conferma un po' contraddice le altre. Il narratore Poe ricorda il proprio passato, ma questo passato corrisponde solo in parte con quello registrato dagli storici: per il resto rimanda invece a vite sognate, virtuali, che si mescolano con quelle degli altri personaggi. Edgar racconta poi del fratello Henry, ma spesso si confonde con lui. Senza contare che i personaggi reali si sovrappongono a quelli dei Racconti, come Dupin. Trascinato in questo vortice, il lettore è affascinato, ma forse anche troppo sistematicamente spiazzato dalle continue sorprese. Il punto decisivo è che Marlowe, seguendo passo passo le peripezie mentali del protagonista e narratore, vuole ricostruire dall'interno un'esperienza allucinatoria, costringendo il lettore a parteciparvi: e chi vive la realtà dell'allucinazione sarà colto inevitabilmente dal sospetto che forse l'allucinazione sia la realtà stessa. Come suona una celebre domanda di Poe, non a caso posta in epigrafe e poi più volte ripetuta: «Non è forse tutto ciò che vediamo o crediamo di vedere nient'altro che un sogno dentro un sogno?».


“Diario della settimana”, 27 gennaio 1999

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