Ugo di San Vittore |
Per nostra fortuna ci
sono ancora libri di cui con una certa tranquillità si può dire:
questo rimane, sicuramente non scompare nel flusso dei testi
effimeri. Eccone uno appena uscito: ha il bel titolo I peccati
della lingua, sottotitolo Disciplina ed etica della parola
nella cultura medievale; ne sono autrici due note medieviste,
Carla Casagrande e Silvana Vecchio, editore l' Istituto
dell'Enciclopedia Italiana (pp. 480, s.i.p.). Il tema è
straordinariamente suggestivo oggi, epoca di trionfo dell'oralità
attraverso una serie di canali, primi fra tutti quelli della
pubblicità, della televisione e dello spettacolo.
Le riflessioni sulla
lingua, organo dell'oralità, sono molto antiche nella civiltà
cristiana: si parte addirittura dalla Epistola apocrifa
dell'apostolo Giacomo, scritta nel genere dei libri sapienziali e
vero bestseller nel corso dei secoli; in essa due immagini
particolarmente colpiscono: la lingua è come il timone della nave,
piccolo strumento da cui dipende tutta la navigazione, ed è come il
fuoco che tutto può bruciare. Orbene, l'epoca in cui i peccati della
lingua si impongono con urgenza alla riflessione teorica dell' uomo
va dal secolo XII a poco oltre la metà del secolo XIII (anche se non
mancano precedenti, come Pier Damiani del secolo XI): periodo
limitato, ma con una produzione di testi incredibile e una
altrettanto mirabile sfaccettatura problematica. Primi a interessarsi
dell'uso della lingua sono filosofi, teologi, predicatori, canonisti
e si arriverà con il domenicano Ugo da Strasburgo a individuare ben
quarantacinque diversi peccati della bocca. Poi, fatto nuovo, ci
saranno i laici che daranno al problema un'impostazione assolutamente
diversa.
La ricerca intelligente,
erudita e insieme vivace delle due autrici ci fa sfilare davanti in
passerella i protagonisti di questo insieme di stupefacenti pensieri:
da Giacomo da Vitry ad Alano di Lilla, a Pietro Cantore, che se la
prende molto con gli avvocati che vendono la propria lingua ed è un
sostenitore della brevità di ogni discorso, sull'esempio di Dio che
parla poco. Naturalmente, dirà Pietro Cantore, c' è una buona
taciturnità (bona taciturnitas) e ci sono dei cattivi
silenzi, come ad esempio l'omertà. Interessante il pensiero di
Rodolfo Ardente, vissuto nel Poitou alla fine del secolo XII: egli
studia i costumi della lingua, cioè opera una sistematica
descrizione antropologica, e in parte persino semiotica, dei canali
della comunicazione e dei codici linguistici entro i tre tipi di
realtà etica, la solitaria, la familiare, la politica. I costumi
della lingua dipendono sì dagli imperativi etici, ma hanno leggi
proprie, linguistiche e retoriche, che possono portare al bene o al
male. Il lettore d'oggi è colpito soprattutto dal fatto che per un
pensatore medievale l'oralità, in quanto legata al corpo dell'uomo
per sua natura fragile, non può mai essere neutra: o è un male o è
un bene; per lo più è un male; così ci sono demoni che provocano
la garrulità (garrulitas), spesso presso i filosofi, e ce ne
sono altri che spingono al cattivo silenzio.
Sempre nel secolo XII si
indaga molto su quella che noi diremmo la situazione comunicativa; si
crea allora uno schema o lista delle circostanze: chi parla, di che
cosa, a chi, dove, quando, perché, come. Nel monastero dei canonici
agostiniani di San Vittore di Parigi un grande maestro vittorino, Ugo
da San Vittore, trasforma schema e lista delle circostanze in una
vera disciplina o insieme di regole del parlare. Ugo si rivolge ai
novizi dell' Ordine, ma in realtà avrà un successo enorme e lascerà
segni anche nel pensiero di Dante.
Ma ecco che a un certo
momento del secolo XIII di fronte alla cultura clericale ne nasce una
laica, che facendo proprio il modello della riflessione sulla lingua
ne cambia spirito e motivazioni. Nel 1245, vent' anni prima della
nascita di Dante, Albertano da Brescia riprende la lista delle
circostanze in un trattatello sull' Arte del dire e del tacere
in cui, rivolgendosi al figlio Stefano, gli dirà che, come il gallo
prima di cantare agita tre volte le ali, così prima che la parola
passi dalla mente alla bocca bisogna chiedersi una, due, tre volte se
ciò che si sta per dire è adatto alle circostanze elencate nella
lista. La novità di Albertano sta nella sua legittimazione del
comunicare sociale e quindi delle parole degli avvocati, degli
oratori, degli uomini di lettere, dei laici colti partecipanti alla
vita pubblica: lo spettro del peccato della lingua sembra eclissarsi
dal libro che così termina: “mi sono impegnato a scrivere questa
breve dottrina sul dire e sul tacere per te (Stefano) e per gli altri
tuoi fratelli litterati (uomini colti) perché la vita dei
litterati consiste più nel dire che nel fare”.
Ma in effetti lo spettro
del peccato della lingua continua ad apparire nelle pagine di altre
opere importanti, per esempio nella Summa di Guglielmo Peraldo
che allo schema settenario dei vizi capitali, risalente a Gregorio
Magno, aggiunge un ottavo vizio, il peccato della lingua. L'uso
libero della parola, le nuove tecniche, la presenza di tante parole
nuove, segni di cose nuove, preoccupano i predicatori del Duecento,
per i quali è in pericolo la parola di Dio. Ma su questo e sulla
riflessione nuova di filosofi e teologi non è qui possibile
soffermarsi.
Nella seconda parte del
libro le autrici trattano di quel nucleo di peccati della lingua che
sono più significativi e più presenti nelle trattazioni medievali;
fermiamoci su uno, la menzogna, anche perché a questa nozione è
stato recentemente dedicato un convegno internazionale a Palermo, di
cui Laura Lilli ha parlato su “Repubblica” del 10 dicembre.
Intanto c'è una stabile triade costituita da menzogna, spergiuro,
falsa testimonianza, tre peccati contro la verità; filosofi e
teologi e predicatori li legano insieme, anche se ben a ragione si
insiste più sulla menzogna, di cui gli altri due peccati sono forme
sociali. Perciò l'analisi della menzogna risulta la più stimolante
a partire da alcuni testi di S. Agostino, che riporta l'origine di
questo peccato alle due cadute di Lucifero e dell'uomo, che si sono
allontanati dalla verità.
Per i medievali la
menzogna è un peccato legato all'uso delle parole, scritte o orali,
sicché se ne elencano ben otto specie, dalla menzogna pura, creata
per il solo piacere di mentire, alle varie motivazioni etiche e
logiche. Si sa che l' uomo medievale ama le classificazioni, che
investono non solo la cosa, ma lo status o condizione dell' individuo
che dice o fa quella cosa: una bugia, che è un peccato veniale in un
uomo comune, diventa gravissima per chi si è dato a una vita di
perfezione, come il monaco. Così la bugia di un povero è molto più
lieve della bugia di un potente, come dice la Bibbia. Chi
governa si guardi dalle menzogne, scrive il Peraldo, così come si
guarda dalla contraffazione delle monete. C' è poi chi torna, a
proposito della menzogna, alla tradizionale opposizione
oralità/silenzio, in quanto alla oralità appartengono il
multiloquio e la garrulità, due pericolosi modi di parlare da cui è
facilissimo sdrucciolare nella menzogna. E, attenzione! Dalla
menzogna si arriva alla punizione di Anania e Safira, morti sul colpo
per aver mentito all'apostolo Pietro. Affascinante universo medievale
che, attraverso figure, metafore e simboli, ha sempre qualcosa da
dirci, anche sui nostri modi di vivere e di comunicare.
“la Repubblica”, 27
febbraio 1988
Grande l' eccelsa Maria Corti con la sua scienza di scandagliare il passato culturale e linguistico nelle sue più intime pieghe culturali e trarne da questa intricata storia dei costumi delle mentalità e credenze, appendimenti per la nostra stringente attualità: la menzogna ciclica delle promesse elettorali, sotto forma di avvincente oralità e garrulità dei nostri politici, mai mantenute, non dovrà essere peccato veniale, bensì mortale...
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