5.4.15

Dante e la filosofia. Il Convivio commentato (Maria Corti)

Da anni, molti anni, si attendeva una edizione commentata del Convivio di Dante, che andasse oltre quella di Busnelli e Vandelli, ormai storicamente superata nonostante l'Appendice di aggiornamento dal 1935 al 1961 di Quaglio nella seconda edizione (1964). Ora, come dono natalizio alla cultura italiana, ecco l'ottima edizione a cura di Cesare Vasoli e Domenico De Robertis, che costituisce il Tomo I, Parte II, delle Opere minori (Ricciardi, pagg. 1107, lire 100.000). Descriviamo prima il volume dall'esterno: a Vasoli si deve l'acuta e aggiornatissima Introduzione (ben 89 pagine), oltre al vasto e puntuale commento a piè di pagina a tutta quanta l'opera in prosa, mentre De Robertis ha fatto un commento stilistico alle tre Canzoni con cui si aprono i Trattati II, III e IV.
Il Convivio è opera affascinante di un intelletto intrepido, in continuo moto, teso allo sviluppo delle concezioni più avanzate della cultura del suo tempo e ad un dialogo con esse, da cui traspaiono anche le personali crisi di pensiero, responsabili in parte dell'interruzione del Convivio dopo il Trattato IV, mentre all'inizio dall'autore ne erano previsti quindici (Dante stesso accenna nell'opera a quelli che sarebbero stati gli argomenti dei trattati VII, XIV e XV). E si tratta anche di un'opera che, come giustamente scrive Vasoli, nel corso degli ultimi cinquant'anni ha suscitato le più accese discussioni ed è stata al centro dei più diversi tentativi di fissare le grandi linee dell'itinerario spirituale del Poeta o di stabilirne le coordinate dottrinali, nel corso di una profonda crisi culturale, religiosa e politica destinata a generare la suprema esperienza della Commedia.
Non c'è da illudersi, Vasoli lo sa benissimo, che un ottimo commento significhi essere esaurito il commento al Convivio; e non solo per un principio generale, secondo cui un'opera di un grande artista non si identifica appieno con le sue decodifiche, ma perché nel caso specifico l'ultimo ventennio del nostro secolo ci ha offerto e ancora ci sta offrendo una graduale e continua intromissione, nella nostra cultura, di opere filosofiche medievali o di traduzioni medievali, passibili o meno di diretta lettura dantesca, finora sepolte nei manoscritti di varie biblioteche d'Europa e che ora, finalmente edite, ci vengono incontro tranquille e piene per noi di sorprese, di segreti in grado di illuminare punti oscuri dell'opera di quella intelligenza dalla curiosità vorace che fu la mente dantesca. Penso alle mirabili collane tedesche, danesi, statunitensi, al recentissimo (di qualche mese fa) completamento da parte degli editori di Colonia della stampa del Super Ethica, cioè del commento di Alberto Magno all'Etica Nicomachea, che fu importantissima fonte dantesca del Convivio. Questo è il principale motivo per cui oggi non possiamo più sbrigarcela coi commenti, per quanto illustri, del passato; e questo è il primo suggerimento e ammaestramento che proviene dal vasto e molto importante lavoro di Vasoli, il quale è perfettamente al corrente delle nuove edizioni filosofiche e dei contributi recenti alla storia del pensiero dantesco.
L'intelligente e agguerrita Introduzione mette inoltre a fuoco alcuni punti chiave, che troveranno specifica conferma nel corso delle preziose Note ai quattro Trattati. Uno di questi punti chiave è la parziale riduzione degli influssi sul Convivio dell'opera di San Tommaso a favore di quella di Alberto Magno, il maestro che forse ha più influito sulla sua formazione filosofica e scientifica. Di fronte a un'affermazione del genere finalmente si tira il fiato! Sì, perché, a leggere il commento di Busnelli e Vandelli o le riflessioni di Gilson, si riceveva l'impressione che Dante non sapesse scrivere senza la falsariga dei testi di San Tommaso, e che il Convivio fosse di conseguenza un blocco monolitico. Con la perdita, quindi, del fascino di un pensiero che invece si muove a suo agio tra vari modelli ed è estremamente dinamico, tanto da giungere alla soglia di esiti intellettuali persino drammatici. Alberto Magno, che non a caso fu maestro tanto di San Tommaso che di Sigieri di Brabante, ebbe un fecondo incontro con il pensiero di Aristotele e degli aristotelici e Peripatetici arabi. Probabilmente da lui Dante assume la nozione del connubio (come mostrai altrove) studium-amor, che gli farà scrivere in III, XII, 2: “Per Amore intendo lo studio lo quale io mettea per acquistare l'amore di questa donna”. La quale donna naturalmente è la filosofia aristotelica.
Al proposito Vasoli scrive: “Perché a fondamento del discorso del Convivio sta la profonda persuasione che l'auctoritas della Filosofia (e del filosofo per eccellenza, Aristotele, il maestro di color che sanno) deve essere sovrana e libera nel suo dominio, e che il suo fine è indicare la sola felicità a noi possibile in questa vita. Postillerei che nel Convivio l'esposizione dell'idea aristotelica di felicità conseguente alla contemplazione del Vero, per quanto eloquente, lo è meno della manifestazione dantesca della propria esperienza di felicità mentale: “Amor che ne la mente mi ragiona” è uno degli incipit in assoluto più belli della poesia italiana. A questo punto il poeta ha personificato la filosofia aristotelica come i pittori di affreschi, frequenti nel Sud d'Italia ma presenti ovunque, o i miniatori, hanno reso con una bellissima figura di donna con aureola crucifera la Aghia Sofia o Santa Sapienza dei Proverbi di Salomone. Un passo più in là fa Dante trasformando la filosofia in figura o allegoria d'amore. Ma questo stato di grazia finirà col Trattato III.
Un altro punto chiave del commento di Vasoli è appunto il riconoscimento di una cesura fra il Trattato III e il IV: in quest'ultimo, per una crisi di pensiero che ci è impossibile esporre qui, il poeta malinconicamente abbandonerà il linguaggio dell'amore perché è l'amore stesso per la filosofia puramente aristotelica a entrare in crisi. Tutto viene terremotato: al posto delle virtù etiche aristoteliche prenderanno quota, nel Trattato IV, le quattro virtù cardinali; all'idea di piena felicità, compatibile con la vita terrena, data dalla contemplazione filosofica, si sostituirà l'idea che, non potendo l'uomo sulla terra contemplare Dio se non per i suoi effetti, non c'è quaggiù alcuna piena felicità, situazione raggiungibile solo in Cielo. Mutato il genio regista, muta l'ottica delle cose; prende allora rilievo la discussione sulla nobiltà nelle sue varie accezioni, mutano le fonti e il linguaggio. Personalmente credo che la cesura porti anche a un distacco temporale.
La canzone in apertura del Trattato IV, Le dolci rime d' amor ch' i' solìa si stacca essa pure in modo sostanziale dalle precedenti perché non è più allegorica e, rifiutando le dolci rime a favore di un discorso di tipo argomentativo, offre segnali del mutamento di prospettiva dantesca. Un tutto che però non traspare dal commento di De Robertis, piuttosto asettico in quanto rivolto a illuminare linguisticamente e stilisticamente le strutture formali delle Canzoni in rapporto alla tradizione stilnovistica. Per concludere, siamo particolarmente grati a Vasoli che, avendo apprestato un commento volto a rendere lo sviluppo diacronico del pensiero di Dante, libera dall'imbarazzo definitorio che proveniva dal dover affiancare definizioni dantesche o citazioni fra loro divergenti (per esempio, a proposito del rapporto filosofia-teologia). E' il cammino stesso del pensiero dantesco, in special modo dai Trattati II e III al IV, a giustificare le divergenze: sono cose che succedono nell'universo della creazione, soprattutto ai Grandi. E un'altra riflessione si genera alla lettura di questo pertinente commento: l'importanza dell'interdisciplinarità, nel caso specifico della formazione e cultura filosofica del commentatore, che può abbondare in felici accostamenti e cogliere il senso di una lontana cultura, che è insieme filosofico-simbolica e artistica.


“la Repubblica”, 28 dicembre 1988  

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